martedì, Ottobre 22, 2024
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Una questione di stile

di Salvatore Sfrecola

Nei talk show, quando il dibattito assume toni aspri il conduttore silenzia i microfoni. Vorrei, da uomo che crede nelle istituzioni, che fossero silenziate oggi alcune espressioni polemiche nel dibattito pubblico e giornalistico seguito alla decisione dei giudici del Tribunale di Roma di rimandare in Italia alcuni dei migranti che erano stati accompagnati in Albania. Sembra assodato che si tratti di un problema di interpretazione delle norme di attuazione della legge, tanto è vero che il Governo, dopo aver sostenuto per bocca del Ministro Piantedosi dissenso rispetto alla decisione dei giudici, dicendosi pronto a ricorrere fino in Cassazione, si appresterebbe domani in Consiglio dei ministri ad adottare una normativa primaria che non consenta dubbi all’interprete.

Contrasti sull’interpretazione di una sentenza sono naturali e costantemente accompagnano le pronunce dei giudici di ogni giurisdizione che, privati o pubbliche amministrazioni appellano, quando non le condividono. Avviene quotidianamente. Naturalmente chi appella ritiene che la sentenza sia infondata o ingiusta ma normalmente evita di alzare i toni della polemica perché non giova a nessuno introdurre nell’approfondimento di una particolare fattispecie elementi di contrasto, diciamo così, ideologici. Ora è indubbio che nell’attuale contesto si sia ricorso ad espressioni che non avrei voluto sentire, né da esponenti del governo né da alcuni elementi della magistratura, perché il dovere di ognuno è di non interferire nelle attribuzioni proprie degli altri poteri dello Stato. Quindi la magistratura ha il dovere di rispettare Governo e Parlamento ma può, perché è nella logica del sistema, dissentire da una interpretazione che la maggioranza politica dovesse ritenere quella corretta. Anche ricorrendo alla Corte costituzionale ove la norma applicata sia ritenuta lesiva di un principio della Carta fondamentale. Ugualmente il Governo se non vede condivisa l’interpretazione della norma che viene applicata ha due strade, dell’appello e del conflitto di attribuzioni ove ritenesse che il potere politico abbia “esondato”, come si è espresso il Ministro Nordio rispetto ai poteri che sono propri dell’organo giudicante. 

Capisco qualche elemento polemico ma qui, da una parte e dall’altra i toni sono eccessivamente elevati e non giovano a nessuno dei due “contendenti”. Perché, al di là della condivisione che all’una tesi e all’altra può venire da parte dei cittadini, alla lunga queste contrapposizioni danneggiano l’immagine delle istituzioni. I giudici non si devono risentire se il Governo ritiene che la norma sia stata interpretata in modo non corretto e il Governo non deve ritenere che giudici abbiano manifestato un’opinione “pregiudizialmente” contraria.

Pregiudizialmente significa che l’applicazione della norma poggia su una interpretazione che si ispira ad orientamenti ideologici, sostanzialmente politici, della quale abbiamo numerosi esempi, come ha segnalato alcuni anni fa Giuseppe Valditara, oggi Ministro dell’istruzione, in un libro “Giudici e legge” (Pagine editore, Roma, 2015) nel quale ha dato conto di talune impostazioni di ambienti della magistratura, segnatamente di Magistratura Democratica, che propendono per una interpretazione della legge che non tiene conto delle regole ermeneutiche indicate nell’art. 12 delle Disposizioni sulla legge in generale. Questo i giudici non devono fare, anche se su questa linea si sono attestati illustri giuristi, a cominciare da Paolo Grossi, già Presidente della Corte costituzionale, secondo il quale l’interprete “recupera il suo carattere attivo, specchio e coscienza di esigenze che possono non essere identiche a quelle pressanti al momento di produzione della norma”. Per cui “l’interprete si trasforma nella garanzia della storicizzazione della norma” in barba anche al principio di “gerarchia delle fonti” (Storicità del diritto, Jovene, Napoli, 2006). Con quali effetti sulla certezza del diritto appare evidente.

Tuttavia, anche quando si rilevano siffatte forzature è bene che le istituzioni non gettino benzina sul fuoco delle polemiche, come nei commenti ad una mail del Sostituto Procuratore della Cassazione Marco Patarnello che individua nel Governo e segnatamente nel Presidente del Consiglio un pericolo, “avendo come obiettivo la riscrittura dell’intera giurisdizione” per concludere che “il pericolo per una magistratura e una giurisdizione davvero indipendente è altissimo”. Valutazione inopportuna ma certamente di politica generale su un tema, l’indipendenza della magistratura, che è stato oggetto di pronunce della Corte di giustizia UE a proposito di riforme attuate in Polonia ed in Ungheria. 

Ho anche ricordato più volte che contrasti fra potere politico e magistratura ce ne sono stati sempre perché la politica è restia ad accettare il controllo di legalità dei giudici e, spesso, delle Autorità indipendenti, come evidente nelle critiche mosse di recente alla Corte dei conti (anch’essa accusata di invasioni di campo) e all’Autorità Nazionale Anticorruzione (A.N.C.), ciò nella convinzione che delle scelte amministrative la politica debba rispondere all’elettorato e non ai giudici. Questo evidentemente non è esatto, perché l’elettore conosce delle politiche pubbliche per grandi linee, con riferimento agli obiettivi non alla loro attuazione, ad esempio agli appalti di acquisto di beni e forniture, laddove si può nascondere un illecito o un pregiudizio erariale. 

Per tornare all’attualità la maggioranza degli italiani ha dimostrato col voto di condividere una politica di contenimento dell’immigrazione clandestina alla quale il Governo ha inteso dare attuazione in forme varie che non sono dettagliate nei programmi elettorali.

Ho dunque invitato tutti ad una maggiore cautela, soprattutto da parte del governo e delle forze politiche di maggioranza, convinto che il desiderio naturale di alzare il tono dello scontro, ritenuto capace di acquisire nuovi consensi (la Magistratura non è particolarmente amata), alla lunga non paghi se chi governa non dimostra l’autorevolezza propria dell’Istituzione che è certamente determinazione dell’agire ma nello stile proprio di uno Stato liberale.

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