di Salvatore Sfrecola
Diciamo la verità, a Filippo di Mountbatten, Duca di Edimburgo, nato Principe di Grecia e di Danimarca, Lord High Admiral della Royal Navy, molti, soprattutto fra i giornalisti, non hanno perdonato il fatto di essere ironico, disincantato, libero, in virtù del suo rango e nonostante la sua posizione istituzionale, di scherzare, di dire battute controcorrente con le quali si compiaceva di stupire, di far discutere. L’ironia è sempre una merce rara e spesso sgradita ai cronisti che osservano e non sanno se la persona scherza o dice sul serio. Ecco, il Principe diceva spesso sul serio scherzando.
E così la stampa, specie italiana, che ha a che fare con personaggi della politica che non farebbero sorridere neppure se pagati, disabituata all’ironia, lo ha definito il “Principe delle gaffe”, per semplificare, interpretando come “dal sen fuggita” qualche battuta del Principe, di quelle che più hanno fatto parlare, nell’incertezza che fosse estemporanea o studiata, come sostengono molti. E così, all’annuncio della sua morte gran parte della stampa italiana, con un atavico complesso di inferiorità nei confronti del potere, in particolare quando non può condizionarlo, si è esibita nella consueta smitizzazione del personaggio. E si è letto di un autentico catalogo di battute ritenute politically scorrect, anzi vere e proprie gaffe che avrebbero caratterizzato le sue relazioni con le persone che incontrava, fossero autorità o semplici cittadini, trascurando che quel comportamento, quelle battute che sembravano improvvisate in realtà erano studiate per offrire della monarchia inglese, molto austera, una immagine popolare che il suo tratto ironico ha reso indubbiamente simpatica. D’altra parte il ruolo del principe consorte, anche se questa non era la denominazione ufficiale, è stata obiettivamente difficile accanto ad una personalità, come Elisabetta Windsor, una donna forte, impegnata in un ruolo difficile ma essenziale nel buon funzionamento della democrazia inglese.
Noi non siamo abituati a questa modalità di gestione del potere supremo. La regina ha in Inghilterra una speciale posizione, un ruolo che ne fa l’elemento indefettibile di equilibrio del sistema costituzionale. D’altra parte il Barone di Montesquieu, che ha scritto L’esprit des Lois, lo spirito delle leggi, indicando per la democrazia liberale il sistema di separazione dei poteri ha elaborato questa teoria che è alla base delle moderne costituzioni democratiche osservando in Inghilterra come si atteggiano i rapporti tra il sovrano, il governo e il Parlamento. Un ruolo difficile che però garantisce una democrazia sostanzialmente bipolare o bipartitica nella quale, anche in virtù del sistema elettorale, a Londra sanno pochi minuti dopo la fine dello spoglio elettorale chi ha vinto le elezioni, un obiettivo che noi vorremmo a parole ma che facciamo sempre in modo di non raggiungere.
Nel Regno Unito il dibattito fra laburisti e conservatori si stempera attraverso la presenza di un sovrano il quale svolge effettivamente il ruolo di arbitro. Non è eletto e quindi non deve rispondere a nessuna forza politica ed è presente nella vita con molto tatto in poche occasioni ma molto significative. Anche nel momento drammatico dell’inizio della pandemia, mentre cresceva il numero dei morti, la regina Elisabetta, con un discorso di quattro minuti, che ha stupito il mondo intero per la straordinaria capacità comunicativa, ha ricordato agli inglesi che avevano affrontato e vinto altre battaglie, molto più dure, come quella che fu combattuta contro il Nazismo e in occasione della quale suo padre, Re Giorgio VI, ed il premier Winston Churcill promisero a quanti nel mondo combattevano sotto la bandiera del Regno solo “lacrime e sangue” in difesa delle libertà.
Accanto a questa donna forte, energica, determinata come abbiamo imparato a capirla dalle immagini televisive in occasione delle cerimonie ufficiali e delle visite di stato con il sorriso misurato, lo sguardo penetrante, quest’uomo elegante, colto, raffinato che sorrideva laddove la regina poteva appena increspare le labbra e far emergere il guizzo dello sguardo, è stato il consorte ideale, una roccia, come qualcuno ha detto, un elemento di stabilità e di forza anche nei momenti difficili di crisi familiari che non mancano nelle famiglie ordinarie ma che in una famiglia reale costituiscono un momento di ancora maggiore difficoltà, perché sotto i riflettori della stampa che non è mai accondiscendente, che cerca sempre lo scoop.
Era ironico, abbiamo detto e lo abbiamo visto in tante immagini fin da giovane ufficiale della Marina inglese con la quale ha combattuto durante la seconda guerra mondiale ed era già allora al servizio della giovane principessa e poi della sovrana. L’accompagnava con tre passi indietro ma non ha mai rinunciato ad esprimere, senza intaccare il ruolo della regina, di far conoscere e di esprimere le sue opinioni, spesso radicali. È vero, le sue battute spesso non erano di quelle che si definiscono politically correct secondo i canoni che ci impone la stampa. Lui forse amava questo atteggiamento che gli dava un ruolo pubblico autonomo rispetto a quello di rappresentante della regina nel taglio di un nastro o nella inaugurazione di un evento culturale o sportivo. Spesso faceva arrabbiare i diplomatici ma i tabloid inglesi andavano alla ricerca delle sue battute e quando qualcuno gli faceva osservare che diceva delle cose non appropriate rispondeva inevitabilmente “è una scienza in cui mi sono esercitato per molti anni”. Ironia inevitabilmente amica dell’intelligenza.
All’inizio, accanto alla Principessa Elisabetta ha stentato un po’ a entrare nel cuore degli inglesi che non gli perdonavano la quota di sangue tedesco. Si sa che nelle famiglie reali spesso si mischiano discendenze diverse. Ma all’aplomb del tedesco inglesizzato univa il disincanto dell’antichissima cultura di matrice ellenica. E questa è stata la sua “marcia in più”.
Nel fare incetta delle sue battute i giornali hanno fatto loro delle sonore gaffes come nel ricordare che, avendo incontrato studenti inglesi in Cina, dov’era in visita ufficiale, li invitò a stare attenti perché se fossero stati ancora a lungo da quelle parti avrebbero finito per avere gli “occhi a mandorla”. Definire razzista quella battuta, come qualcuno ha scritto ed altri ricordato, è veramente segno di indicibile stupidità.
Ma non c’è da andare oltre.