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Considerazioni sull’impegno politico e sociale del Maestro Verdi nella società e in Parlamento

di Salvatore Sfrecola

Componente dell’“Assemblea delle Provincie Parmensi”, Deputato nel primo Parlamento nazionale, Senatore del Regno dal 1874, l’“impegno politico” del Maestro Giuseppe Verdi, tuttavia, non va ricercato nell’esperienza parlamentare ma nei tanti momenti della sua vita nei quali, con profondo senso civico e autentica passione per l’Italia unita, prende posizione sulle vicende del suo tempo, di cui ci dà conto il ricco epistolario curato da Franz Werfel e Paul Stefan, il drammaturgo e lo storico della musica[1], ben prima che la rivoluzione del 1848 infiammasse gli animi, ovunque in Europa, da Parigi, che insorge contro Luigi Filippo, a Vienna, dove la sollevazione popolare costringe alle dimissioni Clemente di Metternich, il potente Cancelliere austriaco, e l’imperatore a concedere la Costituzione. Ferdinando I abdicherà a dicembre in favore del nipote, il diciottenne Francesco Giuseppe.

In Italia fermenti liberali con una prospettiva di unità nazionale si erano andati manifestando fin dall’indomani della Rivoluzione Francese, quando “gl’ingegni napoletani… si misero in corrispondenza con le società patriottiche francesi… tramando una cospirazione per rovesciare la monarchia e introdurre istituzioni democratiche, repubblica o, in ogni caso, libertà”[2]. E fu la Repubblica napoletana del 1799, “onde la città di Napoli, dopo tante volte che si era lasciata prendere e riprendere da stranieri, parve rinnovare gli esempi che aveva dati nel medioevo quando difendeva contro i barbari la propria romanità[3]. La restaurazione borbonica non spegne il moto di rinnovamento culturale e politico e nel 1820-1821 la richiesta di libertà e costituzione travolge Napoli e Palermo. Ugualmente in Piemonte, il 10 marzo del 1821, le idee di libertà muovono alcuni ufficiali della guarnigione di Alessandria, vicini al principe ereditario, Carlo Alberto di Savoia Carignano, costituiscono una giunta di governo e issano sulla cittadella il tricolore italiano[4].

Sono i prodromi del Risorgimento, e quindi della nascita dello Stato italiano, il cui successo sarà possibile “perché l’Italia aveva una base culturale nazionale da molti secoli”[5], da quando comincia a scriverne Dante, il primo dei “sognatori d’Italia… il primo, il capostipite, nel momento più fosco, in cui non s’intravedeva alcun processo politico unitario neanche in fieri”, tanto che si può affermare che “fu Dante il vero fondatore d’Italia. Fu lui a dare dignità al terreno primario e comune di una nazione, la lingua. Fu lui a riannodare la civiltà cristiana e la civiltà romana, riconoscendo l’Impero e la Chiesa come i genitori dell’Italia, con ruoli ben distinti. La romanità e la cristianità ebbero altri figli; ma la figlia che ereditò la casa paterna e materna fu l’Italia. E Roma. Forse un carico troppo grande per una nazione troppo esile e uno Stato troppo piccolo e malcerto.

Prima di essere uno Stato l’Italia fu una nazione, e prima di essere una nazione fu una lingua, una koiné e una civiltà”[6].

Nell’800, anche se fu essenziale l’impegno di una minoranza di uomini di pensiero e d’azione, non mancano vasti consensi popolari soprattutto in alcune aree del Paese. Infatti, “non è vero che il popolo italiano sia stato completamente assente dal Risorgimento. In un paese di analfabeti, molto meno popolato e molto meno collegato dell’Italia di oggi, in cui fino al 1846 e spesso anche dopo tutte le polizie dei vari Stati sorvegliano e arrestano i patrioti, l’idea nazionale conquista artisti e artigiani, infiamma tre generazioni di scrittori – quella di Foscolo e Manzoni, quella di Tommaseo, Giusti e Guerrazzi, quella di Nievo -, ispira musicisti come Verdi e pittori come Hayez, fa discutere pensatori e politici della statura di Gioberti, Rosmini, Mazzini, Cattaneo, Balbo, d’Azeglio. Pur diviso al suo interno tra monarchici e repubblicani, il Risorgimento è anche un grande movimento politico e culturale. E gli italiani, per la prima volta dopo secoli, mostrano di essere pronti a combattere, e di saperlo fare”[7].

Sono anni nei quali la lotta politica “è segnata profondamente dal fallimento dei moti romantici e delle società segrete che li hanno ispirati e inquadrati”[8]. Senonché due eventi suscitano le speranze dei patrioti italiani, l’avvento, nell’aprile del 1831, di Carlo Alberto sul trono di Sardegna, al quale si rivolge Giuseppe Mazzini per invitarlo a liberare l’Italia “dai barbari”[9], e l’elezione del nuovo Papa, il Cardinale Giovanni Maria Mastai Ferretti, che assume il nome di Pio IX. Il Re sabaudo esordisce con l’istituzione del Consiglio di Stato, con funzioni di indirizzo e di coordinamento dei programmi generali dello Stato, considerata da taluno “come pericolosa assemblea liberaleggiante[10]. Infatti, pur in un regime dalla perdurante e marcata atmosfera assolutistica la riforma prospetta una monarchia consultiva, “un modello che dovrebbe consentire trasformazioni graduali, apparentemente accompagnate dal maggior grado di consenso possibile, evitando che esse appaiano imposte tanto dalla volontà personale del sovrano quanto dalle frange più radicali dell’opinione pubblica”[11].

