di Dora Liguori
Con questa frase, memoria d’avanspettacolo, i capocomici delle compagnie di varietà, genere di spettacolo in voga, in Italia, tra gli anni 40 e 60 del Novecento, dopo una serie di spettacoli scarsi di pubblico, così solevano informare la compagnia. In poche parole, dicevano che, non essendoci la possibilità, per scarsezza di mezzi, di continuare a mettere in scena uno spettacolo decente nonché pagare i componenti della compagnia, la medesima veniva sciolta e… tutti a casa. Unica alternativa, aggiungeva furbescamente il capocomico, se non si voleva proprio tornare a casa, era quella di continuare la cosiddetta tournee, nella speranza di un pubblico più generoso e di migliori incassi. A quel punto, aggiungeva anche, c’era l’esigenza di ridimensionare lo spettacolo che sarebbe stato ricco di sola passione teatrale mentre, parlando di artisti, scene e costumi: pochissimi soldi, tanta cartapesta, qualche lustrino e molti stracci.
Tutto ciò, molto bene ci è stato raccontato da alcuni bravissimi registi nei loro divertenti e anche amari film.
Pertanto, che dire? Il Simon Boccanegra, spettacolo che ha inaugurato – venerdì 27 novembre – la stagione lirica del teatro della capitale ha, fatalmente, riportato alla mente quei poveri spettacoli raffazzonati, privi com’erano di possibilità economiche, mentre non credo affatto che sia questa la situazione che vive il teatro capitolino. Eppure, questo il pubblico ha dovuto vedere con la sola fortuna che, a fronte di miserande scene e costumi, almeno per una volta la compagnia di canto, diretta dal bravo Michele Mariotti, fosse superlativa, dando anche il meglio di sé.
Per il resto, il teatro, non avendo, molto ipoteticamente, neppure una lira, o meglio un euro, dava l’dea, come sopra detto, di non potersi permettere che stracci per costumi e squallido cartone pressato per le scene.
Peccato davvero, poiché inaugurare la stagione con questo titolo, mancante da Roma dal 2012, è stata senz’altro un’ottima scelta se a guastare non ci fosse stato il “contributo” del regista inglese Richard Jones. Costui, infatti, nella scia di una consolidata quanto improponibile e impopolare prassi, essendo poco fiducioso delle scelte di Verdi e del librettista Boito e, soprattutto, manomettendo il dramma teatrale del 1843 dello spagnolo Garcia Gutierrez, ha trasportato dal Trecento ad oggi la vicenda del corsaro Simon Boccanegra che, a furor di un popolo stanco della nobiltà imperante, lo fa divenire doge della città marinara di Genova.
A proposito, sempre di costumi, informandosi meglio, il costumista e scenografo Antony Mcdonald avrebbe potuto apprendere che, storicamente parlando, al contrario di quello che ci propina, il popolo genovese, godendo la repubblica un certo benessere, non andava vestito propriamente di stracci. Ugualmente appare poco credibile un Simone, in grigio ministeriale, sulle spalle del quale, per volontà popolare, viene posato un dorato mantello trecentesco, con tanto di cappa d’ermellino. Insomma, visto che la vicenda, regista e accoliti, avevano deciso di trasportarla ai nostri tempi, tanto valeva che, per restare in carattere, al doge avessero fatto indossare un doppiopetto stile “Presidente della Repubblica”.
E che dire poi dell’occasione persa, sempre dal regista, il quale, a mio dire, se proprio ci teneva a restare nell’attualità, avrebbe dovuto, visto che i Guelfi invasori, menzionati nell’opera, erano da secoli defunti (forse nessuno lo ha detto allo Jones) al loro posto e in logica con il resto dello spettacolo, avrebbe potuto far proiettare sullo schermo quel “simpaticone” di Putin che, un giorno sì e l’altro pure, minaccia d’invadere l’occidente, Genova inclusa.
Che dire: se solo lo Jones m’avesse consultato gli avrei passato, gratuitamente, un’ideonadel genere. Ma per mia fortuna e quella del pubblico in sala, non l’ha fatto!
Passando a cose molto più serie, vorrei ricordare come la prima versione dell’opera di Verdi, composta nel 1852, per i suoi toni sempre oscuri (e comunque affascinanti) poco avesse incontrato i favori del pubblico, tanto da essere definita dallo stesso Verdi “Il suo tavolo zoppo”. E fu solo dopo reiterate e affettuose insistenze di Arrigo Boito che nel 1881 Verdi rimette mano alla sua sfortunata opera ottenendo questa volta, un vero trionfo alla Scala. Il Boccanegra, in ogni caso, dopo il vento Wagneriano, che molto era andato ad incidere su tanti musicisti dell’epoca (vedi Franchetti, Catalani etc), e per nulla ignorato da Verdi, rappresenterà un momento di riflessione e soprattutto di ricerca. Infatti, il grande maestro, senza ovviamente mai ammetterlo, intraprenderà, sia pure in stile verdiano, una nuova via nonché una accentuata revisione delle sue logiche compositive che lo condurrà alla drammaticità di Otello e a quella che potrebbe definirsi, ancora oggi, la più moderna delle partiture: Falstaff.
Per fortuna, tornando alla sera del 27 e chiudendo gli occhi, è possibile dire che la musica di Verdi e la bravura dei cantanti (su tutti il soprano Eleonora Buratto) ci hanno regalato ancora una volta il piacere di ascoltare una grande opera che neppure il signor Jones, è riuscito del tutto a rovinare.
P.S. A proposito di soldi in cassa, sono sicura che regista, stracci e cartapesta annessa, siano costati, fior di quattrini al teatro o meglio ai contribuenti italiani. Ma, dico io: di registi tipo Jones, ne mancavano in Italia? Almeno i soldi sarebbero rimasti in “casa”.