martedì, Aprile 29, 2025
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La soccombenza della Pubblica Amministrazione chiamata in giudizio può esporre il funzionario ad una responsabilità disciplinare ed erariale

di Salvatore Sfrecola

L’Amministrazione pubblica, come qualunque soggetto che sia attore o resistente in un giudizio, può vincere o perdere. È nella logica del processo. Ma la P.A., diversamente dal privato, non può impegnarsi in azioni temerarie, palesemente infondate. Ne risulterebbe leso il prestigio dello Stato o dell’ente pubblico agli occhi del cittadino. Occorre, dunque, prudenza nel decidere se avviare un contenzioso o resistere in giudizio. Ad evitare una brutta figura e un’accusa di esercitare la funzione pubblica con disprezzo per gli interessi del cittadino, considerato anche che, in caso di soccombenza, il giudice, in sede di decisione sulle spese, le addebita quando l’interpretazione della normativa applicata sia palesemente errata rispetto a specifici precedenti giurisprudenziali o la condotta processuale scorretta. Le compensa, quando la questione trattata sia caratterizzata da assoluta novità o da mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti.
Tanto premesso, in caso di condanna alle spese la somma costituisce in linea di principio “danno erariale”, per cui occorre valutare se la condotta del funzionario che ha deciso di intervenire nel giudizio sia rilevante ai fini della responsabilità dirigenziale o della responsabilità erariale, ove la condotta sia caratterizzata da dolo o colpa grave. Condotta da valutare con prudenza in quanto l’azione giudiziaria può aver seguito l’avviso di più uffici ed in particolare del legislativo o, infine, l’avallo dell’Avvocatura dello Stato difensore ex lege dell’Amministrazione. Ovviamente l’Avvocatura interviene sempre e la presenza di una memoria di costituzione in giudizio o di note d’udienza a favore della parte pubblica non esclude, di per sé, l’eventuale responsabilità del funzionario per una condotta scorretta nell’applicazione della legge.
È, in qualche misura, il caso oggetto di una recente pronuncia del Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio (Sezione Seconda Ter), la n. 02796/2024 (Pres. Est. Roberta Cicchese), di condanna dell’Agenzia delle Entrate in un giudizio che ha avuto ad oggetto gravi censure mosse alla graduatoria finale di merito e all’elenco dei vincitori della selezione pubblica per l’assunzione di 175 dirigenti di seconda fascia bandito nel 2010. Un concorso sfortunato, oggetto di plurimi interventi dei Giudici amministrativi quanto allo svolgimento delle prove d’esame ed alla attribuzione del punteggio ai titoli cui hanno provveduto le Commissioni esaminatrici chiamate a dare esecuzione ad ulteriori sentenze relative alla stessa procedura, concernenti i titoli vantati da alcuni candidati. Con l’effetto che sono risultati vincitori candidati già idonei e, contestualmente, altrettanti soggetti, originariamente vincitori, sono stati collocati in posizione di idonei non vincitori, con conseguente caducazione del contratto di lavoro dirigenziale che nel frattempo era stato stipulato.
Un pasticciaccio assolutamente incompatibile con la tradizionale efficienza del Ministero delle finanze da cui è nata l’Agenzia delle entrate che oggi si trova nella condizione di essere sottoposta all’alta vigilanza del Ministro dell’economia, come previsto dalla legge istitutiva, funzione che i fatti dimostrano non essere esercitata. Eppure nessuno dei precedenti giurisprudenziali ha fatto dubitare i responsabili dell’Agenzia che le scelte fatte fossero sbagliate, come facilmente avrebbero compreso a leggere le precedenti sentenze.
In particolare, il ricorrente aveva eccepito violazione e falsa applicazione delle previsioni del bando quanto alla omessa valutazione di un titolo dichiarato nel curriculum vitae e autocertificato, ancorché non allegato in originale o in copia conforme, caso già oggetto di una precedente sentenza, la n. 8594 del 19 maggio 2023, la quale aveva ritenuto che non valutare i titoli non allegati in originale o in copia conforme, ma dichiarati nel c.v., si ponga in contrasto con il Bando della selezione. Tanto più che quanto dichiarato nel curriculum vitae, doveva essere oggetto di valutazione e il Bando non conteneva disposizioni che imponessero la produzione materiale di tutti i titoli (auto)dichiarati a pena della mancata valutazione, disponendo espressamente la mancata valutazione del titolo fatto valere soltanto per le due specifiche ipotesi, la mancata sottoscrizione del c.v. e le pubblicazioni, per le quali era stato comprensibilmente stabilito un obbligo di produzione in originale (ovvero, ove prodotti in fotocopia, l’obbligo di accompagnarli con una nota con la quale l’aspirante dichiarasse, sotto la propria responsabilità, la paternità dell’opera ai sensi del D.P.R 28 dicembre 2000, n. 445 e da un documento di identità del sottoscrittore, rilasciato da una pubblica amministrazione).
In conclusione la sentenza ha osservato come il sistema della lex specialis, con riguardo alle “dichiarazioni rese dai candidati” (ivi incluse quelle relative ai titoli e quelle comprese nel curriculum vitae), “richiamasse espressamente la disciplina delle autocertificazioni, con relative sanzioni e che la mancata produzione dei titoli vantati in originale o in copia dichiarata conforme non era assistita dalla sanzione della mancata valutazione, rilevando, inoltre, come in ogni caso, trattandosi di regolarizzazione e non di integrazione della domanda, l’amministrazione avrebbe dovuto attivare il soccorso istruttorio”.
Conseguentemente i Giudici del TAR hanno ritenuto illegittima la mancata valutazione, in favore del ricorrente del titolo dichiarato. Sicché l’Amministrazione, che non ha tenuto conto delle regole del bando e delle precedenti pronunce dello stesso Tribunale, è stata condannata alle spese liquidate in € 3.000,00, come stabilito nella Camera di consiglio del 18 aprile 2025”.

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