di Salvatore Sfrecola
Con un e-book edito da Il Sole-24 Ore, Paola Maria Zerman, Avvocato dello Stato con esperienza di collaborazioni ministeriali e di insegnamento (tra l’altro organizza un corso per i praticanti dell’Avvocatura dello Stato), affronta il tema del modo di fare amministrazione per restituire fiducia nei pubblici funzionari, abbandonando la “cultura del sospetto”. Quella per la quale politici e cittadini ritengono i dipendenti pubblici inefficienti e spesso fannulloni, in sostanza dei privilegiati.
Chiedo a Paola Maria Zerman come si vince la cultura del sospetto. Risponde decisa: “con la cultura della fiducia. Lo analizzo nel libro, e, grazie alla collaborazione con la Scuola Nazionale di Amministrazione (SNA), ne sto facendo anche un corso per i nuovi dirigenti pubblici. “Poche cose possono aiutare un individuo più dell’affidargli delle responsabilità e mostragli che avete fiducia in lui”, diceva T. Washington. Ed è anche un principio codificato nel nuovo Codice degli appalti. Il problema è quello di saperlo mettere in pratica nel rispetto della legalità. È un problema di cultura amministrativa che attualmente manca e che, allo stato, può provocare anche danni”.
Scendiamo nel dettaglio. Come favorire la fiducia dei cittadini nei confronti della P. A.. Forse, come afferma Antonella Bianconi, già Segretario generale dell’Autorità Nzionale Anticorruzione (ANAC), mettendo le persone giuste al posto giusto? “Certamente. Nel suo libro “Fiducia” mette in risalto come i cittadini guardano alla P.A. nella speranza di individuare sempre soggetti professionalmente competenti e disponibili a riconoscere diritti e interessi giuridicamente rilevanti. Insomma, il cittadino ricerca nel pubblico dipendente il profilo dell’“integrità”. Che non sia collocato in quella posizione, soprattutto se apicale, per effetto del favoritismo, di amicizie politiche o di connivenze varie, spesso definite “cordate”. A danno della competenza maturata negli anni di lavoro”.
È quel che demotiva coloro che sono ingiustamente scavalcati, osservo. A conferma dell’utilità di un libro sull’integrità del pubblico dipendente. Un concetto sempre attuale. “Infatti, mi risponde Paola Zerman, già da qualche anno il legislatore sta puntando sulla prevenzione della corruzione, attraverso la previsione di corsi di formazione di etica e codici di comportamento”.
Chiedo perché ha pensato di scrivere un libro sull’integrità? “Perché mi sono accorta che spesso la formazione che viene data è prevalentemente astratta, mentre al contrario, è necessario, per essere efficace, che approfondisca i fondamenti antropologici di comportamenti devianti e virtuosi, che nascono all’interno del cuore umano e si riverberano nelle dinamiche lavorative e di ufficio”.
Insomma, ritiene che vi sia spesso un atteggiamento autoreferenziale e lontano dai cittadini? “Come Avvocato dello Stato il mio è un osservatorio privilegiato. Noto che l’azione della P.A. spesso esaurisce gran parte delle proprie energie nel rispetto di formalismi non necessari, che non di rado imbrigliano lo spirito di iniziativa e di creatività funzionali alla soluzione dei problemi dei cittadini, quella creatività molto presente nella mentalità italiana e che ha fatto di noi un grande popolo”.
La ragione? “La cultura del sospetto. Che ha radici filosofiche e culturali che analizzo nel testo. Il sospetto del politico nei confronti dei pubblici funzionari che ritiene scarsamente produttivi e poco professionali, tanto da richiedere controlli di natura formalistica. Sospetto simile a quello che nutre il cittadino, che ritiene i pubblici funzionari anche dei privilegiati. Sospetto – si badi bene – ricambiato dal pubblico funzionario che, non di rado, presume che il cittadino ricerchi soprattutto la scorciatoia dell’illegalità. Per vincere la cultura del sospetto occorre passare ad una estesa fiducia. Lo analizzo nel libro. Lo ha compreso bene la SNA presso la quale sto facendo anche un corso per i nuovi dirigenti pubblici improntato a questa filosofia”.
Abbiamo detto che la fiducia nella P.A. nasce dalla visibile presenza delle persone giuste nel posto giusto. Vuol dire che non sempre accade? “È sotto gli occhi di tutti che uno dei grandi mali dell’Italia è quello del favoritismo, che spesso induce a privilegiare nei posti apicali coloro che vantano strette amicizie politiche. Ovviamente questo mortifica la competenza di coloro che non hanno santi in Paradiso”. Ed aggiunge: “Se i vertici appaiono come scelti dalla politica indipendentemente dalla competenza vengono a mancare spunti emotivi per la base. Spesso è proprio il dirigente “tossico” che demotiva gli impiegati con comportamenti ingiusti, non trasparenti, che impediscono la crescita di tutti e la condivisione delle competenze. Anche in prospettiva dei cambiamenti epocali che stanno già per investire la P.A., è quanto mai necessario che il dirigente pubblico sia lungimirante e non ripiegato su posizioni di potere personale fine a sé stesso”.
Chiedo a Paola Zerman se, a suo giudizio, potrà influire sul cambiamento l’introduzione dell’intelligenza artificiale? “Ne sono convinta, risponde. Già i giudici amministrativi sono alle prese con decisioni fondate su algoritmi, dove non è stato chiaro l’iter motivazionale. Giustamente l’IA si sta introducendo in molte decisioni amministrative (è prevista anche nel Codice degli appalti), un processo inevitabile, così come accade nel settore privato. Ma i dirigenti devono saper governare il processo, utilizzando la parte migliore che la stessa può offrire. Altrimenti il rischio è quello di perdere le garanzie procedimentali per i cittadini, previste dalla legge 241/90 e dalla stessa Costituzione. Per questo parlo della necessità di una I.A. costituzionalmente orientata”.
