Come da lunghissima tradizione nel giorno di Sant’Ambrogio la Scala inaugura la sua stagione teatrale e quest’anno lo fa con una grande opera verdiana, anche se, ricorrendo nel 2024 i cento anni della morte di Puccini sarebbe stato più giusto inaugurare con una delle sue opere. Comunque non è questa la ragione dell’amarezza espressa nel sottotitolo bensì ben altro: nel momento che l’UNESCO dichiara patrimonio dell’umanità il “bel canto italiano” la Scala inaugura con tutti cantanti stranieri sia nei ruoli principali che in quelli secondari, tranne due italiani, di cui uno bravissimo nella parte di Fra’ Melitone. E questo rappresenta, oltre all’amarezza, un grave danno per l’immagine del nostro Paese poiché significa che non esistono più cantanti italiani all’altezza di una inaugurazione scaligera.
Insomma, ancora una volta, al danno si aggiunge la beffa!
In patria i cantanti bravissimi esistono e come… solo che per “cabale” varie, o meglio per il potere dominante di determinate agenzie (in accordo con i vari sovrintendenti), viene sbarrata loro la strada. A questo punto, il Ministro della cultura (con dovere di vigilanza) vista la strana “moria” degli italiani, qualche domandina alle varie Fondazioni liriche la dovrebbe pur fare, ma… tace e l’amarezza aumenta. Gli italici cittadini, ormai, finanziano tutti tranne che i bravissimi connazionali.
Detto questo, ed essendo onesti, è comunque impossibile dire che i cantanti di questa “Forza del destino” non fossero bravi solo che, esistendo voci altrettanto belle anche in Italia, simile massiccia esterofilia non si giustifica affatto. Decenni or sono ciò non avveniva e gli stranieri che approdavano nei nostri teatri erano quelle poche eccezioni che il pubblico italiano, giustamente, ambiva ascoltare, vedi la Callas, la Sutherland, la Caballé, Domingo ed altri pochi grandissimi.
A proposito della Callas, insuperabile e insuperata cantante, ebbene neppure lei ha inaugurato, di seguito, tante volte la Scala quanto la Anna Netrebko… un poco di spazio perché non lasciarlo anche alle italiane? Il soprano russo è, senza dubbio, bravissima ma neppure può essere “petrosino ad ogni menesta” (il prezzemolo in ogni minestra o meglio in ogni grande evento teatrale) poiché, se è pur vero che ha dato un’ottima prova anche in questa “Forza del destino” è pur vero che esisterebbero soprani italiani altrettanto validi e in attesa, quali la Buratto, la Agresta etc.. Inoltre, la Netrebko, non più giovanissima, sicuramente è stata una delle più belle voci di questi ultimi trenta anni ma inizia ad avere, proprio perché canta ovunque e continuamente, dei lievissimi cedimenti, dei quali non si può accorgere né il pubblico e ancor meno la critica bensì solo un cantante. Ed io, avendo molto cantato, certi segnali li percepisco e mi addolorano anche. Detto questo, la prova della cantante è stata ugualmente ottima, cosi come altrettanto bravi il tenore Brian Jagde, il baritono Ludovic Tezier (un don Carlos all’inizio vocalmente incerto ma presto ripresosi) il basso Alexander Vinogradov (padre guardiano) e soprattutto la strepitosa russa Vasilisa Berzhanskaya che, nella difficilissima parte della zingara Preziosilla, alla fine ha surclassato tutti.
Alla bravura del cast va aggiunta l’ottima prova dell’orchestra e del coro della Scala che, guidati dal maestro Riccardo Chailly, in stato di grazia, ci hanno dato un’ottima esecuzione dell’opera verdiana, mentre…
Mentre il regista Leo Muscato, pur mantenendosi in qualche modo legato alla tradizione, qualche “bella idea” non se l’è fatta mancare. Infatti, l’opera, come da libretto, il Muscato, è vero la fa iniziare nel settecento ma, di seguito, fatti divenire immortali i protagonisti, atto dopo atto li fa passare per l’ottocento, il primo novecento, per, nel finale, farli approdare ai giorni nostri. Perché? Quale sarebbe la recondita scelta di questa soluzione e quale logica la pervade? Forse che cambiando di epoca e di abiti (spesa non da poco) si aggiunge qualcosa a Verdi? Mah!
