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Arruolati per denigrare la Corte dei conti da chi vuole “mani libere”

di Salvatore Sfrecola

C’è un dato che inequivocabilmente denuncia la strumentalità di certe campagne politiche e giornalistiche, la manipolazione della verità. Che poi è la mancata comprensione dei fenomeni presi in esame per costruire una tesi su elementi conoscitivi evidentemente non conosciuti. È quello che sta accadendo alla Corte dei conti aggredita da ambienti della maggioranza governativa e da alcuni giornali con argomentazioni speciose, secondo le quali le “toghe contabili costano molto, producono poco. Però strillano”. E così, per La Verità, la Corte che “dovrebbe vigilare per impedire lo sperpero di denaro pubblico, invece di essere il baluardo della buona amministrazione è diventata essa stessa simbolo di come in Italia si buttano i soldi dei contribuenti”. Affermazione grave, desunta dall’interpretazione non ragionata di alcuni dati riferiti al numero delle udienze e delle sentenze, peraltro pedissequamente ripresi da Libero,smentiti da un comunicato ufficiale della Presidenza della Corte dei conti che ha precisato la realtà dei numeri.

In ogni caso, non è questo l’approccio corretto all’attività della Corte vista esclusivamente come giudice della responsabilità per danno erariale, cioè per quei comportamenti di amministratori e funzionari pubblici i quali con “colpa grave”, intesa come macroscopica negligenza, imprudenza o imperizia o disattenzione per le regole della gestione pubblica, abbiano prodotto allo Stato o ad un ente pubblico una perdita finanziaria, una spesa eccessiva o non dovuta, o un danno patrimoniale.

I giornali segnalano ogni giorno, con crescente indignazione dei cittadini, casi di sprechi, del tipo ormai famoso delle mascherine farlocche e dei banchi a rotelle costati milioni e rimasti inutilizzati. Il giornale però trascura di dire, perché non fa comodo, che alla Corte è stato impedito di perseguire questi fatti fin dal 2020, da quando una norma del decreto legge n. 76 (Governo Conte1) ha previsto che fosse sospesa la possibilità di agire nei casi di colpa grave. Norma provvisoria, confermata dal Conte2, dal Draghi1 e dal Meloni1. In pratica una norma che non ha distinto le fattispecie dannose ma ha impedito l’esercizio dell’azione risarcitoria tanto per i fatti collegati al covid quanto per ogni altro caso di danno erariale, compresi banalissimi incidenti stradali. Avendo preso gusto a questa impunità, la proroga, ancora in corso, ha interessato la gestione del PNRR, nonostante l’Unione europea abbia emanato un regolamento che prevede il recupero delle somme illegittimamente erogate.

Naturalmente la norma di cui si è fatto cenno, assentita dal Presidente della Repubblica che viene dipinto a giorni alterni quale nemico del governo Meloni, come tutte le cose poco commendevoli, viene giustificata con un argomento di facile presa sull’opinione pubblica del quale non si è percepita appieno l’infondatezza. Si è bloccata la responsabilità per colpa grave perché la sua stessa esistenza determinerebbe negli amministratori e nei funzionari il “timore della firma”, preoccupati di vedersi addebitare una somma pari al danno effettivamente da loro prodotto. Tesi infondata, perché la colpa grave, come si è detto, prevede una macroscopica negligenza, imprudenza o imperizia. Grave, tanto che i romani, che la chiamavano “culpa lata” aggiungevano “dolo aequiparatur” è equiparata al dolo cioè vicina ad una condotta caratterizzata da una volontà che comprende la percezione dell’effetto dannoso è preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione.

Così stando le cose è evidente che le azioni risarcitorie si sono pressoché annullate. Ora la proposta di legge di iniziativa dell’onorevole Tommaso Foti propone di risolvere il timore della firma prevedendo che il giudice contabile, una volta accertato il danno per “colpa grave” possa condannare il responsabile ad un risarcimento fra 150 euro, nemmeno il costo delle marche da bollo, e l’importo di due annualità di stipendio, prevedendo nel contempo l’obbligo dell’assicurazione. Ciò che, dicono i difensori dell’iniziativa, consentirebbe l’integrale ristoro del danno. No, l’integrale pagamento della somma addebitata anche se non corrisponde all’effettivo pregiudizio erariale.

