martedì, Febbraio 11, 2025
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Togliatti, Tito e la Venezia Giulia, in un libro di Marino Micich

di Salvatore Sfrecola

Con la prefazione di Giovanni Stelli, Presidente della Società di Studi Fiumani, giunge nelle librerie a ridosso della “Giorno del Ricordo” questo libro di Marino Micich, “Togliatti, Tito e la Venezia Giulia – La guerra, le foibe, l’esodo – 1943-1954” (Mursia, Milano, 2025, pp. 182, € 15,00). Direttore dell’Archivio Museo storico di Fiume-Società di Studi Fiumani, Micich è membro della Commissione governativa per le onorificenze ai congiunti degli infoibati, ai sensi della legge n. 92/2004 ed è autore di numerosi saggi tra cui “I Giuliano-dalmati a Roma e nel Lazio”, “L’esodo tra cronaca e storia”, “Foibe, Esodo, Memoria”, “Perché il Giorno del Ricordo. La legge 92/2004 compie vent’anni”.

L’opera intende contribuire a far luce su un tema a lungo ignorato, quello dei crimini commessi dai comunisti jugoslavi che hanno portato all’esodo delle popolazioni italiane della sponda orientale dell’Adriatico in un momento drammatico nel quale, al termine della Seconda Guerra Mondiale, con la cessione dell’Istria, di Fiume e di Zara alla Repubblica federativa di Jugoslavia si è realizzato un esodo di oltre 300.000 connazionali dai territori nei quali da secoli erano presenti e nei quali avevano seminato cultura e impegno economico e sociale. 

Dopo un lungo silenzio storiografico e la disinformazione dell’opinione pubblica, responsabilità del Partito Comunista Italiano (P.C.I.), come ha riconosciuto Luciano Violante, ex Presidente della Camera, cui va il merito di aver “sdoganato” a sinistra la questione della frontiera adriatica, solamente con la caduta del comunismo, il crollo del muro di Berlino e la dissoluzione dei sistemi del socialismo reale, è stato possibile riprendere il filo della narrazione dei crimini commessi dai comunisti titini e la sofferenza degli italiani uccisi o costretti alla fuga. La legge 30 marzo 2004, n. 92, istitutiva del “Giorno del Ricordo”, in memoria delle vittime delle foibe e dell’esodo degli istriani fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra, sta a dimostrare il cambiamento sostanziale nella informazione storica. “Ciò nonostante – scrive Giovanni Stelli nella prefazione -, permangono tuttora notevoli resistenze a riconoscere fino in fondo la natura repressiva dei regimi del socialismo reale come dimostrano alcune reazioni alla risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019 “Importanza della memoria per il futuro dell’Europa”, risoluzione di cui si parla nell’ultimo capitolo del saggio di Micich. Più in generale, ciò che stenta ad affermarsi è la presa d’atto della natura totalitaria del comunismo novecentesco, a dispetto dei numerosi studi su questo tema, come quelli, ormai classici, di Friedrich e Brzezinski, Talmon, Voegelin e Arendt”. Prendendo le mosse dal riconoscimento del carattere totalitario del comunismo titoista la lotta antifascista condotta dai comunisti jugoslavi di Josip Broz, detto Tito, “fu nel contempo una lotta per l’instaurazione di un regime comunista totalitario, di una dittatura del proletariato, per usare il termine che è già in Marx e che poi è ampiamente usato da Lenin, ovvero di un regime qualificato e eufemisticamente come democratico, ma caratterizzato dal predominio assoluto del partito unico e dal pervasivo controllo di una onnipotente polizia segreta volta a stanare e a neutralizzare con tutti i mezzi i veri o presunti nemici del popolo”.

Ho ricordato la posizione assunta da Luciano Violante, convinto che “Il Partito comunista italiano sbagliò a tacere sull’Istria” che ha “sdoganato” a sinistra la questione della frontiera adriatica dopo il lungo silenzio sull’esodo dall’Istria, da Fiume, dalle coste dalmate. Un silenzio “perché il confine ideologico è prevalso su quello geografico”. Sono queste parole che Micich utilizza quasi come introduzione del suo volume, un lavoro ricco di preziosa documentazione, tra l’altro fornendo preziosi dati statistici sull’etnia italiana dal 1900 al 1921, che affronta i temi del rapporto tra Togliatti e Tito e dell’atteggiamento del Pci di fronte alle vicende complesse del confine nordorientale.