Di iniziali sentimenti liberali, papa Pio IX esordisce con l’amnistia per i delitti politici (16 luglio 1846), “un fatto non inconsueto per un nuovo papa, ma che nel febbrile clima politico di quegli anni provocò una straordinaria ondata di eccitazione”[12], di entusiasmo popolare e di quanti vedono ora in lui la futura guida di una nazione libera e unita sotto il suo scettro, come aveva auspicato Gioberti, e si fa promotore di una “Lega italica” per riunire gli Stati italiani non soggetti all’Austria[13]. Anche perché seguono una limitata libertà di stampa ed alcune riforme significative: l’istituzione di una Consulta di Stato, della Guardia Civica, in sostituzione dei mercenari stranieri, e del Consiglio dei ministri. Riforme che allarmano i sovrani italiani sempre più pressati dalle borghesie locali e preoccupati per la crescente adesione delle folle un po’ ovunque alla richiesta di libertà e costituzione. Anche a lui si rivolge Mazzini, invitandolo ad assumere la guida del movimento per l’unificazione italiana “perché con voi – scrive – questa lotta assumerebbe aspetto religioso e si libererebbe da molti rischi e reazioni e colpe civili”[14]. In questo contesto, quando viene allestita la rappresentazione dell’Ernani, “O sommo Carlo”, in omaggio a Carlo Magno, diventa “o sommo Pio”.

Nel corso di tutto il 1847 si sviluppa una fiduciosa speranza del nuovo. Il 1848 si apre con la rivolta di Palermo che costringe il re Ferdinando IV (I delle Due Sicilie) a concedere nuovamente la costituzione già elargita nel 1812, su pressione di Lord Bentinck per conto dell’Inghilterra, e poi abrogata insieme all’autonomia dell’isola (decreto dell’8 dicembre 1816). Lo seguono, il 15 febbraio, il granduca di Toscana, Leopoldo II. Il 4 marzo Carlo Alberto promulga lo Statuto[15], il 14 è lo stesso Papa che adotta la legge fondamentale.

Il 18 marzo Milano insorge ed occupa la scena per quelle che passeranno alla storia come le “Cinque giornate”, una rivolta che trasmette ovunque entusiasmo. A Torino, il 23 marzo, il Conte di Cavour lancia sul Risorgimento un appello solenne: “l’ora suprema per la monarchia sarda è suonata… In cospetto degli avvenimenti di Lombardia e di Vienna, l’esitazione, il dubbio, gli indugi non sono più possibili… Una sola via è aperta per la nazione, pel Governo, pel Re. La guerra!”. Il 24 il Regno di Sardegna dichiara guerra all’Austria. È una scelta coraggiosa, quella del giovane re, che consegna alle sue truppe il tricolore nel quale appone, nel bianco, lo stemma della sua antica Casata, la bianca croce di Savoia di cui canterà Giosuè Carducci un secolo più tardi. È un azzardo, quello di Carlo Alberto, la sfida ad un impero che disponeva dell’esercito più potente del tempo, guidato in Italia da quel Maresciallo Josef Radetzky che aveva contribuito in modo determinante alla sconfitta di Napoleone a Lipsia[16]. Anche per la diffidenza delle altre Corti italiane le quali sospettano che il sovrano piemontese voglia soprattutto ingrandire il suo regno, nonostante cominci ad essere sempre più evidente che “l’Italia o si faceva raccogliendo attorno ad una sola dinastia lo sforzo degli Italiani, affidandone ad una sola dinastia il mandato, o non si faceva”[17].

Ai primi successi, a Pastrengo, con la carica dei Carabinieri a cavallo del Maggiore Sanfront, poi a San Massimo e a Santa Lucia, si diffonde fiducia nell’esito della guerra. Radetzky si rifugia a Verona. Ma i veronesi che si sperava fossero dalla parte del re sabaudo “non si mossero, le loro simpatie per l’amministrazione asburgica erano solide e radicate, la loro diffidenza per le nuove idee di indipendenza e di unità nazionale altrettanto manifeste. Nessuno disturbò gli austriaci e oltre Santa Lucia le truppe piemontesi non poterono procedere, sebbene fossero state convinte (o le avessero convinte) che Verona avrebbe aperto loro le porte. Per i discendenti degli Scaligeri, meglio l’imperatore di Vienna che il sovrano di Torino”[18]. Una delusione dietro l’altra. Infatti, Pio IX, dopo avere in un primo tempo deciso l’intervento dello Stato pontificio accanto al Piemonte, con l’allocuzione del 29 aprile si ritira e spiega che il suo ruolo di capo della Chiesa universale e di tutti i cattolici è incompatibile con qualunque suo impegno attivo nella politica italiana (ma perciò stesso anche europea) che lo potesse mettere in contrasto con l’Austria, il principale paese cattolico del continente e l’effettivo padrone della penisola[19].

