di Salvatore Sfrecola
Sento ripetere dalle parti di Corso Vittorio Emanuele II, negli uffici del Ministro della Pubblica Amministrazione, l’ipotesi di ampliare la sfera di applicazione dell’articolo 19, comma 6, del decreto legislativo n. 165 del 2001, la norma che consente ai ministri di nominare dirigenti di primo e di secondo livello. È opinione mia e di quanti conoscono a fondo la Pubblica Amministrazione ed hanno senso dello Stato che quella norma non vada modificata, va abrogata.
Introdotta ad iniziativa del governo Amato, Ministro della pubblica amministrazione Franco Bassanini, la norma prevede il conferimento di incarichi dirigenziali a tempo determinato (tre o cinque anni), “entro il limite del 10 per cento della dotazione organica dei dirigenti appartenenti alla prima fascia… e dell’8 per cento della dotazione organica di quelli appartenenti alla seconda fascia”. “Tali incarichi sono conferiti, fornendone esplicita motivazione, a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale, non rinvenibile nei ruoli dell’Amministrazione, che abbiano svolto attività in organismi ed enti pubblici o privati ovvero aziende pubbliche o private con esperienza acquisita per almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali, o che abbiano conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria, da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro maturate per almeno un quinquennio, anche presso amministrazioni statali, ivi comprese quelle che conferiscono gli incarichi, in posizioni funzionali previste per l’accesso alla dirigenza, o che provengano dai settori della ricerca, della docenza universitaria, delle magistrature e dei ruoli degli avvocati e procuratori dello Stato.”
Attenzione, occorreva nell’incaricato una “qualificazione professionale, non rinvenibile nei ruoli dell’Amministrazione”. Un caso limite, dunque, quello che l’amministrazione non disponesse dell’occorrente professionalità. Un caso limite, perché, nella realtà, l’amministrazione pubblica dispone di tutte le professionalità occorrenti all’esercizio delle funzioni proprie. Nel senso che se un’amministrazione non dispone di un professionista può acquisirlo in comando o in distacco o in convenzione da un’altra struttura amministrativa nei cui ruoli sia presente. Un esempio che mi ha riguardato personalmente. Incaricato di presiedere la Commissione di collaudo del sistema di controllo del traffico navale nello Stretto di Messina (VTS) fui informato dell’esigenza di costruire una piccola struttura necessaria per collocarvi alcune apparecchiature elettroniche funzionali al sistema. Bisognava progettare un locale che, ancorché di piccole dimensioni, avrebbe richiesto un progetto che tenesse conto della elevata sismicità del luogo.
L’Ammiraglio Comandante del Corpo delle Capitanerie di porto (il progetto era di pertinenza dell’allora Ministero della Marina mercantile) mi fece osservare che la Marina dispone esclusivamente di ingegneri navali, per cui suggeriva di incaricare un professionista esterno per la progettazione dell’opera. Presi tempo e chiesi al Provveditore alle opere pubbliche della Sicilia di mettere a disposizione un ingegnere edile di valore che potesse progettare l’impianto. Fu così che la pubblica amministrazione utilizzò professionalità proprie con evidente risparmio, ma anche con piena soddisfazione delle due amministrazioni che, in sinergia, portavano a compimento un importante progetto.
Torniamo, dunque, all’art. 19, comma 6, snaturato da progressive modifiche con le quali è stata ampliata la possibilità di conferire gli incarichi perfino agli interni alla stessa amministrazione, in barba alla professionalità “non rinvenibile”. Una furbata che ha consentito alla politica di fare nomine a dirigente senza concorso a portaborse e ad amici degli amici, con il solo limite del possesso della laurea, ma solamente perché la Corte dei conti ha fatto quadrato. Infatti hanno tentato più volte di farne a meno. Quanto, poi, alla “particolare e comprovata qualificazione professionale” e alla “particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria, da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro maturate per almeno un quinquennio” basta scorrere quel che dicono i curricula per constatare, ad onta degli aggettivi usati, che quei requisiti sono, nel migliore dei casi evanescenti.
Che sia anche questo un motivo per il quale taluni politici vorrebbero ridurre lo spazio dei controlli di legittimità della Corte dei conti per avere mano libera nelle nomine, magari, com’è avvenuto ad esempio all’Agenzia delle entrate, premiando anche chi non aveva superato le prove nel concorso a dirigente? Dimenticando quel che ebbe a dire Quintino Sella in occasione dell’inaugurazione della Corte dei conti del Regno d’Italia, il 1° ottobre 1862. Ministro delle finanze ed esponente di primo piano della “Destra Storica”, rivolgendosi ai magistrati li invitava ad un severo controllo affermando che “della ricchezza dello Stato, di questo capitale della forza e della potenza di un paese voi siete creati tutori”. Aggiungendo che “è vostro compito il vegliare che il Potere esecutivo non mai violi la legge; ed ove un fatto avvenga il quale al vostro alto discernimento paia ad essa contrario, è vostro debito il darne contezza al Parlamento”.
Quanta distanza tra la destra del 1862 e la destra di oggi, che vorrebbe meno controlli e meno responsabilità in caso di danno erariale, cioè di un pregiudizio recato al bilancio ed al patrimonio pubblico con “colpa grave”, quella che per i romani, che il diritto lo hanno definito per tutti nei secoli, “dolo aequiparatur”, cioè è equiparata al dolo.
La polemica intorno a questi incarichi dirigenziali non si placa. Ricordo una osservazione del ministro della Difesa Guido Crosetto, rilasciata all’indomani della formazione del governo, quando in una intervista ha sostenuto che sarebbe stato necessario evitare che fossero prorogati gli incarichi di questi funzionari che, scelti dalle sinistre nei precedenti governi, non avevano la medesima cultura politica del nuovo governo. Così inquadrando correttamente l’uso che di questi incarichi era stato fatto. Crosetto non voleva che fossero confermati. Invece lo sono stati, anzi sono stati stabilizzati e adesso si pensa di ampliare la possibilità di ricorre a questi incarichi.
Voglio ricordare, tra coloro i quali si sono occupati del tema in modo critico con argomentazioni di tipo giuridico le quali tengono conto che il nostro ordinamento è improntato al “principio di legalità”, il dottor Roberto Alesse, Consigliere della Presidenza del Consiglio dei ministri, in atto Direttore dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli il quale, in un volume che ha avuto molto successo fra gli addetti ai lavori (“Il declino del potere pubblico in Italia”, edito da Rubbetino), aspramente critica il ricorso ampio e costante all’art. 19, comma 6. E sottolinea come “trattasi di una previsione legislativa che, oltre a urtare la suscettibilità professionale della classe dirigente vincitrice di concorso, moltiplica le aspettative dei funzionari di ruolo che ricoprono posizioni apicali nelle varie amministrazioni di appartenenza e che aspirano a diventare dirigenti attraverso ulteriori prove selettive rispetto a quelle di ingresso”.
Una responsabilità della politica, spiega Alesse, che deve smettere di addossare colpe alla dirigenza, ben sapendo che questa è figlia, in gran parte, delle sue sciagurate decisioni legislative e normative, le quali le consentono ancora, guarda caso, di nutrire un interesse morboso per le nomine delle persone affiliate a essa, chiamate, a volte senza avere uno straccio di competenza tecnica, a ricoprire posti “chiave” specie in quelle amministrazioni che detengono, al loro interno, rilevanti centri di spesa”.
Avremmo esempi per riempirne di pagine!