Si tratta di una colossale presa in giro del cittadino sulle cui spalle graverà il danno provocato dal pubblico funzionario infedele o incapace. Perché di questo si tratta. Spero che chi ha difeso questa iniziativa si vergogni un po’. Anche perché in assenza della possibilità di chiamare i responsabili in giudizio viene meno l’effetto deterrente del giudizio contabile, che gli incapaci e i disonesti temono. Infatti assai spesso in passato, nel corso delle istruttorie, le amministrazioni si sono impegnate a sanare le situazioni di danno recuperando le somme oggetto delle indagini della Procura contabile.

C’è poi la tematica del giudizio sui conti degli agenti che gestiscono denaro, valori o beni pubblici, che caratterizza le più antiche istituzioni di controllo, come il collegio dei Logisti che nell’ordinamento ateniese, come riferisce Aristotile, esaminavano le contabilità degli amministratori in uscita dalla carica e se responsabili di una perdita erano tenuti a restituire il doppio, altro che i 150 euro o le due annualità di stipendio della proposta Foti!

Ma non si chiude qui il capitolo Corte dei Conti, perché la magistratura contabile è anche titolare di importanti funzioni di controllo, preventivo di legittimità sugli atti e consuntivo sulle gestioni riferite al bilancio dello Stato. Inoltre la Corte, ai sensi dell’art. 100, comma 2, della Costituzione esercita il controllo sulla gestione finanziaria degli enti ai quali lo Stato contribuisce in via ordinaria. Si tratta di gestioni importanti dalla Corte vigilate in molti casi attraverso la partecipazione di un magistrato alle riunioni degli organi di amministrazione e di revisione. Quella presenza si è rivelata sempre preziosa e gradita perché ha svolto un ruolo di collaborazione sulle tematiche delle gestioni in atto.

Come si valuta questa presenza, come se ne deduce un effetto positivo sull’attività degli enti che spesso sono rilevanti? Un tempo l’I.R.I., l’E.N.I, l’EFIM, poi Finmeccanica, oggi Leonardo? Chi fa le affermazioni dalle quali abbiamo preso le mosse dimostra di non conoscere l’Istituto che con tanta faciloneria denigra per soddisfare una parte politica.

Ma c’è un’altra attività che è rilevante è che forse anche per questo muove le aggressioni alla Corte dei conti. La Corte riferisce al Parlamento annualmente sui risultati del controllo eseguito sulla gestione del bilancio dello Stato. Questo documento, che si colloca in un prezioso rapporto di collaborazione con le istituzioni, con il Governo ma anche con il Parlamento, del quale è stata definita “longa manus” dà conto delle osservazioni che la Corte ha ritenuto di dover formulare sulla gestione dell’esercizio precedente rispetto a quello delineato nel bilancio di previsione per il nuovo anno. In pratica, nell’attuale sessione di bilancio, i parlamentari che esaminano la validità delle proposte governative contenute nel disegno di legge del bilancio di previsione per il 2025 trovano in allegato la relazione della Corte sulla gestione dell’ultimo esercizio che si è concluso che è il 2023, ovviamente perché il 2024 è ancora in corso.

I parlamentari hanno a disposizione delle considerazioni che la Corte ha svolto nel corso dell’esercizio e che dimostrano se e come è stato gestito il bilancio del 2023. Questo serve a dimostrare la validità o meno delle previsioni che sono contenute nel disegno di legge del bilancio del nuovo anno. Tant’è vero che in questi giorni sono state rese note dalla stampa alcune considerazioni che la Corte ha svolto.

Che sia questo il motivo delle critiche alla Corte? I “fastidiosi” controlli, graditi dal Camillo di Cavour e dalla destra storica e, forse, avversati dalla destra moderna. La Corte dei conti è il primo amico del governo e delle istituzioni che abbiano cura del senso dello Stato e della stampa libera che interpreta le aspettative dei cittadini, anche quella minima che vuole che il denaro provenienti da imposte e tasse, cioè dalla tasche dei cittadini, sia destinato alle finalità previste dalla legge nel rispetto dei princìpi di efficienza efficacia ed economicità.

“Conoscere per deliberare”, scriveva Luigi Einaudi. Conoscere, anche le cose sulle quali si scrive, come elementare dovere professionale.

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