di Salvatore Sfrecola
Prendo lo spunto da alcune considerazioni del Prof. Alessandro Barbero, storico del Medio Evo con una grande capacità di divulgazione. Ebbene, di recente su TikTok ha detto: “l’Italia è un Paese complicato. L’Italia è un Paese di profonde differenze, gli italiani sono una nazione non nel senso in cui lo sono i francesi. I francesi sono una Nazione omogenea dove i dialetti sono praticamente spariti e tutti parlano sostanzialmente la stessa lingua in tutta la Francia dove perfino lo stile con cui sono costruite le case, le chiese si assomiglia molto anche fra zone che nel medioevo erano estranee nel modo più totale come la Provenza o la Normandia. L’Italia non è così, ma questo non vuol dire che non sia una Nazione e neanche che lo sia diventata più tardi. Secondo me l’Italia è una nazione caratterizzata dal fatto di avere al suo interno enormi differenze il che non impedisce affatto che si sia tutti italiani”.
Le “profonde differenze” del Prof. Barbero sono una realtà preziosa e costituiscono una ricchezza per l’intero Paese perché sono la conseguenza di esperienze maturate nel corso dei secoli sulla base delle condizioni ambientali e delle storie politiche, culturali, economiche che hanno caratterizzato i vari territori. Perché il “bel Paese” è relativamente piccolo ma esteso in lunghezza da Nord a Sud con climi diversi, come si nota in questi giorni, con piogge intense a Nord e temperature estive al Sud e nelle isole maggiori. Naturalmente con il clima variano la vegetazione e l’agricoltura e le attività connesse.
Quel che caratterizza i territori è anche la profonda diversità delle esperienze politiche e culturali. Sicché, anche città e borghi pur a distanza di pochi chilometri hanno sperimentato ordinamenti diversi e storie politiche profondamente diverse. Si pensi ai comuni della Toscana, alle città libere della Puglia, al Regno di Federico II, ai principati che nel corso del tempo hanno attuato forme di democrazia e di assolutismo non sempre illuminato. Si pensi alla presenza della Chiesa di Roma che, se ha contribuito ad ostacolare nel corso dei secoli l’unità del Paese fino al 1861, ha favorito con chiese, abbazie e conventi la realizzazione di opere d’arte straordinarie, in competizione col mecenatismo di sovrani, famiglie nobili e Capitani del Popolo. Ovunque.
Questa diversità delle storie dei territori, per riprendere le parole del Prof. Barbero, “non impedisce affatto che si sia tutti italiani”. Tuttavia, questa considerazione, certamente di moltissimi, stenta ad essere condivisa in alcuni ambienti che appaiono legati esclusivamente alla cultura e alla storia del territorio nel quale sono nati e che normanni, francesi, spagnoli e austriaci hanno occupato e amministrato, taluni bene, altri meno, così infrangendo il senso dell’unità nazionale che era stato affermato al tempo di Roma. Ne dà conto anche l’inno nazionale quando ricorda che “Noi siamo da secoli/ Calpesti, derisi,/ Perché non siam popolo,/ Perché siam divisi”.
Eppure, c’è stato un momento nella storia d’Italia nel quale l’unità è stata forte, sia nella fase di formazione dello Stato unitario quando una élite di persone, provenienti da ogni angolo d’Italia, ispirate ai valori della libertà, monarchici e repubblicani, hanno voluto questo stato nonostante momenti di difficoltà e l’incomprensione spesso dei ceti popolari (in alcune regioni d’Italia l’analfabetismo si attestava oltre il 90%) coinvolti nelle guerre “di indipendenza”. Siamo anche tutti consapevoli del fatto che la Prima Guerra Mondiale è stata veramente un impegno di tutto il popolo, quando italiani provenienti da tutte le regioni, come rivela la denominazione dei reggimenti e delle brigate si sono trovati l’uno accanto all’altro nelle trincee e sugli altopiani dando dimostrazione straordinaria di coraggio.
Questa Italia “complicata” e con ”profonde differenze” fa oggi i conti con i possibili effetti della legge c.d. Calderoli sull’autonomia differenziata nei confronti della quale si alzano barricate un po’ ovunque, non solo al Sud che evidentemente affronterebbe la nuova realtà istituzionale in condizioni di difficoltà dovute a varie ragioni. Perché, come ricordo spesso, se Cristo si è fermato a Eboli, quando ne ha scritto Carlo Levi, oggi l’alta velocità si è fermata a Salerno, così contraddicendo quello che diceva nel 1846 Camillo Benso di Cavour, che ancora non era in politica, il quale sosteneva che le ferrovie avrebbero unificato l’Italia, a dimostrazione di una visione complessiva del Paese che guidava le sue riflessioni. Ed affermava che con il treno le merci del Sud delle quali stimava l’importanza sarebbero state portate al Nord e in Europa. Inoltre lo stesso mezzo avrebbe consentito ai tanti che venivano già allora in Italia per diporto o per turismo, alla ricerca dell’aria salubre ed a visitare le nostre città d’arte, di recarsi da Milano a Torino, a Venezia, Firenze, a Roma, a Napoli in Sicilia e così via. Ed aggiungeva che, essendo l’Italia un promontorio sul Mediterraneo, il nostro Paese sarebbe stata la porta d’Europa sul Medio e l’estremo Oriente. Porteremo le merci in Cina sosteneva.
