di Salvatore Sfrecola
A chi dice che gli italiani sono spesso razzisti ho sempre risposto che non è vero. Che noi siamo eredi di Roma che tutti accoglieva, indipendentemente dalla religione professata, dalla lingua parlata, dal colore della pelle. Sulle rive del Tevere tutti erano accolti, ma a due condizioni, che rispettassero le leggi e che fossero consapevoli della missione storica di Roma. Si chiama identità, consapevolezza di una storia, di una cultura. Per questo sono del parere che la cittadinanza debba essere concessa a chi l’ha guadagnata nella consapevolezza della identità nella quale si intende riconoscere. In una realtà nella quale, da molto tempo l’imposizione del marito o della moglie non è di moda e, comunque, quando e dove era praticata, non ha mai comportato l’uccisione del ribelle. Come, purtroppo, si dubita fortemente per Saman Abbas la giovane pakistana alla quale i genitori volevano imporre un marito. È accaduto altre volte.
Lo ricordo ad Enrico Letta che improvvisa sulla cittadinanza per demagogia, evidentemente, forse nella speranza di recuperare quei voti che il Partito Democratico perde di giorno in giorno in conseguenza dell’abbandono della propria identità politica.
Ci auguriamo fortemente che Saman sia viva, che magari si sia nascosta, anche se qualche indizio ci fa temere quel che ci pare inconcepibile: che la famiglia l’abbia rinnegata ed uccisa. Il dubbio deriva dal fatto che i genitori hanno abbandonato l’Italia e sono in Pakistan. “Vigliacchi” li ho sentiti qualificare. È poco se effettivamente si fossero liberati della loro bambina, di quella ragazza di 18 anni, Saman Abbas, che voleva vivere come le sue coetanee e scegliere la persona da amare e sposare.
E alla tristezza del cuore subentra l’indignazione. E conferma che l’identità è importante, che la cultura, il modo di concepire i rapporti umani e la stessa vita della persona (concetto straordinario del diritto romano) identificano un popolo e naturalmente escludono chi quei valori non concepisce. Perché per la famiglia, Saman non è una persona con i suoi sentimenti ed i suoi diritti, è una cosa, è “proprietà” di chi l’ha messa al mondo evidentemente incapace di amare e perdonare, se fosse da perdonare la sua scelta di libertà.
Non è il primo episodio di intolleranza, in terra italiana, che contraddistingue gli appartenenti ad alcune comunità. Né è il primo esempio di autoesclusione rispetto alla identità del nostro popolo abituato alla pietà (la pietas, ancora una elaborazione preziosa di Roma), quella pietà che le ragazze musulmane di una scuola italiana non hanno avuto nei confronti delle coetanee morte al Bataclan che si voleva ricordare in piedi con un minuto di silenzio. Sono rimaste sedute a dimostrazione che lo ius culturae è una balla colossale se si deve riferire ad un ciclo di studi se quanto viene insegnato non diventa, per motivi religiosi o familiari, espressione di una identità che si fonda sul rispetto delle persone.
I Carabinieri stanno cercando Salman evidentemente con poca speranza di trovarla viva se risultano indagati padre, madre e zio, in un’inchiesta che immagina un omicidio, anche se ancora senza cadavere. Ed emerge una realtà drammatica che a Novellara, il paese in provincia di Reggio Emilia dove Salman viveva con quella che per noi è difficile chiamare “famiglia”, conoscono. Ad esempio, Saman, dopo la licenza media, non era più andata a scuola. A dicembre dello scorso anno l’intera famiglia doveva tornare in Pakistan dove Saman avrebbe dovuto sposare un cugino con rito islamico. Ma la giovane si era rivolta ai servizi sociali per non essere costretta al matrimonio. Ed ai Carabinieri, dai quali era stata accompagnata per la denuncia, aveva spiegato tutto, con l’effetto che i genitori erano stati deferiti alla Procura di Reggio per il reato di costrizione o induzione al matrimonio. Poi, quando ha compiuto 18 anni, Saman ha voluto tornare in famiglia. Ma quando il 5 maggio i Carabinieri sono andati a cercarla a casa i genitori di Saman erano partiti per il Pakistan, ma senza la figlia.
E qui c’è da chiedersi se è stato fatto quanto necessario per salvare la ragazza, se chi doveva sentire il dovere di proteggerla e salvarla da genitori di tal fatta, ha fatto quanto necessario o ha omesso di considerare i pericoli cui Saman andava incontro, come insegna l’esperienza. Reggio Report, riportando un articolo di Cristina Fantinati si è chiesto: «I servizi sociali hanno adeguatamente informato la ragazza dei rischi che poteva correre? L’hanno protetta, tutelata, aiutata, difesa anche tenendo con lei i contatti quotidiani per capire se il ritorno in famiglia fosse stato difficile e problematico? Sono andati a verificare di persona che la situazione si fosse normalizzata oppure fino al momento dell’arrivo dei Carabinieri nessuno aveva avuto contatti con lei?».
Domande che esigono risposte. Perché è inammissibile la noncuranza di chi doveva provvedere e non lo ha fatto. Una doverosa cautela che fa parte della nostra identità, della protezione dei deboli e di chi è in pericolo. Sarebbe gravissimo. E non basta dire che l’integrazione in queste condizioni non è possibile semplicemente perché questa è gente che non si vuole integrare affatto, ma pretende di fare da noi esattamente quello che fa dalle sue parti, solo perché ci dimostriamo deboli nel pretendere il rispetto della legge.