La guerra si conclude a Custoza dove Carlo Alberto, che si trova di fronte un nemico nettamente superiore in uomini e artiglierie, deve ordinare la ritirata. Nel frattempo, si sfalda il fronte interno. Anzi, more italico, c’è chi gode della sconfitta del re sabaudo. Il milanese Conte Giovanni Arrivabene esulta: “ora siamo padroni di noi, faremo la guerra popolare, cacceremo gli austriaci dall’Italia e faremo la Repubblica federale”. Quasi vi fosse stata una minima possibilità di cacciare gli austriaci senza quell’esercito del Piemonte che egli godeva di vedere sconfitto e senza capire che – battuto Carlo Alberto – la sorte di Milano era segnata. Come regolarmente avverrà”[20].

In quei giorni drammatici Verdi prende posizione a favore della guerra. È a Parigi. È ormai un affermato musicista, certamente l’artista più popolare d’Italia grazie al successo del Nabucco rappresentato alla Scala il 9 marzo del 1842 che decreta la sua identificazione con il movimento nazionale. Gli italiani, come gli Ebrei che nel coro ricercano la loro patria, vogliono scrollarsi di dosso il giogo delle potenze che da secoli occupano il bel paese, francesi, austriaci, spagnoli. Ancora più esplicito per il pubblico “I Lombardi alla Prima Crociata”, dal romanzo di Grossi.

La sua fama è non solo nazionale ma europea. Gli impresari dei teatri e gli editori gli offrono contratti sempre più vantaggiosi, e mettono a sua disposizione i cantanti migliori e più famosi[21]. A Roma, a Napoli, a Londra, a Parigi.

E da Parigi, insieme ad altri illustri italiani presenti nella capitale francese sottoscrive l’8 agosto un appello al Governo provvisorio della Lombardia e al Governo repubblicano francese, affinché intervengano in vista dell’imminente assalto degli austriaci alla città di Milano. E nonostante Verdi non riponesse soverchie speranze in un intervento straniero. Ma è troppo tardi. Il 6 Carlo Alberto e l’esercito sardo-piemontese avevano abbandonato Milano. Sa bene, e ne scrive a Clara Maffei dopo l’armistizio di Salasco:”…Vuol sapere l’opinione di Francia sulle cose d’Italia? Buon Dio, cosa mi cerca mai! Chi non è contrario è indifferente: aggiungo di più che l’idea dell’Unità Italiana spaventa questi uomini piccoli, nulli che sono al potere. La Francia non interverrà colle armi (…) L’intervenzione diplomatica franco-inglese non può essere che iniqua, vergognosa per la Francia, e ruinosa per noi. Difatti tenderebbe a fare che l’Austria abbandonasse la Lombardia e si contentasse del Veneto (…) per noi resterebbe un’onta in più, la devastazione della Lombardia, ed un principe in più in Italia (…). Sa in chi spero? Nell’Austria: nei sconvolgimenti dell’Austria. Qualcosa di serio deve pur nascere là, e se noi sapremo cogliere il momento, e fare la guerra che si doveva fare, la guerra d’insurrezione, l’Italia può ancora esser libera. Ma Iddio ci salvi d’aver confidenza nei nostri re e nelle nazioni straniere…”[22].

Di sentimenti italianissimi, patriota fervente, Verdi era sempre stato ma agli avvenimenti politici non aveva mai partecipato che dentro di sé o con gli accenti della sua musica rude e sanguigna, salvo nel 48, con la sua aperta adesione a una protesta del Guerrieri-Gonzaga contro la tirannide austriaca. Scrive a Francesco Maria Piave, il suo librettista prediletto: “figurati s’io voleva restare a Parigi sentendo una rivoluzione a Milano… Onore a questi Prodi! Onore a tutta l’Italia che in questo momento è veramente grande! L’ora è suonata, siine pur persuaso, della sua liberazione. È il popolo che lo vuole: e quando il popolo vuole non avvi potere assoluto che le possa resistere… Sì sì ancora, pochi anni, forse pochi mesi, e l’Italia è stata libera. Una, repubblicana”[23]. Evidente in queste parole l’influenza di Mazzini, che Verdi aveva incontrato nella capitale francese, il richiamo all’impegno nazionale, il rifiuto degli aiuti stranieri che il patriota genovese aveva usato nelle lettere a Carlo Alberto ed a Pio IX.

