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In vista un accordo sul metodo della scelta dei giudici costituzionali 

di Salvatore Sfrecola

Che la Corte costituzionale sia un giudice “politico” lo abbiamo capito la prima volta che abbiamo letto la Costituzione la quale prevede che dei quindici giudici che compongono il Collegio, cinque siano eletti dal Parlamento in seduta comune e cinque nominati dal Capo dello Stato, che non è un sovrano ereditario estraneo ai partiti ma un politico a tutto tondo con un curriculum di importanti incarichi governativi e parlamentari. Gli altri cinque giudici sono scelti dalle magistrature superiori, Cassazione, Consiglio di Stato, Corte dei conti.

Ora è noto che nei mesi scorsi più votazioni sono andate in bianco, come si dice, perché è mancato l’accordo tra i partiti, necessario per raggiungere il numero dei consensi richiesti. Così è sfumata in prima battuta la scelta indicata da Fratelli d’Italia nei confronti di Francesco Marini, professore di diritto pubblico, sicuramente titolato per quel ruolo e sul quale Giorgia Meloni aveva fatto quadrato convinta di poter imporre la sua volontà anche senza concordare con gli altri e tenuto conto che dopo quello per il quale si candidava Marini si sarebbero resi disponibili altri tre posti. Sperimentata l’impossibilità di giungere all’elezione di Marini senza il consenso degli altri partiti si è fatta strada l’idea di giungere ad un accordo, com’è stato fatto del resto in passato, per scegliere giudici sulla base di una intesa che desse voce a personalità vicine ai vari partiti. Così sembra certo che, dopo il muro contro muro, si possa giungere ad una scelta che su quattro nomi da indicare ne affiderebbe due alla maggioranza, uno a Fratelli d’Italia ed uno a Forza Italia, uno all’opposizione, mentre il quarto sarebbe scelto di comune accordo. La Lega rimarrebbe fuori perché, come si è letto, sarebbe “già rappresentata alla Consulta”. C’è l’incognita 5 Stelle perché uno dei giudici che scadono fu a suo tempo indicato dal Movimento.

E il momento, dunque, della individuazione del profilo dei candidati che dovranno essere giuristi di esperienza ma che si vorrebbe non fossero parlamentari proprio ad evitare che questa provenienza avesse come effetto quello di screditare l’istituzione agli occhi del cittadino. Naturalmente non si può pretendere che i candidati non siano di area, cioè non appartengono alla cultura politica dei partiti che li propongono. La platea dalla quale scegliere è certamente vasta, riguardando tanto candidati provenienti dall’università quanto dal libero foro, nella speranza che comunque siano di tale autorevolezza da evitare che siano considerati “agenti” dei partiti presso la Consulta. Ciò che determinerebbe discredito sul prescelto e sulle sue sentenze agli occhi del cittadino.

A margine di queste elementari considerazioni, va detto che il ricorso all’intesa dopo il tentativo muscolare della Meloni di ottenere, senza concordarla, la scelta di Francesco Marini possa indicare l’avvio di una stagione di rapporti fra maggioranza e opposizione che, pur nel rispetto dei ruoli, diversi e ovviamente alternativi, possa tenere aperto e incrementare un dialogo istituzionale utile anche in sede parlamentare per la definizione, ad esempio, di emendamenti in sede di votazioni evitando il continuo ricorso alle questioni di fiducia. Sarebbe l’inizio di un clima più disteso certamente proficuo per il Paese e anche educativo nei confronti degli elettori i quali non dubitano che i partiti si debbano contrapporre ma ritengono che il contrasto debba svolgersi in modo civile non urlato e che il confronto delle idee possa far maturare, al di là delle posizioni di partenza di ciascuna forza politica, un risultato più adeguato ad una moderna democrazia parlamentare.

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