di Salvatore Sfrecola
Continuano le consultazioni del Presidente incaricato, e stampa e tv cominciano ad immaginare il futuro scenario del governo. Ipotesi, naturalmente, di programmi e di nomi (il totoministri infuria già), perché finora Mario Draghi ha soprattutto ascoltato, come è logico che sia, tanto è vero che è prevista una seconda tornata di incontri, dopo che avrà ricevuto le parti sociali, per presentare una bozza del programma a quanti avranno dato la disponibilità a far parte della maggioranza, con appoggio esterno o con ingresso nella compagine ministeriale.
Nei giorni scorsi ho fatto varie ipotesi sottolineando, in primo luogo, l’interesse del centrodestra per un governo Draghi. L’ho definita una “grande occasione”, ritenendo che Partito Democratico e Movimento 5 Stelle non avrebbero partecipato. Poi sono intervenute le dichiarazioni di Giuseppe Conte in piazza Colonna, davanti a Palazzo Chigi, ma con prospettiva Montecitorio e, correggendo la diffusa ipotesi che il governo Draghi sarebbe stato esclusivamente “tecnico” (cioè di tecnici), ha sottolineato, in continuità con il suo governo, la necessità di un esecutivo “politico”, perché politiche sono le scelte che il Paese si attende per combattere la diffusione del Covid-19 e la grave crisi economica. E a stretto giro sono giunte le prime adesioni da sinistra, in ossequio alle indicazioni del Capo dello Stato il quale aveva detto, dopo il fallimento dell’esplorazione Fico, che si doveva fare presto e bene.
Ha battuto tutti Silvio Berlusconi che ha aderito all’iniziativa Draghi “a prescindere” da un programma non ancora delineato ma che forse si può in qualche modo immaginare, tenuto conto della storia personale di Draghi. Matteo Salvini ha mostrato disponibilità ad approfondire, Giorgia Meloni, dopo aver proposto l’astensione (se di tutto il centrodestra) è passata al “no”, in coerenza soprattutto con la sua protesta per il mancato scioglimento delle Camere.
Con questo scenario, con la prudenza che deve guidare un osservatore delle vicende politiche, ho manifestato qualche dubbio sulla possibilità che si possa formare un “governo ammucchiata”, dall’estrema sinistra alla Lega, per l’ ovvia considerazione che queste diverse forze politiche non avrebbero potuto identificarsi in un medesimo programma di cose da fare sotto il profilo economico e sociale. In soldoni, credo sia evidente la distanza siderale che divide chi propende per una imposta patrimoniale, sia pure “sulle grandi ricchezze”, come insiste Nicola Fratoianni (LeU), che ha presentato anche una proposta di legge in proposito, e chi ritiene necessario diminuire rapidamente e drasticamente il carico fiscale sulle persone e sulle imprese.
Di fronte a questo scenario, e in attesa di conoscere lo sviluppo delle consultazioni e qualche più precisa linea programmatica del futuro esecutivo, ho ritenuto che Giorgia Meloni avesse motivi di giustificazione per non aderire alla maggioranza che sembra delinearsi. Apriti cielo, sono stato investito di critiche garbate ma decise, soprattutto in una chat “Lazio” che su WhatsApp costituisce luogo di approfondimento di intellettuali romani che si riferiscono a “Lettera 150”, il movimento culturale promosso da Giuseppe Valditara, professore ordinario di diritto romano a Torino, già senatore di Alleanza Nazionale.