Nel 1849 Verdi rientra in Italia dove la situazione politica è radicalmente cambiata. Pur tra notevoli difficoltà e costanti pressioni interne ed internazionali il nuovo re di Sardegna, Vittorio Emanuele II, aveva conservato il regime statutario mentre negli altri Stati italiani le costituzioni emanate sotto la spinta popolare erano state presto revocate e i sovrani avevano attuato una dura reazione protetti dalle baionette austriache. Per non dire del Lombardo-Veneto sottoposto ad una vera e propria occupazione militare (in regime di stato d’assedio fino a maggio del 1854) con esecuzioni capitali perfino per possesso di manifestini. Molti furono incarcerati, altri furono costretti all’esilio.

È il tempo nel quale Verdi deve lottare contro la censura sempre più penetrante e sospettosa di ogni manifestazione artistica che contenga qualche riferimento patriottico. Accade, dunque, che La battaglia di Legnano dovette assumere un travestimento olandese, come Assedio di Arnhem; che Gustavo II fu trascinato dalla Svezia alla Boston coloniale e trasformato nel Ballo in maschera; che La Traviata venne ambientata nel ‘700. La Maledizione lascia la corte parigina di Francesco I ediviene Rigoletto nella Mantova dei Gonzaga.

Il Maestro di Busseto, cantore dell’indipendenza nazionale italiana, sentendo intorno a sé il fervore di amor patrio infiammare i petti degli italiani, canta l’amore di patria e della propria terra e le più nobili, più alte aspirazioni umane e la bellezza e santità del sacrificio per ogni nobile causa, cosicché la sua voce, le sue parole, i suoi canti, poterono essere da tutti gli italiani sentiti come corrispondenti a quelle intenzioni a quei sentimenti e propositi che essi nutrivano nell’intimo con loro sangue più puro e più generoso[24]. E “Viva Verdi” diventa il grido del riscatto nazionale, come in occasione della rappresentazione di “Un ballo in maschera” al Teatro Apollo di Roma il 17 febbraio 1859, quando gli spettatori presenti leggono nelle lettere che componevano il cognome del celebre musicista le iniziali delle parole “Vittorio Emanuele Re D’Italia”[25].

Verdi, ha scritto Benedetto XVI, “ha speso l’esistenza a scrutare il cuore dell’uomo; nelle sue opere ha messo in luce il dramma della condizione umana: con la musica, le storie rappresentate, i vari personaggi. Il suo teatro è popolato di infelici, di perseguitati, di vittime. In tante pagine della Messa da Requiem riecheggia questa visione tragica dei destini umani: qui tocchiamo la realtà ineluttabile della morte e la questione fondamentale del mondo trascendente, e Verdi, libero dagli elementi della scena, rappresenta, con le sole parole della Liturgia cattolica e con la musica, la gamma dei sentimenti umani davanti al termine della vita: l’angoscia dell’uomo nel confronto con la propria fragile natura, il senso di ribellione davanti alla morte, lo sgomento alle soglie dell’eternità. Questa musica invita a riflettere sulle realtà ultime, con tutti gli stati d’animo del cuore umano, in una serie di contrasti di forme, toni, coloriti, in cui si alternano momenti drammatici a momenti melodici, segnati dalla speranza”[26].

Nel salotto della contessa Maffei, nel 1850, l’ambiente politico-culturale nel quale si muove Verdi avvia una riflessione sulla possibilità di conferire una prospettiva nuova e più efficace al movimento nazionale. Ancora una volta è Mazzini che, con la creazione del Partito d’Azione e l’indizione del Prestito nazionale, tenta di far uscire il movimento patriottico dalla dimensione cospirativa. I ripetuti insuccessi dei suoi tentativi insurrezionali determinano però il rapido esaurimento di questa prospettiva, a vantaggio di quella, certamente più concreta, che si stava delineando grazie alla diplomazia europea di Cavour, soprattutto dopo la guerra contro la Russia a fianco di Inghilterra e Francia, combattuta prevalentemente in Crimea, e la fondazione della Società Nazionale Italiana.

Verdi non tarda a comprendere che l’unità d’Italia poteva realizzarsi solamente grazie all’impegno del piccolo ma agguerrito Regno di Sardegna, divenuto presto il rifugio dei patrioti che lasciavano i vari stati dove i sovrani si rifiutavano di cedere il passo all’unificazione come avevano rifiutato la concessione delle costituzioni, e quando costretti dalla rivolta popolare l’avevano immediatamente revocata. Un Re italiano, dunque, per fare l’Italia anche eventualmente con l’aiuto di potenze straniere. Così Verdi modifica la precedente ostilità ad aiuti provenienti dall’estero, come aveva sostenuto nel 1848. Ai più questa scelta, in particolare dopo lo scoppio della seconda guerra d’indipendenza e l’insurrezione della Toscana, dei Ducati e delle Legazioni pontificie, appare l’unica praticabile, anche se le vicende della diplomazia a volte sembrano raffreddare gli entusiasmi. Come dopo il trattato di Villafranca che Verdi commenta con Clara Maffei: “… E dov’è dunque la tanto sospirata e promessa indipendenza d’Italia? (..). O che la Venezia non è Italia? (…). Quanta povera gioventù delusa! E Garibaldi che ha perfino fatto il sacrificio delle sue antiche e costanti opinioni in favore d’un Re senza ottenere lo scopo desiderato (…). Scrivo sotto l’impressione del più alto dispetto e non so cosa mi dica. È dunque ben vero che noi non avremo mai nulla a sperare dallo straniero, di qualunque nazione sia!” [27]