Di questa intuizione al Sud è rimasto poco perché è evidente che quelle infrastrutture che gli antichi romani hanno portato in tutta Italia e in tutto il bacino del Mediterraneo, strade, porti e acquedotti non si sono trasformate per l’Italia meridionale e le isole in altrettante autostrade e strade ferrate. Anche i porti, che Cavour esaltava, Napoli e Palermo, non hanno la capacità di affrontare, con successo, la concorrenza degli altri porti del Mediterraneo.
Quindi è legittima la protesta che si sviluppa in Italia meridionale contro l’autonomia differenziata che presuppone logicamente un punto di partenza comune perché altrimenti non avrebbe senso logico attribuire alle regioni ulteriori poteri rispetto a quelli già assegnati dalla riforma del Titolo V.
Su questo voglio essere chiaro. Credo che l’esperienza regionale non sia un fatto positivo, credo che le regioni che hanno un bilancio essenzialmente costituito da risorse statali trasferite per le esigenze della sanità non abbia portato, anche nei confronti degli enti locali, dei vantaggi significativi.
Appartengo a quell’orientamento, che sento sempre più spesso condiviso, che vorrebbe sic et simpliciter l’abolizione delle regioni che, tra l’altro, non hanno nella maggior parte dei casi territori con una storia comune, mentre sarebbe più importante la valorizzazione delle province che hanno invece un valore storico ambientale culturale economico perché, nel corso del tempo, in quelle aree più ristrette si sono sviluppati importanti realtà istituzionali, culturali ed economiche. Del resto, Marco Minghetti, all’indomani della formazione del Regno d’Italia, aveva proposto l’istituzione di consorzi di province cioè di realtà istituzionali con una forte connotazione omogenea.
Mi rattrista, dunque, sentire istanze separatiste, a Nord come al Sud, che rinnegano i valori dell’unità nazionale come manifestava un certo tempo la Lega che si qualificava “per l’indipendenza della Padania”, una realtà storico ambientale che non esiste. E ritengo assurda la rivendicazione delle “meraviglie” della Regno delle Due Sicilie che già nell’espressione reca una bugia: la Sicilia ha sempre contrastato il carattere Napoli-centrico del Regno, tanto che più volte si è ribellata e la città di Messina è stata bombardata dalla flotta del Regno di Napoli.
In questo contesto sono comparsi personaggi che promuovono odio nei confronti di altri italiani alimentato da una narrazione di episodi della guerra al brigantaggio che considerano come una guerra perduta di liberazione nei confronti dello Stato nazionale.
È una cosa tristissima che si basa su un impianto generale infondato, che tratta di alcuni episodi di crudeltà, ovviamente dall’una e dall’altra parte, che vanno contestualizzati perché lo Stato nazionale all’epoca contro i briganti, una realtà notoriamente endemica, si muoveva con l’esercito mentre più di recente, al tempo della rivolta di Reggio Calabria, si è mosso con i Carabinieri e la Polizia, quindi con una visione tutto diversa. Poi, mi chiedo che senso abbia oggi evocare episodi, veri o presunti, peggio se presunti di crudeltà per alimentare questa divisione tra italiani che nella mia cultura e nella cultura della mia famiglia e delle persone che mi sono vicine non è stata mai presente perché per me un italiano di Bolzano e uno di Palermo sono la stessa cosa. Magari sorrido per l’accento vagamente tedesco del bolzanino e per la cadenza siciliana, come della calabrese o della pugliese.
Dobbiamo sentirci tutti italiani, dobbiamo sentire l’orgoglio di essere terra di grandissimi uomini di cultura, di storia, di arte e dobbiamo a tutti gli ambiti territoriali garantire la medesima economia, la medesima scuola, la medesima sanità perché è questo il compito dello Stato. E se antiche distinzioni si sono aggravate questo è responsabilità delle regioni e quindi della classe politica regionale non di rado condizionata anche da elementi malavitosi.
Spetta alla politica dimostrarsi consapevole di guidare un grande popolo perché l’Italia divenga un grande Stato, come auspicava Cavour in uno straordinario discorso parlamentare sulla necessità che Roma ne fosse la capitale.