di Salvatore Sfrecola
Lo sciopero dei magistrati non mi piace. L’immagine dell’ordine giudiziario, che in qualche modo agli occhio del cittadino incarna la giurisdizione, che si scontra con il potere politico mi lascia fortemente perplesso. Tuttavia, devo constatare che quel che dice parte governativa, cioè che sarebbe stato attuato un confronto con la magistratura, non è vero perché questo Governo, come in altri casi, ritiene di andare avanti con determinazione senza confrontarsi, senza concordare con altre forze politiche, come spesso si fa in democrazia. E lo dimostra la mancata elezione dei quattro giudici costituzionali che mancano, la cui assenza rende il Collegio appena maggioritario, proprio perché non si è ricercato, come è sempre avvenuto in passato, un accordo fra i partiti politici che sarebbe stato necessario e utile anche per assicurare una presenza di giudici che, pure di un evidente orientamento culturale, non fossero militanti dei partiti.
E così si va gabbando il popolo italiano al quale si dice che la separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri risolverebbe tutti i mali della Giustizia, che assicurerebbe un processo più celere e più giusto, mentre è evidente a chiunque abbia un minimo di conoscenza dei processi che questo obiettivo si può ottenere solo con significative modifiche dei codici di rito. Infatti, la denuncia dei magistrati quanto alla inadeguatezza delle procedure, che rendono i processi lunghi e alla fine anche incerti, si dimostra confortata dai dati. Perché, ad esempio, si consente di andare in Cassazione più volte in uno stesso processo? E quando Piercamillo Davigo dice e le corti supreme degli Stati Uniti, di Francia e del Regno Unito fanno quaranta o cinquanta sentenze l’anno e la nostra Corte di Cassazione ne fa oltre centomila è evidente, anche ad uno sprovveduto, che c’è qualcosa che non funziona.
Il fatto, poi, che il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ritenga che il Pubblico Ministero sia diventato una sorta di super poliziotto, ciò che è vero perché la riforma del codice del 1988 lo fa a padrone della dell’istruttoria con tutti i difetti della sua impreparazione sotto il profilo dell’accertamento dei fatti, ci conforta nella opinione che se il corpo dei pubblici ministeri fosse separato da quello dei magistrati il potere delle Procure sarebbe accresciuto. E si arriva a proporre che gli aspiranti P.M. dovrebbero fare un concorso diverso da quello dei giudici, quindi con una preparazione professionale diversa, dimenticando che il P.M. rappresenta l’ordinamento e non lo Stato, anche se si sente dire che è una “parte pubblica”, per spiegare il suo ruolo.
Allora, delle due l’una: o il potere politico è folle e ottiene un risultato – maggior potere ai P.M. – contrario a quello che si aspetta, oppure, in realtà, come penso io e molti, la separazione delle carriere è un passo verso la sottoposizione del pubblico ministero al potere politico. Fate caso. Non se ne parla più, ma un argomento ricorrente tra coloro che nei partiti si ritengono conoscitori delle questioni della giustizia è quello del superamento dell’obbligatorietà dell’azione penale prevista dell’art. 112 della Costituzione. Il che significa che si vorrebbe che l’azione penale fosse limitata a certi reati per decisione del Parlamento o del governo. Ciò che determinerebbe una profonda ingiustizia e l’incertezza del diritto perché, cambiando governo e maggioranza parlamentare, si avrebbe l’effetto che alcuni reati in un tempo sarebbe perseguiti, in altro no.
È evidente che c’è grande confusione sotto il cielo della giustizia e naturalmente i magistrati hanno il dovere morale di prospettarla, così come i medici rappresentano le difficoltà dell’ordinamento degli ospedali, così come gli ingegneri protestano per le regole della loro professione quando sono dettate dal governo. Perché non c’è dubbio che tutte le categorie che hanno conoscenza di una materia hanno il dovere di dire la loro.
Infine, l’idea che dobbiamo separare le carriere dei magistrati perché lo desiderava Silvio Berlusconi è un’altra follia del momento, accarezzata dai tanti beneficiati di Berlusconi, un imprenditore di successo, senza dubbio scaltro, che ha perseguito costantemente i suoi interessi spesso dimenticando che, entrato in politica, avrebbe dovuto preoccuparsi soprattutto degli interessi collettivi, come avevano fatto illustri uomini politici del passato, Cavour, Sella e Sonnino che al momento di dedicarsi alla vita politica avevano alienato i propri patrimoni per essere liberi ed al servizio “esclusivo” dello Stato.
Tornando al tema della Giustizia i problemi veri sono nel processo, nei codici che rendono i procedimenti lunghi e dall’esito incerto, non la carriera dei magistrati. Chiunque conosce le regole dei processi sa che questa è la verità. E che c’è dell’altro dietro questa iniziativa di un Governo che non dialoga con nessuno, che pensa che sia bene imporre anziché proporre, come dimostra il fatto che, in contemporanea alla separazione delle carriere, un partito di governo, quello che ha la maggioranza nell’Esecutivo, si sia fatto promotore di una riforma della Corte dei conti, cioè dell’organo di rilevanza costituzionale deputato al controllo della legalità della pubblica amministrazione, che ne disarticola la struttura sul territorio all’evidente scopo di impedire l’accertamento di illegittimità e di illegalità sul posto, la dice lunga. Anche perché in contemporanea, per la prima volta nella storia, si vorrebbe stabilire che chi fa danno all’Erario non paga o comunque paga meno dell’ammontare del danno prodotto. Sempre in pregiudizio degli italiani che pagano imposte e tasse per alimentare i bilanci pubblici.
Sono scelte che elettoralmente si pagano. Prima o poi.