Queste riflessioni, tuttavia, non gli impediscono di dare il suo contributo per contrastare l’attuazione delle clausole del Trattato che prevedevano il ritorno dei vecchi sovrani nell’Italia centrale. Nel 1859 non potendosi arruolare, a causa della sua salute sempre malferma, Verdi, dopo aver avuto una parte di primo piano nell’organizzare l’armamento degli insorti parmigiani, cui contribuisce con l’acquisto di cento moderni fucili, ed aver offerto generosi soccorsi per i feriti e le famiglie dei caduti, accetta l’elezione a rappresentante di Busseto all’“Assemblea delle Provincie parmensi”, proclamando che il programma al quale egli si atteneva era l’annessione al Piemonte, nella quale risiedeva “… la futura grandezza e rigenerazione della patria comune”[28]. Presiede quindi la delegazione inviata a Torino a metà settembre per chiedere l’annessione agli Stati Sardi, e il ministro plenipotenziario britannico, Lord Hudson, organizza un suo incontro a Leri[29] col dimissionario Cavour che gli aveva scritto invitandolo a candidarsi nel collegio di Borgo San Donnino (l’attuale Fidenza) per le elezioni dell’VIII Parlamento sardo, che avrebbe proclamato Vittorio Emanuele Re d’Italia diventando il primo Parlamento del nuovo Stato. La proposta turba il Maestro, consapevole dell’enorme differenza che correva tra una rappresentanza rivoluzionaria come l’Assemblea delle Province parmensi – il cui unico scopo era impedire il ritorno dei Borbone e preparare l’annessione agli Stati sardi – e una vera assemblea legislativa e politica. Ma cede all’insistenza di Cavour. Si tratta di un vero e proprio colpo di fulmine: se il Maestro aveva certo già apprezzato la decisione dello statista piemontese di non seguire il Re nell’adesione alla pace francese, ora la personalità del Conte lo soggioga letteralmente, e le parole di ringraziamento che gli scrive poi con accenti per lui inusuali, sono il prologo a un rapporto di fedeltà e fiducia che sarebbe continuato senza incrinature per i due anni che ancora restavano da vivere allo statista piemontese: “… Non iscorderò mai quel suo Leri, dov’io ebbi l’onore di stringere la mano al grande uomo di Stato, al sommo cittadino, a colui che ogni italiano dovrà chiamare padre della patria…”[30].

Quattro anni dopo, Verdi rievoca la vicenda in una lettera a Francesco Maria Piave: “…Mi presentai a Lui (…) a sei ore del mattino, con 12 o 14 gradi di freddo. Avevo preparato il mio spice (sic!) che mi pareva un capo d’opera, e glielo spiattellai là tutto disteso. Egli n’ascoltava attentamente e quando gli descrissi la mia inattitudine a essere deputato (…) cominciò a ribattere una per una tutte le mie ragioni (…). Io soggiunsi: ebbene signor Conte accetto, ma alla condizione che dopo qualche mese darò la mia dimissione. Sia, rispose, ma me ne farete prima cenno. Fui deputato e nei primi tempi frequentai la camera. Venne la seduta solenne in cui si proclamò Roma, capitale d’Italia. Dato il mio voto, mi avvicinai al Conte e gli dissi: ora mi pare tempo di dare un addio a questi banchi. No, soggiunse, aspettate finché andremo a Roma.- Ci andremo?- Sì.- Quando?- Oh, quando, quando!- Intanto io me ne vado in campagna.- Addio, state bene, addio. – Fur l’ultime sue parole per me. Poche settimane dopo moriva!…”[31]

La candidatura di Verdi trova la contrarietà del locale esponente del partito cavouriano, l’avvocato Giovanni Minghelli Vaini, personaggio eminente di San Secondo parmense, che tenta di indurlo a ritirarla, o a presentarla in altro collegio. Verdi, pur protestando a Minghelli Vaini la sua stima, gli scrive che non poteva venir meno all’impegno preso con Cavour, né poteva presentarsi in un collegio diverso da quello nel quale ricadeva Busseto, poiché una simile scelta “…perdonami, è contro a’ miei principi. Così facendo, mi presenterei per essere eletto ed io ripeto per la centesima volta: Sono costretto ad accettare, ma non mi presento, né mi offro a nessun collegio. Se tu riesci a farmi avere la minorità dei voti, a farti nominare e a liberarmi da questo impegno, io non troverò parole sufficienti per ringraziarti di sì segnalato servigio. Farai un bene alla camera, un piacere a te, ed uno grandissimo a G. VERDI”[32].