Di famiglia fiumana, studioso noto della questione adriatica, Micich analizza l’andamento nel tempo dei rapporti tra italiani, sloveni e croati richiamando talune esasperazioni nazionalistiche che li hanno deteriorati, le contrapposizioni provocate prima dalla volontà di “italianizzazione” del fascismo, poi dal nazionalcomunismo titino. 

Il libro analizza il ruolo del P.C.I. nella resistenza giuliana, l’incidenza dell’eccidio di Porzus nella corsa per Trieste, gli accordi tra Tito e Togliatti, sino alle vicende successive al 1945 e alla questione del Territorio Libero di Trieste. Mincich segnala l’atteggiamento di Togliatti che il 19 ottobre 1944, due giorni dopo un incontro a Bari con Edvard Kardelj e Milovan Gilas, rappresentanti di Tito, invia le direttive al suo uomo a Trieste, Vincenzo Bianco. “L’occupazione da parte jugoslava – egli scrive – è un fatto positivo di cui dobbiamo rallegrarci e che dobbiamo in tutti i modi favorire, perché significa che in questa regione non vi sarà né un’occupazione né una restaurazione dell’amministrazione reazionaria italiana”. La prospettiva di Togliatti è sottintesa nell’invito a garantire che “alla testa della città vi siano le forze democratiche e antifasciste più disposte alla stretta collaborazione con l’esercito e l’amministrazione di Tito”. Togliatti si muove nell’ottica dell’internazionalismo. E da qui discendono le scelte successive, la rottura dell’unità antifascista in seno al Cln triestino e il passaggio della divisione “Garibaldi-Natisone” alle dipendenze del IX Corpus sloveno, unica formazione partigiana italiana inquadrata in un esercito di liberazione straniero. Le vicende successive alla fine della guerra, dagli infoibamenti alla definizione del confine sulla linea Morgan, al trattato di pace del 10 febbraio 1947, vedono Togliatti impegnato in un difficile equilibrismo tra legittimazione nazionale e internazionalismo, in un quadro dove le vicende della frontiera adriatica sono ormai questione che prescinde dalle ragioni italiane e jugoslave e riflettono i più ampi scenari della Guerra Fredda.

Quella di Micich è una ricostruzione puntale degli avvenimenti che chiama in causa le responsabilità del P.C.I. quanto al silenzio sulle foibe e sull’esodo. Un silenzio che è anche “internazionale”, che comincia ad essere messo in discussione solamente dopo la rottura tra Stalin e Tito anche se la nuova posizione della Jugoslavia nel contesto delle nazioni esige che non sia messa in difficoltà con domande imbarazzanti, anche da parte dell’Italia Paese vincitore – ricorda Micich – ma, in realtà, sconfitto. E vi è il silenzio del P.C.I. che non ha alcun interesse a parlare di una questione che evidenzia le contraddizioni tra la sua nuova collocazione come partito nazionale legittimamente rappresentato in Parlamento, e la sua vocazione internazionalista rafforzata dagli stretti legami con Mosca. Inoltre, Micich sottolinea come nell’opinione della base comunista italiana il movimento partigiano titino abbia continuato a lungo a rappresentare il mito della liberazione dall’occupazione tedesca. Un “mito”, un riferimento identitario che appartiene al patrimonio del comunismo italiano che non è scalfito da una verità storica che ci si ostina a negare.

Non solo. Nel silenzio ad oltranza, il P.C.I. nascondeva la complicità dei militanti comunisti nei sequestri e nelle uccisioni di persone segnalate ai partigiani slavi per vendetta politica o personale. Una verità scomoda, quando è “il confine ideologico che prevale su quello geografico”, secondo il giudizio di Violante.

Non posso chiudere questa recensione senza sottolineare come, mentre il Presidente della Repubblica, in occasione della celebrazione di Nova Goriza Capitale della cultura europea 2025, richiamava l’amicizia tra i popoli, questa debba necessariamente essere fondata sulla giustizia e sul riconoscimento reciproco. Del quale, nella realtà della vita delle comunità, sloveni e croati stentano a farsene carico, cominciando dall’ammettere le loro responsabilità ed a consentire una presenza degli esuli, anche quando cercano di dove portare un fiore ai loro morti. Per quelle comunità, che non hanno restituito neanche un mattone di tutto ciò che è stato sottratto agli esuli, il tempo passa troppo lentamente sicché, mi è stato fatto notare, a Gorizia, mentre il Presidente Mattarella parlava di “cultura dei confini” in una visione di integrazione europea sul Monte Sabotino una enorme scritta ritinteggiata in bianco in un prato ripulito recava la scritta TITO. Come se fossimo indietro di 80 anni.

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