di Gianni Torre
Sarà il Presidente del Centro Studi, Salvatore Sfrecola, a presentare nella sala della Parrocchia di Santa Lucia, in via di Santa Lucia, 5, la conversazione di Paola Maria Zerman, Avvocato dello Stato, sulla legge n. 86 del 26 giugno 2024 recante “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione” (G.U. n. 150 del 28 giugno 2024) e sulla sua attuazione. La conversazione, alla quale potranno dare un contributo i presenti con le loro domande, terrà conto dell’ampio dibattito che si è sviluppato nel tempo già all’annuncio della presentazione del disegno di legge d’iniziativa del Governo, nel corso della discussione parlamentare, quando sono state raccolte le firme per il referendum abrogativo, infine dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 192 del 14 novembre 2024. Contributi sono venuti dagli interventi di politici e di giuristi che ne hanno scritto su tutti gli organi di stampa e ne hanno parlato in occasione delle trasmissioni televisive che tanto spazio hanno riservato alla proposta di riforma. Con rilevazione delle opinioni degli italiani che, chiarisce Ilvo Diamanti, sei su dieci, anche al Nord, sono contrari all’autonomia differenziata. In tutte le aree del Paese, compreso il Nord-Est, come risulta dal sondaggio condotto da Demos per La Repubblica (25 novembre 2024).
Richiamiamo all’attenzione dei lettori di Un Sogno Italiano i termini del dibattito procedendo dalla pronuncia della Consulta. Secondo il Collegio, l’art. 116, terzo comma, della Costituzione (che disciplina l’attribuzione alle regioni ordinarie di forme e condizioni particolari di autonomia) deve essere interpretato nel contesto della forma di Stato italiana. Essa riconosce, insieme al ruolo fondamentale delle regioni e alla possibilità che esse ottengano forme particolari di autonomia, i principi dell’unità della Repubblica, della solidarietà tra le regioni, dell’eguaglianza e della garanzia dei diritti dei cittadini, dell’equilibrio di bilancio.
I Giudici ritengono che la distribuzione delle funzioni legislative e amministrative tra i diversi livelli territoriali di governo, in attuazione dell’art. 116, terzo comma, non debba corrispondere all’esigenza di un riparto di potere tra i diversi segmenti del sistema politico, ma debba avvenire in funzione del bene comune della società e della tutela dei diritti garantiti dalla nostra Costituzione. A tal fine, è il principio costituzionale di sussidiarietà che regola la distribuzione delle funzioni tra Stato e regioni.
In questo quadro, l’autonomia differenziata deve essere funzionale a migliorare l’efficienza degli apparati pubblici, ad assicurare una maggiore responsabilità politica e a meglio rispondere alle attese e ai bisogni dei cittadini.
La Corte, nell’esaminare i ricorsi delle Regioni Puglia, Toscana, Sardegna e Campania, le difese del Presidente del Consiglio dei ministri e gli atti di intervento ad opponendum delle Regioni Lombardia, Piemonte e Veneto, ha ravvisato l’incostituzionalità dei seguenti profili della legge:
- – la possibilità che l’intesa tra lo Stato e la regione e la successiva legge di differenziazione trasferiscano materie o ambiti di materie, laddove la Corte ritiene che la devoluzione debba riguardare specifiche funzioni legislative e amministrative e debba essere giustificata, in relazione alla singola regione, alla luce del richiamato principio di sussidiarietà;
- – il conferimento di una delega legislativa per la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (LEP) priva di idonei criteri direttivi, con la conseguenza che la decisione sostanziale viene rimessa nelle mani del Governo, limitando il ruolo costituzionale del Parlamento;
- – la previsione che sia un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri (dPCm) a determinare l’aggiornamento dei LEP;
- – il ricorso alla procedura prevista dalla legge n. 197 del 2022 (legge di bilancio per il 2023) per la determinazione dei LEP con dPCm, sino all’entrata in vigore dei decreti legislativi previsti dalla stessa legge per definire i LEP;
- – la possibilità di modificare, con decreto interministeriale, le aliquote della compartecipazione al gettito dei tributi erariali, prevista per finanziare le funzioni trasferite, in caso di scostamento tra il fabbisogno di spesa e l’andamento dello stesso gettito; in base a tale previsione, potrebbero essere premiate proprio le regioni inefficienti, che – dopo aver ottenuto dallo Stato le risorse finalizzate all’esercizio delle funzioni trasferite – non sono in grado di assicurare con quelle risorse il compiuto adempimento delle stesse funzioni;
- – la facoltatività, piuttosto che la doverosità, per le regioni destinatarie della devoluzione, del concorso agli obiettivi di finanza pubblica, con conseguente indebolimento dei vincoli di solidarietà e unità della Repubblica;
- – l’estensione della legge n. 86 del 2024, e dunque dell’art. 116, terzo comma, Cost. alle regioni a statuto speciale, che invece, per ottenere maggiori forme di autonomia, possono ricorrere alle procedure previste dai loro statuti speciali.
