lunedì, Marzo 31, 2025
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Quelli di Piazza del Popolo

di Salvatore Sfrecola

Eran migliaia, alcuni giovani e certamente forti, ognuno con le proprie idee su come affrontare le crisi del momento, politiche ed economiche mentre il suono delle parole di artisti e politici erano sovrastate dal crepitio dei proiettili lontani, sul fronte ucraino ed a Gaza. Idee diverse, spesso inconciliabili, che hanno convinto la maggioranza di governo che quella folla non sia da temere. Che, per quanto possano disturbare l’elettorato di centrodestra i dissidi tra Tajani e Salvini, non sembrano mettere in forse il risultato elettorale al più tardi nel 2027.

Il giudizio tranquillizzante contiene indubbiamente del vero. Ma la storia ci insegna che sottovalutare l’avversario è sempre una scelta imprudente. Perché, se è vero che a sinistra la confusione delle idee e delle lingue è massima, anche per la difficile convivenza nel Partito Democratico di un’anima pervicacemente comunista e di quella di origine cattolica, degli ex Margherita, per intenderci, non è esclusa la possibilità di una convergenza in sede elettorale per battere Giorgia Meloni e la sua coalizione. E difatti se ne parla spesso di come fare, tra strategia e tattica, per tornare al governo.

La condizione è quella di individuare un leader federatore, capace di rappresentare le varie anime della sinistra, una sorta di Romano Prodi dei nostri giorni, una personalità che possa essere apprezzata dai moderati del centro, disponibili a marginali spostamenti sul due lati dello schieramento politico. Purché il candidato sia rassicurante su alcuni valori, argomenti le ragioni delle indicazioni politiche con pacatezza, ma con ferma determinazione, sulle prospettive politiche che propone all’elettorato.

Il Prodi del 2027 non si vede all’orizzonte. E questo tranquillizza il trio Meloni Tajani Salvini. Ma non è assolutamente da escludere che possa emergere una personalità idonea ad interpretare quel minimo di idee comuni alle varie anime della sinistra, compresa quella dei cattolici riformisti che si agitano intorno ad Ernesto Maria Ruffini, appena uscito dall’Agenzia delle entrate, che, per il tempo della campagna elettorale, metta da parte i carri arcobaleno e i gay pride che hanno sempre disturbato buona parte dell’opinione pubblica meno ideologizzata ed ancorata alla realtà dei conti della spesa, quella che ha ben presente che “i desideri non sono diritti”, come dice Marco Rizzo intervistato da Fabio Dragoni in un aureo libretto (“Riprendiamoci le chiavi di casa”, edito da Giubilei Regnani) nel quale si trovano idee e programmi che molti a destra potrebbero condividere. È il “Manifesto per un sovranismo popolare oltre la destra e la sinistra”, che riscuote consensi anche dall’onorevole generale Roberto Vannacci impegnato a rimettere in sesto un mondo decisamente “al contrario”.

Per fortuna di Giorgia Meloni c’è sempre qualcuno che assume iniziative che portano voti a destra, come quella di prevedere, in via ordinaria, che il cognome dei nuovi nati sia quello della madre, un modo per disgregare la famiglia nella sua continuità storica. Lo propone il cattolico Dario Franceschini.

Gran movimento alla base. L’attuale maggioranza non deve tuttavia limitarsi ad una battaglia ideologica, sui valori che possono fare la differenza perché ad orientare l’elettorato sarà indubbiamente la percezione dei risultati della politica governativa. Questo è indubbiamente il punto debole perché, al di là di quello che le veline governative fanno dire a improvvisati portavoce ed a giornali compiacenti, i motivi di sofferenza sono molteplici, di carattere ideologico ed economico. Come aver dichiarato guerra alla magistratura, perché “lo voleva Berlusconi”, eliminato il reato di abuso d’ufficio, ridotto i tempi delle intercettazioni, previsto lo smantellamento delle garanzie nella gestione del pubblico denaro limitando il ruolo della Corte dei conti, tutte iniziative che la gente stenta a percepire come utili, non lascia indifferenti vasti settori dell’opinione pubblica. Nel contempo le famiglie si trovano ad affrontare difficoltà notevoli per l’aumento dei prezzi dei generi di più ampio consumo, con stipendi e pensioni che hanno perduto progressivamente il potere di acquisto. Per i salari dell’8,7% tra inflazione e scarsa produttività, i più bassi tra i paesi del G20. Mentre aumenta la pressione fiscale, impietoso dato che certifica il disagio degli italiani.

È un cocktail perverso che la maggioranza ha certamente avuto in eredità dai governi precedenti. Ma che a tratti il Centrodestra sembra non percepire e, soprattutto, non saper contrastare come se fosse priva degli strumenti di conoscenza dei fenomeni e di gestione della risposta adeguata.

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