di Salvatore Sfrecola
Il rapporto tra politica e magistratura è da sempre difficile. Chi è eletto dal popolo (ancor più se “nominato” dalle Segreterie dei partiti) ritiene che al popolo debba rispondere sempre e in ogni caso, trascurando che all’elettorato deve rendere conto delle scelte politiche ed ai tribunali degli atti che un giudice ritiene in conflitto con le leggi che la stessa classe politica si è date. Eppure, questa regola semplice, di facilissima comprensione, viene sovente trascurata, dando luogo a polemiche che non fanno bene alla democrazia perché instillano nell’opinione della gente elementi di sfiducia nei confronti delle istituzioni, gravissimi quando viene indicata come “di parte” l’azione dei magistrati.
Ora, non è dubbio, come ha messo in risalto alcuni anni fa Giuseppe Valditara, Professore ordinario di diritto romano ed oggi Ministro dell’istruzione, in un libro intitolato “Giudici e legge” (in Biblioteca di Storia e Politica diretta da Domenico Fisichella, Pagine editore, 2016) che all’interno della magistratura vi siano correnti di pensiero di evidente ispirazione politica, che alimentano alcuni orientamenti interpretativi della legge che vorrebbero che non si facesse riferimento ai criteri dettati dalle disposizioni preliminari al codice civile, le cosiddette preleggi, ma ad uno spirito di convergenza con il sentire popolare, che dà luogo ad una interpretazione libera che è il contrario esatto di quello che il legislatore ha voluto per dare certezze al cittadino sulle regole.
Ma è anche vero che i fautori di questo orientamento sono una minoranza sia pure rumorosa nell’ambito della magistratura, rappresentano una deviazione dalla corretta applicazione della legge che va contrastata in modo diverso da quello che i politici pretendono. Premessa teorica necessaria per capire cosa non va in quanto scrivono alcuni giornali quanto alle inchieste giudiziarie che interessano, da un lato, l’ex Presidente della Regione Liguria, Giovanni Toti, e, dall’altro, il Vicepresidente del Consiglio dei ministri, Matteo Salvini, per il comportamento tenuto, da ministro dell’Interno del governo Conte1, in occasione della gestione di coloro i quali erano stati tratti in salvo dalla nave Open Arms e trattenuti a lungo dinanzi ad un porto italiano.
Nel primo caso c’è un’inchiesta che evidentemente aveva colto nel segno se l’interessato ha preferito patteggiare la pena, istituto al quale si ricorre quando non si è in condizioni di dimostrare la propria innocenza, nel secondo la vicenda per grandi linee mi sembra infondata, se è vero quel che dicono i giornali che si sia confuso il salvataggio in mare, che c’è stato, con lo sbarco in un porto dello Stato, ritardato per motivi che, a prima vista, riguardano una scelta politica.
In ogni caso la reazione critica all’azione della magistratura, da parte della politica e di alcuni organi di stampa, è stata sproporzionata ma capace di fomentare una polemica della quale non sentivamo proprio bisogno. Con dei giornali, asseritamente “di destra” (i miei lettori sanno che questa qualificazione politica a me sembra in molti casi azzardata) i quali parlano di “via giudiziaria alla politica” (Stefano Zurlo su “Il Giornale”) facendo una confusione che non giova alla politica, come se la magistratura andasse all’attacco del politico in quanto tale, per scelte politiche e non perché in quel momento applica o non applica delle norme. O per come la magistratura ritiene debbano essere applicate.
È un gioco antico al quale ha dato inizio in tempi più recenti Silvio Berlusconi, indagato per fatti che attenevano alla sua attività di imprenditore il quale, una volta sceso in politica, invece di impersonare il nuovo ruolo di governante ha cercato di buttarla in caciara, come si usa dire, come quando intervistato da Boris Johnson per “The Spectator” e dalla “Voce di Rimiti” arrivò a dire che per fare i magistrati bisognava essere malati di mente e antropologicamente diversi dalla razza umana, come ha ricordato Giancarlo Caselli, già Procuratore della Repubblica di Palermo e di Torino, intervistato da “Il Fatto Quotidiano”. Un linguaggio evidentemente che non si attaglia ad un Presidente del Consiglio che dovrebbe rappresentare l’istituzione governativa, uno dei poteri dello Stato e quindi esprimersi di conseguenza.
E così parte della politica e parte della stampa ha preso l’abitudine di attribuire un colore alle toghe a seconda delle decisioni assunte. Un modo sbagliato di polemizzare, gravemente diseducativo perché induce nei cittadini sfiducia nei giudici e quindi li spinge a diventare anche essi riottosi di fronte alla legge, con l’effetto di non far emergere i giudici che applicano correttamente la legge.
Voglio ricordare, visto che uno degli elementi ricorrenti nel dibattito politico-giornalistico quasi quotidiano è il confronto tra fascismo e antifascismo, che il Cavalier Benito Mussolini, il quale non era certo rispettoso delle regole della democrazia parlamentare nella quale era entrato a gamba tesa, come si usa dire, quando ha voluto perseguire i nemici politici del regime ha creato il “Tribunale speciale per la difesa dello Stato” evidentemente convinto che i “reati contro la sicurezza dello Stato” per la natura “politica” della fattispecie criminosa non sarebbero stati perseguiti dai tribunali ordinari, ben consapevole del fatto dell’indipendenza dei magistrati. In un altro contesto il Duce ogni volta che è entrato in contrasto con la Corte dei conti, che più volte non ha ammesso al visto e alla registrazione suoi provvedimenti, in particolare nomine, ha fatto ricorso alla registrazione “con riserva” così assumendosi nei confronti del Parlamento una responsabilità politica anche se solo virtuale nel contesto politico dell’epoca.
Il consiglio, evidentemente non richiesto e che rimarrà sicuramente inascoltato, che mi sento di rivolgerle alla classe politica, a quella alla quale sono più vicino, che oggi protesta rumorosamente, e all’altra che si fa paladina della magistratura che spesso ha indotto ad assumere posizioni di parte, è che gli uni e gli altri sbagliano perché il rispetto del ruolo delle istituzioni è parte essenziale di quel senso dello Stato che spesso si richiama come una clausola di stile nel dibattito politico senza che coloro i quali vi fanno ricorso dimostrino in concreto dei credervi effettivamente.