La Corte ha interpretato in modo costituzionalmente orientato altre previsioni della legge:
- – l’iniziativa legislativa relativa alla legge di differenziazione non va intesa come riservata unicamente al Governo;
- – la legge di differenziazione non è di mera approvazione dell’intesa (“prendere o lasciare”) ma implica il potere di emendamento delle Camere; in tal caso l’intesa potrà essere eventualmente rinegoziata;
- – la limitazione della necessità di predeterminare i LEP ad alcune materie (distinzione tra “materie LEP” e “materie-no LEP”) va intesa nel senso che, se il legislatore qualifica una materia come “no-LEP”, i relativi trasferimenti non potranno riguardare funzioni che attengono a prestazioni concernenti i diritti civili e sociali;
- – l’individuazione, tramite compartecipazioni al gettito di tributi erariali, delle risorse destinate alle funzioni trasferite dovrà avvenire non sulla base della spesa storica, bensì prendendo a riferimento costi e fabbisogni standard e criteri di efficienza, liberando risorse da mantenere in capo allo Stato per la copertura delle spese che, nonostante la devoluzione, restano comunque a carico dello stesso;
- – la clausola di invarianza finanziaria richiede – oltre a quanto precisato al punto precedente – che, al momento della conclusione dell’intesa e dell’individuazione delle relative risorse, si tenga conto del quadro generale della finanza pubblica, degli andamenti del ciclo economico, del rispetto degli obblighi eurounitari.
Spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua discrezionalità, colmare i vuoti derivanti dall’accoglimento di alcune delle questioni sollevate dalle ricorrenti, nel rispetto dei principi costituzionali, in modo da assicurare la piena funzionalità della legge.
La Corte resta competente a vagliare la costituzionalità delle singole leggi di differenziazione, qualora venissero censurate con ricorso in via principale da altre regioni o in via incidentale.
Nel dibattito politico-giornalistico è emersa una varietà di valutazioni, talune basate sull’esperienza del regionalismo, in particolare dalla riforma del Titolo V, con riferimento a situazioni che in alcune aree del territorio si trascinano da anni. Qualcuno ha scritto dall’indomani dell’unità d’Italia, a dimostrazione che la riforma, così come è stata concepita, attiene ad una trasformazione radicale dello Stato che, secondo non pochi, metterebbe al rischio la sua stessa unità.
È la tesi del Presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, per il quale, con la sentenza della Corte costituzionale, “abbiamo sventato il disfacimento dell’unità nazionale” (La Repubblica16 novembre 2024). “L’idea di cambiare la struttura centrale della costituzione – afferma Emiliano -, e cioè il rapporto tra Stato e Regioni, è stata demolita. Si potranno conferire alle regioni singole funzioni su questioni di dettaglio. Ma questa riforma non serve a realizzare il sogno autonomista della Lega Nord. E la Puglia ha avuto un ruolo di guida tra tutte le regioni contrarie”. E aggiunge, con riferimento all’intento del ministro Calderoli di tornare sui punti censurati dalla Corte costituzionale, che “con questa sentenza la sua volontà di secessione e stata ridimensionata per sempre. Per certi versi è peggio anche di un’abrogazione totale, perché adesso la Consulta dice che va riscritta e dice anche come va riscritta. Quindi Calderoli abbia la cortesia di chiedere scusa. Non spetta a lui stabilire se si debba tornare in Parlamento oppure no”. E quanto alla possibilità che la sentenza abbia come effetto quello di far saltare il referendum per il quale sono state raccolte oltre un milione di firme per chiedere l’abrogazione totale della legge, Emiliano sostiene che “non è detto che salti. È tutta un’altra logica. In linea teorica agli italiani potrebbe non piacere neanche quel che è rimasto, di quel disegno di legge dopo la sentenza della Corte costituzionale. Non mi permetto a entrare nel merito delle valutazioni del comitato promotore. Ma l’autonomia non può essere cassata in sé perché è prevista dalla Costituzione. Mentre però prima si stava per dar luogo a una devoluzione, ora la riforma è stata ricondotta nell’alveo costituzionale. Soprattutto, è stata scongiurata la possibilità che il gettito fiscale potesse rimanere sul territorio delle regioni più ricche: questa era la norma eversiva, dal punto di vista finanziario, che ci faceva temere che saltasse il principio di solidarietà”.