Nel testo parla della dinamica dell’“integrità in atto”: che cosa significa? “A mio modo di vedere, integrità non significa solo non essere corrotti, o disonesti, ma pensare attivamente a come migliorare sempre di più per conseguire con competenza ed efficienza il risultato del servizio al cittadino. È un cammino in divenire perché è sempre possibile fare meglio”.
Alla base dell’integrità, lei pone gli aspetti dell’onestà, della cura dell’interesse pubblico e della competenza. Ma, a proposito di quest’ultima, il meccanismo concorsuale non garantisce già la selezione dei migliori? “In teoria sì, ma è necessario crescere sempre di più, grazie anche alla presenza di stimoli che non sempre si ritrovano nel lavoro pubblico. Ho visto persone di eccellenza però demotivate e non valorizzate. Quanto alla competenza iniziale è sotto gli occhi di tutti il generale scadimento dell’istruzione. Per questo ben venga la riforma Valditara, lo studio della storia e l’apprendimento del modo di ragionare senza ricorrere a facili scorciatoie. La qualità della formazione scolastica è la carta vincente per tutte le sfide in atto”.
Ho letto che, a proposito dell’integrità, lei analizza nel libro quelle che definisce “spinte” e “controspinte”. “Esatto. Le spinte sono quelle che ci invogliano a fare il bene, e che troviamo già dentro noi, ma che si sviluppano con l’esercizio fino a diventare, secondo il linguaggio degli antichi, virtù, e, in termini moderni, sia pure riduttivi, skills. Le controspinte sono conseguenza delle tendenze che pure albergano nel cuore umano e che sono riconducibili ai c.d. vizi capitali. Tra le “spinte”, tutte importanti e tra loro interconnesse, la gloria suprema delle virtù, come afferma Cicerone, è la giustizia, cioè la constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuere (Digesto). Sono convinta che, se nei rapporti di lavoro, per una settimana si vivesse la virtù della giustizia, ci sarebbe una rivoluzione a 360 gradi in meglio”.
Perché? “Non mi riferisco solo al giusto compenso secondo quanto previsto dai contratti, ma alla valorizzazione di ogni singolo dipendente secondo le sue capacità, senza però favoritismi o mortificazione degli altri. Difficile equilibrio, compito del dirigente, che deve rispettare le mansioni previste, non sovvertire il ruolo di anzianità, ma, nel contempo, valorizzare i giovani. Per questo penso che sia necessario giungere ad una diversa modalità di lavoro nella P.A. fondata sul lavoro di equipe, ispirato alla collaborazione tra giovani e più anziani, mediante la condivisione degli obbiettivi e delle competenze”.
Ho letto che, come forma di ingiustizia, lei indica anche il mobbing, perché? “Il mobbing, più diffuso di quanto si possa pensare nelle P.A. è una gravissima forma di ingiustizia, perché svuota di contenuto il lavoro del dipendente, gli fa perdere la sua dignità di lavoratore e alla fine si ripercuote sul clima di tutto l’ufficio”.
Qui interviene l’invidia? “Questo è un grande tema, che influisce direttamente sulla qualità della prestazione resa. Mi spiego. In una società dove ancora c’è poca mobilità lavorativa, come la nostra, specie per chi opera nella P.A. ci si aggrappa al posto fisso. Ma questo determina una omologazione verso il basso, visto che, come afferma H. Schoeck, il conformismo costituisce una forma, anche inconscia, di prevenzione dall’invidia. Chi si distingue, infatti, per capacità, spirito di iniziativa, creatività, invece di essere valorizzato, viene spesso mobbizzato. La mancanza di spirito di squadra finalizzata a massimizzare la qualità della prestazione, impediscono di valorizzare chi è in grado di individuare soluzioni innovative per problemi sociali importanti. Con conseguente lentezza burocratica, farraginosità e formalismo che di frequente si verificano”.
Ho letto che si riferisce in particolare alla sanità. “Sì, ne parlo espressamente. In Italia abbiamo un welfare solidaristico di eccellenza, frutto della nostra storia. E, anche gli atei devono riconoscerlo, dell’opera della Chiesa e di uomini santi. Si pensi al nome di moltissimi ospedali, fondati per la cura e assistenza degli ultimi dei bisognosi. Sono preoccupata perché in questi ultimi anni vedo che la sanità sta virando verso il modello liberista americano, dove chi non ha soldi non si può curare. L’esempio della lunghezza delle liste di attesa è molto grave”.
In conclusione, perché secondo lei, lo sforzo per raggiungere l’integrità migliora il servizio al cittadino? “Lo sforzo per migliorare ogni giorno, cercando di dominare gli impulsi e le spinte negative, per cercare di lavorare nel modo migliore, crea quel benessere dell’ufficio che è indispensabile per la qualità del servizio reso. Sempre citando Goleman, i veri problemi degli uffici, non sono organizzativi ma relazionali. Avere in ufficio una persona prepotente, maleducata, arrivista, crea dei problemi a tutti gli altri”.
E previene la corruzione? “Un dipendente motivato, che lavora in un ufficio dove si sente apprezzato e valorizzato, sarà impermeabile a tentazioni corruttive. E contribuisce a creare quegli anticorpi nell’ufficio, l’orgoglio di servire lo Stato, che preservano da condotte corruttive e non tollerano comportamenti scorretti e illegali da parte di colleghi o superiori, generando le giuste reazioni per salvaguardare onestà, correttezza ed efficienza dell’azione della P.A.”.