Richiamo le osservazioni più significative, le più condivise dai chattisti (non so se si dice così ma mi è venuto spontaneo). La tesi assolutamente prevalente è quella espressa da chi ritiene che “partecipare al governo significa creare problemi alla sinistra al suo interno che, a più riprese, ha detto che con la Lega non si può stare. Partecipare convinti a un governo Draghi … significa anche rompere il campo avversario, al di là degli obblighi verso il Paese. Soprattutto quando il Presidente della Repubblica ha detto che non ci sarebbero stati paletti. I processi si governano da dentro, non urlando da fuori “elezioni elezioni”. Refrain che ha stancato tutti. Ritengo che a destra si stanno facendo errori che pagheremo tutti, come italiani e come intellettuali”. Con l’aggiunta che “è il momento di impegnarsi, e a fondo, per il Paese. Inoltre non trascurerei il fatto che la presenza al governo di partiti di pensiero liberale permette almeno in principio di frenare la solita politica di sinistra che verte su una pressione fiscale esuberante ma su nessuna comprensione degli sprechi ed accredita in Europa partiti come la Lega per ora rimasti ai margini. Se la Lega o anche la Meloni desiderano finalmente cambiare l’Europa sarebbe bene fare almeno un tentativo serio provando da dentro L’Europa e non insistendo per uscirne. Poi se Draghi dovesse mostrarsi troppo accondiscendente a politiche con il baricentro troppo spostato a sinistra chiedere le elezioni sarebbe atto dovuto, ma almeno ascoltassero il programma che vuole svolgere e ponessero critiche nel merito e non aprioristiche. Alla fine Salvini, anche perché consigliato da Giorgetti, sembra più in grado di fare politica. La Meloni e l’entourage mi dispiace, ma dimostrano una pochezza di visione politica imbarazzante per un partito dato al 16%”.
Sono “assolutamente d’accordo sulla necessità di costruire e contrastare dall’interno. È chiaro che il distinguersi come unica forza di destra all’opposizione possa anche pagare dal punto di vista elettorale. Ciò non di meno è da irresponsabili in questo momento, se si vuole come si deve tenere presente l’interesse del Paese”.
Su questa linea sostanzialmente Giovanni Orsina, politologo, Professore di Storia Contemporanea alla Luiss, dove dirige anche la School of Government, critico nei confronti di Lega e Fratelli d’Italia. “Draghi è la grande levatrice che può farli uscire candidi come la neve e rilegittimati a qualsiasi tavolo. Hanno già perso l’occasione di sostenerlo compatti dopo l’appello di Mattarella, ma fanno ancora in tempo”, ha detto intervistato da Federica Fantozzi per HuffPost. Non che sia facile: “La navigazione di questo governo sarà difficilissima. Ma bisogna esserci per togliersi di dosso le due sindromi che affliggono Meloni e Salvini: quella delle fogne e quella del Papeete”. Il Prof. Orsina critica il fatto che i partiti del Centrodestra vadano da Draghi con tre distinte delegazioni. Lo ritiene “Incomprensibile. Il centrodestra ha incassato una vittoria enorme: il fallimento della maggioranza nata nel 2019 contro Matteo Salvini. E’ in una posizione di forza”. Quanto alle elezioni ha precisato che “il Presidente della Repubblica, con una decisione che può essere criticabile ma resta legittima, ha detto di no. E ha tirato fuori dal mazzo la carta migliore che l’Italia oggi è in grado di esprimere. In più, non certo un uomo di sinistra”.
A giudizio dello studioso il Centro destra avrebbe dovuto “Metterci subito il cappello sopra. Se il centrodestra compatto avesse annunciato il sostegno a Draghi avrebbe fatto un numero politico incredibile, giocando d’anticipo e spiazzando il campo avversario. Il M5S si sarebbe spaccato e il centrodestra sarebbe diventato centrale in tre partite cruciali: la gestione del Recovery Fund, l’elezione del prossimo Capo dello Stato e la nuova legge elettorale. Era un rigore a porta vuota…”.
Il tema è quello di uscire dal ghetto per “dare una prospettiva politica e anche di governo” agli arrabbiati. “Stare al governo responsabilizza, come per il M5S. Guardiamo Virginia Raggi: governare Roma era complicato anche per Veltroni, Alemanno e Marino, adesso se ne sono accorti anche i grillini e chiedono indulgenza”. L’importante è, sulle scelte dirimenti, essere “schierati dalla parte giusta. E oggi la parte giusta per l’interesse del Paese, comunque la si pensi politicamente, una volta tolte le elezioni dal tavolo, è Mario Draghi”.