Anche per il Presidente della Regione Toscana, Eugenio Giani (La Stampa 15 novembre 2024), la sentenza della Corte costituzionale ha confermato i dubbi: “la riforma minava l’unità nazionale”. Ed ha precisato che il limite più grosso della legge Calderoli sta nel fatto “che venisse sminuito completamente il ruolo del Parlamento a favore del governo. Ma ora la Consulta precisa che il Parlamento non può essere bypassato dal governo e non ci deve essere una legge spacca Regioni. Perché altrimenti le regioni più ricche continueranno ad esserlo ancora di più, mentre quelle più povere rimarranno sempre più povere”. Inoltre, sostiene che la Consulta “ha visto violato l’articolo 5 della Costituzione per cui la Repubblica italiana, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali. Queste esprimono differenti caratteristiche ma sempre d’intesa con le leggi del Parlamento. Invece con la legge sull’autonomia differenziata verrebbe meno questa intesa e verrebbe meno l’unità d’Italia”. In conclusione, l’autonomia delle regioni “non deve essere un’autarchia. Non dobbiamo arrivare a uno stato federale. Dobbiamo, invece, valorizzare le specificità. Serve un regionalismo che rispetti il principio di solidarietà ed equità”.
Non è di questa opinione il Presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, intervenuto più volte sulla stampa, il quale ritiene che l’autonomia differenziata, giusta il titolo di un suo recente libro, sia una “rivoluzione necessaria” (L. Zaia, Autonomia – la rivoluzione necessaria, Marsilio, Venezia, 2024, € 18,00). Intervistato da La Stampa il 28 gennaio 2024, Zaia aveva sostenuto che il suo obiettivo “a regime sono tutte e 23 le materie”, aggiungendo che “il centralismo ha creato un Paese, quello odierno, a due velocità”. E che negli ostili alla riforma vi è “un approccio troppo ideologico e poco realista”. A suo giudizio, ”è immorale che esista un’Italia a due velocità ed è ancora più immorale essere costretti a fare le valigie per andarsi a curare in un’altra regione. Anche gli sprechi lo sono. Tutto questo, ripeto, non è figlio dell’autonomia ma del centralismo”.
Al Presidente del Veneto andrebbe ricordato che il centralismo statale, che lui giustamente censura, è stato la causa dello squilibrio dello sviluppo economico e sociale in quanto nel tempo i Governi hanno agito trascurando di considerare la necessità di assicurare a tutte le aree del Paese le medesime opportunità, intervenendo in particolare a garantire medesime condizioni alle infrastrutture viarie, ferroviarie, portuali e aeroportuali tenendo conto delle specificità delle varie regioni. Il battagliero Presidente Zaia dovrebbe rileggere alcune pagine di Camillo Benso di Cavour che, non ancora entrato in politica, delineava, in uno straordinario saggio del 1° maggio 1846, come le ferrovie avrebbero dovuto unificare l’Italia e favorirne lo sviluppo anche in collegamento con l’Europa, mentre i porti di Napoli e Palermo avrebbero fattoi dell’Italia la porta del Continente verso il Medio e l’Estremo Oriente. Nulla di questo è stato fatto per cui ancora oggi l’economia agricola e manifatturiera ma anche quella turistica di alcune aree d’Italia non può avvantaggiarsi di sistemi di trasporto adeguati alle possibilità locali in un’ottica nazionale ed europea. Ne hanno scritto Vittorio Daniele e Paolo Malanima in un libro di straordinario interesse, “Il divario Nord-Sud in Italia 1861-2011 (Rubettino, 2011, Soveria Mannelli, pp. 259, € 15.00).
