dell’Avv. prof. Jacopo Severo Bartolomei
È deceduto nella sua cittadina natale in Georgia il 29.12.24, circondato dall’affetto dei suoi cari, alla veneranda età di 100 anni, Jmmy Carter, 39° Presidente USA (1977-1981), subentrato a Gerald Ford – che rivestì l’inedito primato di Primo Presidente federale mai eletto. essendo subentrato a Nelson Rockfeller, Vicepresidente nel ticket di Richard Nixon, dimessosi in seguito allo scandalo del Watergate del 9.8.76. Per tale circostanza si è detto che, a parte la Presidenza del Senato, l’istituto della Vicepresidenza USA è tra l’ornamentale e il suppletivo, svolgendo il Vicepresidente la funzione di “pezzo di ricambio” (spare part).
Carter, figlio della Georgia e proveniente da famiglia tradizionale, ha conseguito un doppio contrastante primato tra i Presidenti degli Stati Uniti: il più anagraficamente longevo (dato oggettivo) e il più incolore, nella forse ingenerosa percezione dell’opinione pubblica contemporanea, falsata a causa essenzialmente della clamorosa occupazione dell’ambasciata USA a Teheran, protrattasi ininterrottamente dal 04.11.79 al 20.01.81 e costellata di imprevisti.
Carter fu Presidente per un solo mandato, poiché venne battuto in sede di rielezione da Ronald Reagan (insediatosi nel gennaio 1981) astro nascente del Partito repubblicano e che ha saputo imprimere una svolta sia sul piano economico che su quello delle relazioni internazionali.
Dopo aver frequentato l’Accademia Navale di Annapolis (Maryland), Carter si diede all’amministrazione dell’azienda di famiglia, produttrice di arachidi.
Ufficiale della Marina militare nel 1946 sposa Rosalynn Smith, premorta nel 2023 – ultima sua apparizione pubblica per le esequie dell’amata Coniuge, con cui condivideva pure le ambasce dell’incarico presidenziale– dopo avergli dato quattro figli.
Carter era un fervente cristiano battista, che viveva la passione politica come servizio alla comunità locale, nazionale e generale. Ricorrente la sua frase “La mia fede m’impone di fare tutto ciò che sia in grado di fare, dovunque mi trovi e in ogni circostanza, senza riserve”.
Nel 1971 è eletto governatore della Georgia e nel 1977 a 52 anni giura da 39° Presidente degli Stati Uniti d’America.
Nell’arco del Secolo Americano, secondo la nota definizione di Gemellino Alvi, per individuare il periodo in cui gli USA ereditano dal Vecchio continente e dall’Impero Britannico la leadership mondiale post decennio 1933-45, Carter sembra occupare una posizione secondaria, una zona d’ombra, tra lo spregiudicato Nixon e lo scintillante Reagan (cfr. Giuseppe Sarcina, Corsera 30.12.24, pag. 2), su cui le luci della ribalta mediatica si sono appuntate.
Eppure, la sua permanenza alla Casa Bianca, è stata contrassegnata da episodi, accadimenti e opzioni cruciali: il controverso rapporto con l’URSS segnato dal negoziato e firma del Trattato SALT per la riduzione delle armi strategiche. Poi la rottura dell’intesa in risposta all’invasione sovietica dell’Afghanistan, ordinata da Leonid Breznev.
Tuttavia, in retrospettiva, la sua diplomazia “del dialogo”, il suo costante tentativo – di matrice Kennediana – di conferire profilo morale all’operato del governo USA (dopo la debacle in Indocina, con l’impantanamento nel Vietnam, e le losche manovre CIA in America Latina), segnando una cesura rispetto al modus operandi della coppia Nixon- Kissinger, il riconoscimento di sovranità alla Repubblica istmica di Panama, sono tutti elementi che concorrono a rivalutare l’operato di Jmmy Carter, che è stato indelebilmente segnato dal marchio della indecisione nella vicenda iraniana, ove degli studenti seguaci della rivoluzione dell’Ayatollah Khomeini, catturarono 53 dipendenti dell’Ambasciata USA, rimanendo ostaggi per oltre un anno con un fallito blitz delle forze speciali.
Senza dubbio il punto più alto della sua opera di intermediazione e della sua diplomazia del dialogo è rappresentato dagli accordi di pace siglati a Camp David (residenza estiva dei Presidenti americani) tra il Presidente egiziano Sadat ed il Primo ministro israeliano M. Begin in data 17 settembre 1978.
Sebbene nella campagna elettorale del 1980 venne travolto da Reagan e molti democratici per decenni gareggiarono nell’archiviare il suo mandato, Carter agli occhi della storia si prese una rivincita meritata con il conferimento del Premio Nobel per la pace nel 2002.
Proprio recentemente nel 2020 autorevoli testate d’oltre oceano (The Post e New York Magazine) alla vigilia delle primarie 2020 hanno rivalutato la sua figura per contrasto rispetto al tycoon Donald J. Tramp additandolo come modello di moderazione, sobrietà e soprattutto di franco dialogo, senza pregiudizi ovvero riserve mentali.
Se è sempre attuale il brocardo latino de mortuis nisi bene, si può a ragione affermare, senza mitizzare alcun personaggio o negarne gli errori, che Jmmy Carter ha profuso il meglio delle proprie energie intellettuali nel perseguimento del benessere degli Stati Uniti e di un loro ruolo etico nel turbolento pianeta.