Verdi non fa nessuna campagna elettorale, a differenza di Minghelli Vaini. Ma è troppo differente il prestigio e la popolarità dei due candidati, Verdi, entrato in ballottaggio con l’avvocato sansecondino nelle elezioni del 27 gennaio, risulta eletto il 3 febbraio con 339 voti contro 206.

Eletto deputato Verdi non dà nessun significativo contributo all’attività parlamentare. Vota le leggi proposte o volute da Cavour, per la fiducia che egli aveva nel genio del grande statista, ma niente più. Non più che un breve cenno merita l’Inno delle Nazioni che, cedendo alle vive insistenze di autorità politiche, Verdi scrive nel 1862 introducendovi frammenti della Marsigliese, del God Save the Queen, dell’Inno di Mameli, che fu eseguito a Londra nel maggio di quell’anno.

Nella ricordata lettera a Piave, Verdi dà conto dei suoi tentativi di dare le dimissioni e delle circostanze che l’avevano impedito, concludendo: “… Ora io sono ancora deputato contro ogni mio desiderio ed ogni mio gusto, senza avervi nessuna attitudine, nessun talento e mancante completamente di quella pazienza tanto necessaria in quel recinto. Ecco tutto. Ripeto che volendo o dovendo fare la mia biografia come membro del parlamento non vi sarebbe altro che imprimere in mezzo a un bel foglio di carta: ‘ I 450 non son veramente che 449, perché Verdi come deputato non esiste”. In realtà il Maestro ebbe piena consapevolezza del suo ruolo e delle sue responsabilità pubbliche, nonché del significato anche simbolico delle sue scelte politiche. Siede accanto a Quintino Sella, sui banchi del Centro-Sinistra, nel partito di coloro che appoggiano il Ministero. Diligente, pur senza mai prendere la parola in Assemblea, Verdi s’impegna su sollecitazione del Conte di Cavour, nel redigere un progetto di riordinamento dell’attività e degli studi musicali. La sua proposta però non piace al Governo. È costruita sulla base di un impegno diretto dello Stato nella promozione della cultura musicale, attraverso l’istituzione di tre Teatri lirici di Stato collegati a Conservatori e scuole di canto completamente gratuiti[33]. L’idea muoveva dalla consapevolezza della centralità della trasmissione della cultura musicale ai fini della costruzione di un’identità nazionale condivisa e diffusa, necessaria pur nella consapevolezza che il Regno avrebbe potuto dedicare al finanziamento delle politiche culturali ben poche risorse, da riservare perciò a progetti di ampio respiro. Contesta, dunque, il progetto di edificare un teatro lirico a lui dedicato a Busseto che considerava un’onerosa cattedrale nel deserto, in presenza a Parma di un grande teatro lirico come il Regio. Scrive al Consiglio municipale di Busseto: “Adempio un dovere come Deputato, (…) L’Italia corre in gravi pericoli (…) per ristrettezze pecuniarie. Non voglia il cielo che l’istoria abbia un giorno a registrare che l’Italia fu disfatta per mancanza di denaro (…) in un tempo in cui s’abbelliscono città, s’innalzano dappertutto monumenti e teatri. Busseto sta costruendo un teatro, né si creda che io voglia ora osteggiare quest’opera, sia vana, e cosa inutile come io credo. Questo non è il momento di discussione ma di pensare a cose più alte e importanti, ed è per questo che mi rivolgo a questo municipio onde esortarlo a sospendere quel lavoro, ed imitando il nobile esempio di Brescia ed altre molte città, impiegare quel denaro a ristorare le finanze patrie…” [34].

Con l’aumento dei suoi impegni internazionali, negli anni Sessanta, e prolungati tour all’estero, dove debuttarono tutte le opere composte in questo periodo, si riduce l’impegno parlamentare del Maestro. Uomo mai di partito, ma fedele alle sue convinzioni, in una prospettiva di liberalismo progressista e di patriottismo umanitario, Verdi è preoccupato per la deriva nazionalista e imperialista evidente nella guerra franco-prussiana. Ne scrive a fine di settembre del 1870 a Clara Maffei: “… la presunzione dei francesi era, ed è, malgrado tutte le loro miserie, insopportabile, ma infine la Francia ha dato la libertà e la civiltà al mondo moderno. E s’essa cade, non ci illudiamo, cadranno tutte le nostre libertà, e la nostra civiltà. Che i nostri letterati e i nostri politici vantino pure il sapere, le scienze e (Dio glielo perdoni) le arti di questi vincitori; ma se guardassero un po’ più in dentro, vedrebbero che sono (…) d’uno smisurato orgoglio, duri, intolleranti, sprezzatori di tutto ciò che non è germanico (…). L’antico Attila (…) si arrestò avanti la maestà della capitale del mondo antico: ma questi sta per bombardare la capitale del mondo moderno (…). Forse perché non esista mai più, così bella, una capitale che essi non arriveranno mai a farne una eguale. Povera Parigi! che ho vista così allegra, così bella, così splendida nel passato aprile! E poi?… Io avrei amato una politica più generosa, e che si pagasse un debito di riconoscenza (…); avrei preferito segnare una pace vinti coi Francesi, a quest’inerzia che ci farà sprezzare un giorno. La guerra europea non la eviteremo, e saremo divorati. Non sarà domani, ma sarà. Un pretesto è subito trovato…”. Il dolore non veniva certo diminuito dall’annessione di Roma, che Verdi commenta con parole che tradiscono amarezza e perplessità: “L’affare di Roma, è un gran fatto, ma mi lascia freddo (…) perché non posso conciliare Parlamento e Collegio cardinalizio, libertà di stampa e Inquisizione, Codice civile e Sillabo (…). Che domani ci venga un Papa destro, astuto, un vero furbo, come Roma ne ha avuti tanti, e ci ruinerà. Papa e Re d’Italia non posso vederli insieme nemmeno in questa lettera”[35].

