di Salvatore Sfrecola
Una mia compagnuccia delle elementari ricordava spesso che prima di rispondere è bene contare fino a dieci. Ripeteva evidentemente un insegnamento imparato in famiglia. Quella pillola di saggezza mi è tornata in mente più volte nel sentire le esternazioni dei politici. E nuovamente ieri, quando personalità del governo e del Parlamento hanno criticato la decisione del Tribunale di Roma che non ha convalidato l’assegnazione di alcuni migranti alla struttura appositamente costruita in Albania. “Comandano i giudici” o “I giudici condannano il Governo”, si è letto in alcuni titoli di giornale quando ispirati a destra o a sinistra. Anche i giornali, come i politici, non hanno contato fino a dieci prima di prendere carta e penna o, più probabilmente, di mettere mano alla tastiera del computer. Non entro nel merito della decisione dei giudici romani. Le sentenze, sappiamo, si possono criticare ma vanno rispettate, da tutti, soprattutto da chi riveste un ruolo istituzionale al Governo o in Parlamento. Perché non giova a nessuno diffondere l’idea che i giudici siano “di parte”. In primo luogo, perché l’attribuzione di un colore ad una toga è molto spesso azzardata. Dipende dalla posizione politica di chi prende in mano la sentenza, per cui è stato definita “toga rossa” più di un giudice notoriamente “conservatore”. Poi perché si ingenera nel cittadino sfiducia nell’Istituzione posta a presidio dei suoi diritti. Con la conseguenza che si può giustificare tutto, anche la rivolta che dalle parole, come sappiamo, a volte passa ai fatti.
Una premessa indispensabile per gettare acqua sull’ira governativa e sul giubilo delle opposizioni. Le sentenze che non piacciono si appellano “fino in Cassazione”, come ha detto il Ministro Piantedosi, il più toccato sul piano istituzionale, dalla bocciatura della norma che ha giustificato l’invio in Albania di alcuni migranti provenienti dal Bangladesh e dall’Egitto.
Contare fino al dieci, dunque, per riflettere, per rientrare nel proprio abito istituzionale, e per verificare se la normativa che non è stata interpretata come il Governo avrebbe voluto non sia stata, per caso, scritta male, cosa non rara negli ultimi anni nei quali si segnala un progressivo degrado delle funzioni pubbliche, come del linguaggio delle leggi e dei decreti, spesso incomprensibili e non di rado inidonei a perseguire gli obiettivi che l’autore si era prefissati. Un po’ di umiltà, dunque, è necessaria, con l’aggiunta di un sano realismo che avrebbe dovuto consigliare nei leader dei partiti della maggioranza una più accurata provvista di personale di governo e parlamentare e dei loro più stretti collaboratori, quelli che scrivono materialmente le leggi trasferendo nelle norme il pensiero, la volontà dei politici. Contando fino a dieci, e in qualche occasione un po’ di più, si sarebbe evitato spesso di fare errori che non è giusto addebitare a chi esercita il controllo di legalità, le magistrature, ordinaria, amministrativa e contabile le cui pronunce possono essere censurate in appello ma non svilite attribuendo un colore ad una toga. Neppure quando fosse evidente, come a volte certamente è stato, una interpretazione “libera” delle norme.
Il rispetto dei rispettivi ruoli è fondamentale esempio di civiltà. E non va trascurato, perché il cittadino non è così sprovveduto come spesso la politica ritiene. Comprende, magari in ritardo, e si fa un’opinione che, al momento opportuno, riversa in sede elettorale, magari disertando le urne.