In ogni caso la gaffe maggiore ce l’ha consegnata Bruno Vespa (improbabile commentatore, con la Carlucci, dello spettacolo) il quale, riferendosi alla regia, ha detto che per la prima volta era stata ideata e portata in scena una grande e originalissima pedana ruotante. Con ogni evidenza Vespa va poco a teatro poiché simile stratagemma, finalizzato a cambiare con immediatezza le scene, è stato, più volte e con successo, usato in molti teatri, compreso il San Carlo di Napoli dove, anni or sono, vi cantavo in un’opera contemporanea.
Problemi di regia a parte, vorrei aggiungere che ascoltare questa bellissima opera non è cosa di tutti i giorni poiché, avendo la medesima, ahimè! acquisito fama di portare sfortuna, i teatri, in base al detto “non è vero ma ci credo”, potendo, la evitano. Il primo ad accorgersi di una certa aria di sventura fu proprio Verdi che, dopo la prima dell’opera- nel 62- a San Pietroburgo, nel rifacimento del 69, ritenne che le morti del Marchese di Calatrava nonché dei figli Carlo ed Eleonora (una vera ecatombe) potevano bastare; per la qual cosa decise di non far morire anche il tenore don Alvaro. Ciò non bastò a bloccare le varie disgrazie che, nel tempo, colpirono l’opera: un paio d’incendi e una serie di morti in palcoscenico fra le quali quella del famosissimo baritono americano Leonard Warren.
Fortuna ha voluto che alla Scala, questa volta, non è successo niente e la povera Eleonora è spirata, si fa per dire, tranquillamente, fra le braccia di don Alvaro.
Una cosa, però, è certa: il soggetto della Forza del destino, un incredibile guazzabuglio, aprendosi con un delitto, è uno dei più sfigati. A volerla raccontare (impresa non facile) è possibile dire che il tenore (don Alvaro) e il soprano (Eleonora) si amano ma, essendo contrastati dal padre di costei, il basso (conte di Calatrava) ai due non resta che fuggire. Il soprano, però, avendo più dubbi di Amleto, nel “fare la valigia” perde tempo al punto di essere scoperti dall’infuriato genitore. Di qui, o meglio per “la forza del destino” cinico e baro, mentre litigano parte dalla pistola di don Alvaro un fatale colpo che uccide il conte e dopo… dopo, per ben quattro atti, il baritono (don Carlos) figlio del conte e fratello di Eleonora, insegue, per mezza Europa, i due per ammazzarli. Infatti, a detta di costui (sorellina a parte) soprattutto Alvaro è due volte colpevole avendogli ucciso il padre e, per l’appunto, disonorato (la cosa però non è certa) la sorella. Alla fine, riesce a trovarli ma, nel duello che ne segue, a morire non è Alvaro (fattosi frate nel frattempo) bensì il “buon” Carlos che, però, prima di rendere l’anima a Dio o al diavolo, trova la forza di accoltellare la sorella Eleonora. Infatti, la poveretta, divenuta eremita per i rimorsi, vedi caso e sempre per “la forza del destino”, dove era andata ad abitare? Semplice: in una spelonca allocata proprio nei pressi del convento dove stava l’amato Alvaro.
Insomma, sia pure con risultati devastanti, alla fine s’incontrano, anzi si scontrano tutti!
Comunque, tirando le somme e parlando di sventure, la più sfigata dell’opera risulta essere proprio la povera Eleonora: con un padre e un fratello così… altro che patriarcato.
P.S. Piccola annotazione: una Eleonora che vive in una spelonca con tanto di rossetto sulle labbra, il regista ce la poteva risparmiare!