Il 15 novembre 1874 Verdi viene nominato senatore del Regno, scelto fra gli appartenenti alle categorie 20 (“Coloro che con servizi o meriti eminenti avranno illustrato la patria”) e 21 (“Le persone che da tre anni pagano tre mila lire d’imposizione diretta in ragione dei loro beni o della loro industria”) dell’articolo 33 dello Statuto Albertino. Verdi non era certo più, come quando gli fu offerta la candidatura alla Camera dei deputati, il testimonial di un progetto politico in fieri. Davanti a lui si apriva una lunga e attivissima vecchiaia, nel corso della quale, accanto ai ruoli di agricoltore, filantropo e uomo pubblico svolti con infaticabile impegno, avrebbe continuato a sviluppare il proprio percorso artistico, attraverso lunghi periodi di riflessione sulle possibilità aperte alla tradizione melodica dalle nuove prospettive del linguaggio musicale, fino alla realizzazione di due capolavori rivoluzionari come l’Otello e, a ottant’anni, il Falstaff.

Anche nei lavori del Senato del Regno l’impegno di Verdi è pressoché formale. Ma certamente, come in precedenza nell’assemblea dei deputati, sente le responsabilità pubbliche della nuova carica ed è sensibile alle nuove problematiche che agitano la vita della Nazione in questa fase nella quale emerge in primo luogo, con crescente conflittualità, la questione sociale. In quegli anni, specie nelle campagne, le condizioni di vita peggiorano. Il costo del lavoro è tagliato in funzione di accumulazione del capitale necessario allo sviluppo industriale[36]. In Verdi è evidente che certe ribellioni testimoniano un crescente scollamento fra Paese legale e Paese reale. Ne scrive, a marzo del 1878, a Piroli: “…Se voi vedeste, caro Piroli, da noi quanti poveri (…) hanno mandato rinforzi di carabinieri a cavallo, di Bersaglieri etc. per prevenire qualche dimostrazione. Così la povera gente dice: ‘noi domandiamo lavoro, pane.. essi ci mandano soldati e manette…’ Così è…”[37].

Verdi si sente parte di una classe dirigente che non poteva continuare a rimanere indifferente al peggioramento delle condizioni di vita delle classi popolari. E come in gioventù aveva contribuito con la sua opera di artista a sviluppare sentimenti patriottici negli italiani adesso ritiene di doversi assumere le sue responsabilità nei confronti della comunità nazionale nelle vicende dell’economia e sociali. È, infatti, la primavera del 1881 quando scrive all’amico giornalista Opprandino Arrivabene: “…siamo tutti a S. Agata (…) per dare un colpo d’occhio ai lavori che ho fatto fare durante l’inverno sia nei campi come nella casa (…) ho speso qualche soldo che ha dato da mangiare a molti poveri operai: Perché dovete sapere, voi abitanti delle capitali, che la miseria è grande, grandissima, e se non ci sarà una provvidenza sia dall’alto che dal basso un giorno o l’altro succederanno guai gravissimi…”[38]. E in dicembre: “…tu sai (…) che sono in fabbriche; l’anno passato ho fabbricato una cascina, quest’anno due ancora più grosse; e che sono circa duecento operai che hanno lavorato fino ad oggi, ed ai quali ho dovuto dare disposizioni per l’avvenire appena il gelo lo permetterà.(…) tanto tanto la gente guadagna, e nel mio villaggio la gente non emigra…”[39][40].

In questo periodo Verdi s’impegna moltissimo per lo sviluppo delle infrastrutture civili in tutto il territorio, in particolare attraverso la fondazione dell’Ospedale di Villanova sull’Arda, di cui sorveglia sempre con grande attenzione l’amministrazione. Solo in vecchiaia, in particolare dopo la morte di Giuseppina Strepponi, nel 1897, in un orizzonte di attività pubblica più limitato, Verdi s’impegna nella sua più nota opera filantropica, la Casa di riposo per i Musicisti di Milano, che vede la luce nel 1899, e presso la quale è sepolto alla sua morte, avvenuta il 27 gennaio 1901.


[1] F. Werfel – P. Stefan, Verdi. L’uomo nelle sue lettere, (le citazioni nell’articolo sono tratte dalla traduzione italiana) Castelvecchi Editore, Roma, 2013.