E alla domanda “come finirà” Giovanni Orsina risponde da studioso “La politica è l’arte del possibile. Senza le elezioni, serve un Piano B. Draghi è la grande levatrice che può fare uscire Salvini e Meloni candidi come la neve e rilegittimarli su qualunque tavolo. Come farebbe poi il Pd a mettere veti di qualsiasi genere? L’occasione di sostenerlo subito dopo l’appello di Mattarella è sfumata, ma fanno ancora in tempo a dire Sì”.
E conclude dicendo che “Certo, le difficoltà di navigazione per il governo Draghi saranno immense. Ma come disse Margaret Thatcher agli spagnoli che volevano entrare nell’Unione Europea: dovete negoziare da dentro. Il compito che ha davanti questa squadra è da far tremare le vene ai polsi. Ma vale la pena di provarci. E di togliersi di dosso una volta per tutte l’odore delle fogne e del Papeete”. Insomma per uscire dall’angolo nel quale sono stati confinati dalle sinistre e dalla narrazione dominante.
Ho richiamato ampiamente le osservazioni degli amici della chat, dei quali non faccio i nomi essendo quel dibattito interno al gruppo, e la tesi del Prof, Orsina che, invece, ricavo da un’intervista pubblica.
Dicono tutti cose giuste che non contrastano con la mia analisi di questa che sembra una partita a scacchi della quale non è possibile conoscere le mosse che seguiranno. Possiamo solo immaginare che il giocatore istituzionale farà di tutto per raggiungere l’obiettivo di formare il governo per evitare lo scioglimento delle Camere che le sinistre non vogliono perché molto probabilmente cambierebbe la maggioranza che deve eleggere il Presidente della Repubblica che vogliono “dei loro”.
Concordo con le basi di partenza delle analisi richiamate, in rapporto alle prospettive di governo, con riguardo al programma, che, tuttavia, mi sembra impossibile possa essere condiviso dal M5S, dal PD, da FI e dalla Lega. Finirebbe per scontentare tutti. Quanto, poi, alla concreta realizzazione dell’indirizzo politico questa è condizionata dalla risposta degli apparati amministrativi oggi dominati da persone vicine al Partito Democratico che negli anni ha puntato sul consenso della dirigenza, moltiplicata a dismisura e, in alcuni settori chiave, formata da “nominati” ai sensi dell’art. 19, comma 6, del decreto legislativo n. 165 del 2001. È questo che sfugge a molti di coloro che mi hanno garbatamente criticato, convinti del fatto che ministri di FI o della Lega possano far maturare “da dentro” le contraddizioni delle sinistre e, quindi, del governo, ignorando che quei partiti forse hanno qualche amico nei ministeri ma non dispongo degli apparati come ne dispone il PD. Si è visto nel governo giallo verde, come nel caso di Salvini mandato allo sbaraglio senza copertura del ministero che non lo ha guidato mettendolo al riparo della possibile interpretazione delle azioni condotte nell’ostacolare l’immigrazione clandestina. Occorre ricordare, infatti, che l’alta dirigenza pubblica deve sopravvivere al ministro di turno sapendo che, di lì a qualche tempo, si troverà ad essere sottoposta alla direzione politica di un ministro di altro orientamento.
Mi piacerebbe che le analisi teoriche tenessero conto della gestione effettiva degli apparati amministrativi che significa risultati, quelli attesi dall’elettorato. Ne scrissi dopo il Governo Berlusconi – Fini e intitolai “Un’occasione mancata”. Spiega perché con quella straordinaria maggioranza parlamentare i partiti di governo persero per 256 voti, “quando avrebbero potuto vincere per due milioni” mi disse Francesco Storace dopo aver letto il libro. Aveva azzoppato il governo tanta arroganza, tanta ignoranza delle regole degli apparati e la convinzione sbagliata che basta essere ministro per dominare un’amministrazione.