di Salvatore Sfrecola
L’Amministrazione pubblica italiana ha fama di non essere all’altezza del ruolo. Chi l’ha studiata a fondo sa che “un tempo” non era così. L’Amministrazione ha unificato l’Italia dopo il 1861, ha ricostruito le zone danneggiate dalla prima guerra mondiale e l’intero Paese devastato dalla seconda nelle infrastrutture e nel tessuto urbano. Ed ha contribuito al rilancio dell’economia, al boom economico degli anni 60. Poi la progressiva perdita di efficienza, caratterizzata da procedure incerte nella legittimità e rallentate nei tempi. Come se il tempo non fosse rilevante, come se non fosse un costo per il privato, singolo o imprenditore, il quale si attende da un provvedimento della pubblica amministrazione un vantaggio per la propria attività.
Naturalmente tutto questo non è sempre vero, non solo perché generalizzare è, per definizione, sbagliato e ingiusto, ma perché così trascina tutto e tutti nel generale discredito, con effetti psicologici gravissimi sugli addetti agli uffici pubblici, mortificando soprattutto coloro che credono nel loro ruolo di servitori dello Stato.
Adesso che nella Pubblica Amministrazione molti lavorano da remoto, cioè da casa, naturalmente quando l’attività cui sono addetti lo consente, c’è chi non crede che questi lavorino effettivamente. Un dubbio che ha avuto anche il professor Pietro Ichino, studioso illustre ed avvocato lavorista, il quale, in un’intervista a La Verità, ha sostenuto che, “nella maggior parte dei casi quello che al ministero della Funzione pubblica chiamano smart working ha nascosto la pura e semplice sospensione dell’attività” perché, richiamando un’affermazione del ministro, “metà delle posizioni non è “smartabile” (copyright della stessa)”. E il Prof. Ichino aggiunge: “ho sempre detto che ci sono anche tanti dipendenti pubblici che in questo periodo … lavorano il doppio di prima. La difesa del prestigio della funzione pubblica passa proprio dalla correzione delle disfunzioni”. E parla di “letargo delle amministrazioni, molte delle quali non rispondono neanche al telefono, sono inaccessibili da remoto, mentre triplicano i ritardi nell’evasione delle pratiche. La cosa più inaccettabile – sostiene il Prof. Ichino – è proprio questa: che ancora oggi il ministero non sia in grado di dire con precisione quali amministrazioni sono attrezzate per l’accessibilità dei propri data-base, quali e quante sono le funzioni che effettivamente già oggi possono essere svolte da remoto, quanti dipendenti pubblici possiedono attrezzatura e la connessione necessarie”.
Stimo il Prof. Ichino e condivido le sue analisi ma non giunge al cuore del problema, la responsabilità della classe politica nella definizione dell’ordinamento degli uffici e nella individuazione delle procedure e della dirigenza pubblica nell’organizzazione del lavoro. “Il pesce puzza dalla testa”, si dice in vari dialetti ovunque in Italia ed è una verità ignorata dalla politica. Ai capi degli uffici spetta organizzare il lavoro, dirigere il personale addetto e verificare la qualità e la quantità del lavoro svolto. Detto questo il Prof. Ichino sa bene che l’attuale assetto della pubblica amministrazione, delle carriere e delle mansioni, è conseguenza di Iniziative sindacali che, nel corso del tempo, hanno promosso passaggi di classe e di mansioni sulla base di selezioni assolutamente inadeguate che hanno portato masse di impiegati in posizioni funzionali superiori spesso senza una verifica delle professionalità richieste. In questo modo, la regola secondo la quale nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso e si prosegue nella carriera a seguito di adeguate selezioni è stata nel tempo del tutto disattesa in ragione di una comprensibile esigenza, quella di assicurare al personale, lungo gli anni, un miglioramento economico che in Italia è possibile conseguire esclusivamente attraverso una promozione o un passaggio di livello, come oggi si si dice. Con la conseguenza che, in assenza di una verifica delle capacità professionali in funzione delle nuove attribuzioni, molti si trovano a svolgere funzioni per le quali obiettivamente non sono preparati. Questo vale per tutti i livelli funzionali, dunque anche per la dirigenza pubblica che, secondo l’antico principio del divide ed impera, è stata moltiplicata per soddisfare due esigenze, entrambe estranee all’interesse pubblico: quella dei dipendenti che in questo modo acquisiscono una qualifica altisonante, per esempio di dirigente generale, ed un trattamento economico più remunerativo, e quella del potere politico che dividendo le strutture amministrative controlla meglio la dirigenza. Inoltre, il sistema di nomina dei dirigenti segue gli interessi della politica, nel senso che la nomina è effettuata normalmente per tre anni sicché, al momento del rinnovo, è lo stesso ministro che ha nominato a confermare la scelta. La conseguenza è una limitazione evidente dell’indipendenza del funzionario garantita dalla Costituzione quando afferma che “i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione” (art. 98). In realtà sono al servizio del politico di turno.
Ripeto invano da anni queste considerazioni, convinto che la P.A. sia la risorsa più importante di chi ha responsabilità di governo, strumento essenziale per raggiungere gli obiettivi indicati nel programma destinato a dar corpo alle politiche pubbliche. Ragione per cui la riforma della P.A., intesa come revisione delle attribuzioni, delle procedure finalizzate all’emissione dei relativi provvedimenti e del personale, dovrebbe essere la prima esigenza dei governi, nel senso che un Esecutivo che non abbia gli strumenti normativi ed il personale adatto aa applicarli inutilmente farebbe progetti perché non li vedrebbe realizzati. Sbaglia, dunque, la politica a denunciare l’inefficienza della P.A. perché l’attuale stato di cose è responsabilità di chi ha gestito il potere, cioè di tutti, perché tutti sono stati al governo negli ultimi decenni, inutilmente.