di Salvatore Sfrecola
Della Corte dei conti come “testimone della verità” ha detto l’Arcivescovo Santo Marcianò, Ordinario militare d’Italia, oggi, durante l’omelia per la Messa organizzata dal Gruppo di presenza cattolica della Corte dei conti. Ed ha sottolineato anche il ruolo centrale che l’istituzione ha nel funzionamento dello Stato richiamando l’articolo 100 della Costituzione e la funzione di controllo sugli atti del Governo e sulla gestione finanziaria degli enti ai quali lo Stato contribuisce in via ordinaria. Attività delicata, preziosa, ha detto, la quale è anche espressione massima della cura degli interessi generali che sono gli interessi di tutti e di ciascuno dei componenti della società.
Rifacendosi alle letture del giorno ed al ruolo di San Giovanni Battista testimone della verità, Monsignor Marcianò hai insistito molto sul concetto di verità e di giustizia l’uno e l’altro strettamente connessi, espressione anche di valori tradizionali. Infatti, nel sottolineare la ricorrenza della Santa Messa in vista del Natale ha sottolineato come questa corrisponda ad un appuntamento tradizionale del personale dell’Istituto ed ha detto che i valori della tradizione, cioè delle buone usanze che ci vengono tramandate, ha un valore particolare, apprezzato e da riscoprire da parte di quanti nella società di oggi lo trascurano.
E siccome ha parlato della verità voglio richiamare un importante contributo del professor Mario Dogliani, ordinario di Diritto costituzionale nella facoltà di giurisprudenza dell’Università di Torino su “la Corte dei conti, garanzia costituzionale della verità dello stato della spesa pubblica”, che si legge nel volume degli “Scritti per i 150 anni della Corte dei conti – 1862 – 2012” (edito da Pagine). In questo lavoro, molto apprezzato, il Professor Dogliani sosteneva la necessità che La Corte dei conti sia considerata una “magistratura rappresentativa”, “utilizzando questo aggettivo nel modo con il quale è stato negli ultimi tempi largamente usato per indicare il ruolo della giurisdizione in quanto capace di raccogliere e dare risposta a domande che salgono dalla società, “accanto”, per così dire, al circuito politico-rappresentativo”.
Spiegava Dogliani che “anche oggi c’è una domanda di verità”. Ed aggiungeva che “nel pieno della crisi economica il frastuono mediatico – nel quale rientra anche, non di rado, la superficialità e la partigianeria dell’informazione (che dovrebbe essere) “specializzata”-non mette in condizione la gran parte dei cittadini – o almeno l’opinione pubblica che vorrebbe essere “attenta” – di conoscere lo stato delle cose”.
Ritenuto dunque che si viva in un tempo nel quale “la regressione verso forme di primitivismo, di smarrimento di fronte alla impossibilità di conoscere, produce, da un lato, passività e paura, e intorpidimento dello spirito critico e razionale”, Dogliani ne deduce che contemporaneamente si “diffonde la convinzione che il discorso politico sia del tutto avulso dallo stato delle cose perché – essendo totalmente impotente di fronte alle forze impersonali e ineluttabili che dominano il mondo – si svolge su un piano solo di annunci, di affermazione “ideologiche”, di rinvii a misteri come le dinamiche interne all’UE, e, dall’altro, su un piano di miseri personalismi carrieristici… che la democrazia sia dunque solo uno scenario di manipolazioni”. Per concludere che “la Corte, con il suo patrimonio di credibilità – di legittimazione – che sarà tanto più alto quanto più intensamente saprà coltivare la sua indipendenza rispetto ai governi può essere un argine a questa deriva. Qui sta un nuovo senso costituzionale della Corte come “Magistrato” come ”agente di verità” e di nutrimento del giudizio politico, e dunque della partecipazione politica consapevole”.
Potremmo, dunque, concludere che questo richiamo alla verità dei conti pubblici è strumento di democrazia e di libertà, con la conseguenza che ogni limitazione del ruolo della Corte dei conti finisce per essere un insulto alla libertà e la negazione del diritto fondamentale del cittadino-contribuente di sapere quale destinazione hanno avuto le somme prelevate dal reddito e dal patrimonio di ciascuno. Che è tema antico che’, già ricordava Giovanni Botero ne “La ragion di Stato” quando scriveva che “non è cosa che più affligga e più tormenti i popoli che ‘l veder il suo Prencipe gittare impertinentemente il denaro ch’essi con tanto loro travaglio e stento gli somministrano per sostegno della sua grandezza e per mantenimento della Repubblica”. Gli sprechi, da sempre indignano, sono causa di ingiustizia e fomentano la ribellione dei popoli.
Ne tengano conto coloro che governano.