[2] B. Croce, Storia del Regno di Napoli, Laterza, Bari, 1965, p. 228.

[3] B. Croce, ivi, p. 231.

[4] L. Salvatorelli, Sommario della storia d’Italia, Einaudi, Torino, 1969, p. 414.

[5] P. Peluffo, La riscoperta della Patria, Rizzoli, Milano, 2008, p. 77.

[6] M. Veneziani, Dante, Nostro Padre, Vallecchi, Firenze, 2020, p. 13.

[7] A. Cazzullo, Viva l’Italia!, Mondadori, Milano, 2010, p. 16.

[8] P. Milza, Storia d’Italia, Corbaccio, Milano, 2006, p. 623

[9] Che, tra l’altro scrive: “Sire, respingete l’Austria, lasciate addietro la Francia, stringetevi a lega d’Italia. Ponetevi alla testa della nazione, e scrivete sulla nostra bandiera: Unione, Libertà, Indipendenza. Dichiaratevi vindice, interprete dei diritti popolari, rigeneratore di tutta l’Italia, liberate l’Italia dai barbari. Edificate l’avvenire. Date il vostro nome a un secolo” (in, S. Bertoldi, Il re che tentò di fare l’Italia, Rizzoli, Milano, 2000, p. 178).

[10] M. Meriggi, Società, istituzioni e ceti dirigenti, in Storia d’Italia 1. Le premesse dell’unità, a cura di G. Sabbatucci e V. Vidotto, Laterza, Bari , 1994, p. 160.

[11] P. Colombo, Storia costituzionale della monarchia italiana, Laterza, Bari, 2001, p. 11.

[12] C. Duggan, La forza del destino, Laterza, Bari, 2008, p. 190, che riferisce con le parole di Giuseppe Montanelli il tripudio della folla che aveva riempito piazza del Quirinale.

[13] S. Bertoldi, Il re…, cit.p. 226.

[14] Ivi, 191.

[15] Statuto e non Costituzione, come analogamente definito nelle leggi fondamentali del Granducato di Toscana. Si chiameranno, infatti, statuto le costituzioni concesse dallo Stato pontificio il 14 marzo 1848 e nel Regno di Sicilia il 10 luglio 1848. Né si dimentichi che con la formula “statuto costituzionale” erano state battezzate le molteplici costituzioni napoleoniche del regno d’Italia, quella lucchese e quella del Regno di Napoli e Sicilia (P. Colombo, Con lealtà di Re e con affetto di padre, Il Mulino, Bologna, 2003, p. 92

[16] Nota come la battaglia delle nazioni che si svolse dal 16 al 19 ottobre 1813 tra l’impero francese e la coalizione e coinvolse 550 mila soldati, la più grande battaglia mai vista in Europa fino all’avvento della Prima Guerra Mondiale.

[17] G. Volpe, L’Italia che fu, Edizioni del Borghese, Milano, 1961, p. 49.

[18] S. Bertoldi, op. cit., p. 238.

[19] E. Galli della Loggia, Speranze d’Italia, Il Mulino, Bologna, 2018, p. 21

[20] S. Bertoldi, Il re…, cit., p. 240.

[21] I. Pizzetti, Verdi, in Enciclopedia italiana, vol. XXXV, p. 152

[22] F. Werfel – P. Stefan, Verdi. cit., 2013, pp. 115-116.

[23] E. Galli della Loggia, op. cit., p. 11.

[24] I. Pizzetti, p. 156.

[25] L. Orsini, Giuseppe Verdi, Società Editrice Internazionale, Torino, 1965, p. 107.

[26] Benedetto XVI, da un discorso del 16 ottobre 2010, in “Sulla Musica”, a cura di Lucio Coco, Marcianum Press, Venezia, 2013, p. 76.

[27] F. Werfel – P. Stefan, Verdi. L’uomo, cit. pp. 182-184.

[28] F. Werfel – P. Stefan, Verdi. L’uomo, cit. p. 184.

[29] A. Viarengo, Cavour, Salerno editrice, Roma, 2010, p. 402.

[30] F. Werfel – P. Stefan, Verdi. L’uomo, cit., pp.184-185.

[31] F. Werfel – P. Stefan, Verdi, cit. pp. 203-204.

[32] F. Werfel – P. Stefan, Verdi, cit. p. 189.

[33] L. Pestalozza, Giuseppe Verdi in Parlamento, in Il Parlamento italiano 1861-1988, vol. III, 1870-1874. Il Periodo della destra: da Lanza a Minghetti. Nuova CEI, Milano, 1988, p. 72).

[34] F. Werfel – P. Stefan, Verdi, cit. p. 191.

[35] F. Werfel – P. Stefan, Verdi, cit. pp. 244-245.

[36] C. Duggan, La forza…, cit. 404.

[37] in Rescigno, 2012, p. 742.

[38] F. Werfel – P. Stefan, Verdi, cit. pp. 305-306.

 

[40] F. Werfel – P. Stefan, Verdi, cit., p. 307.

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