L’accusa di approccio ideologico, che domina le argomentazioni di Zaia, è rigettata da Massimo Franco (Corriere della Sera 15 novembre 2024) per il quale la fretta ideologica del Carroccio ha “partorito un altro pasticcio. Il tentativo di esautorare il Parlamento a favore del governo è stato frustrato dalla Corte”.
Per Giovanni Guzzetta, che si dice convinto che “la Costituzione implica la presenza di più livelli di governo, tra i quali quello degli enti substatali”, le regioni del Sud del Paese “hanno due possibilità: resistere passivamente o cambiare paradigma di gioco. L’idea che ci possa essere all’infinito un sistema di protezione per le aree meno sviluppate non è sostenibile, soprattutto in un’epoca di crisi finanziaria” (Il Tempo 22 maggio 2024). Anche lui ignora la realtà storica.
Che la riforma dell’autonomia differenziata debba essere “abbandonata”, è l’opinione di Gaetano Azzariti, professore ordinario di Diritto costituzionale all’università di Roma “La Sapienza”, “anche perché ciò che non è stato bocciato dalla Consulta risulterà inapplicabile… l’impianto complessivo – la filosofia direi – non solo di questa legge ma dell’autonomia differenziata così come è stata concepita va rimossa. È la logica dell’appropriazione di intere materie e funzioni a scapito delle altre regioni che deve essere abbandonata, per tornare a pensare a come garantire l’unità della Repubblica e una promozione delle autonomie locali che siano tra loro compatibili. Passare dall’appropriazione di intere materie alla solidarietà tra i territori” (La Repubblica, 15 novembre 2024). La sua tesi è che “bisognerebbe abbandonare l’idea di un regionalismo competitivo e abbracciare l’idea espressa dalla nostra Costituzione di un regionalismo solidale”.
Secondo Antonio D’Amato, già presidente della Confindustria, “l’autonomia differenziata è disastrosa, crea danni. Non è la priorità” (La Repubblica 9 novembre 2024).
Significative le osservazioni di Filoreto D’Agostino, già presidente di sezione del Consiglio di Stato, che si sofferma su alcuni aspetti che avrebbe la riforma in materia sanitaria (Il Fatto Quotidiano, 9 aprile 2024). A suo giudizio i principi della riforma del 1978 sarebbero “radicalmente traditi dal provvedimento sull’autonomia differenziata che nega l’unità del servizio e l’eguaglianza del diritto alla salute nell’ambito del territorio nazionale”. E sottolinea come il Prof. Sabino Cassese, difensore strenuo della riforma, impegnato nella definizione dei LEP (livelli essenziali delle prestazioni) abbia trascurato di considerare che la causa delle attuali disfunzioni del Servizio Sanitario Nazionale sia da ricercare nel decreto legislativo 502 del 1992 “che ha consegnato la sanità nelle mani degli apparati regionali esentandoli da ogni forma di controllo e agevolando così gli arbitri a danno dei dipendenti pubblici del settore nonché dell’utenza e favorendo in modo sfacciato la sanità privata: l’equivalente dell’apertura del pollaio alle faine”.
Insomma, l’esperienza delle regioni è tale che sconsiglia di proseguire, di perseverare, si potrebbe dire.
Per un altro giurista insigne il Professor Ugo De Siervo, già Presidente della Corte costituzionale, con la riforma dell’autonomia differenziata “a perdere sono solo gli italiani… Perché è una riforma solo parziale, che amplia la possibilità di estendere i poteri di alcune Regioni, ma senza modificare le altre norme costituzionali che già esistono. Un esempio concreto: se do più poteri a una Regione in materia di sanità, questa dovrebbe poter adottare una sua legge in quel settore. Ma se la adotta modifica tutta la legislazione nazionale, a meno di frantumare l’intero sistema regionale italiano”. In quanto “da una modifica in apparenza solo amministrativa ne derivano delle conseguenze anche sull’intera legislazione nazionale” (La Repubblica 23 gennaio 2024).
Torneremo sul tema nei prossimi giorni, anche facendo tesoro delle opinioni che emergeranno nel corso della conversazione di Paola Maria Zerman.