di Salvatore Sfrecola
Il conflitto fra politica e magistratura è una costante nella gestione del potere, dai tempi più antichi, da quando i giudici, che spesso erano anche sacerdoti, pretendevano di valutare l’azione dei capi delle comunità. Né è mancato negli ordinamenti assoluti, quando tutto il potere era incentrato nel sovrano, nonostante fosse lui a nominare i giudici, ed esplode con il costituzionalismo liberale, con la distinzione, o separazione, dei poteri, legislativo, esecutivo e giudiziario, come ci ha insegnato il Barone di Montesquieu nel suo L’esprit des lois. Sicché la politica, che governa sulla base del consenso popolare, ritiene di dover rendere conto esclusivamente al proprio elettorato delle scelte effettuate. E questo è indubbiamente vero in relazione agli atti che sono espressione dell’esercizio del potere politico, che attuano, cioè, scelte libere nei fini, ampiamente discrezionali, tali da escludere la sussistenza di fronte ad essi di diritti soggettivi perfetti. Con la conseguenza che, nonostante l’art. 113 della Costituzione preveda che “contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi”, questi atti “politici” non sono impugnabili di fronte al giudice amministrativo in quanto emanati nell’esercizio del potere politico. È facile comprendere che siamo su un confine che spesso esige una riflessione particolare per comprendere la natura dell’atto, perché il movente politico non dia luogo ad un arbitrio dell’amministrazione e della politica. A presidiare queste regole stanno il giudice amministrativo (e la Corte dei conti in sede di controllo di legittimità) ed il giudice penale. Rispettivamente per l’eccesso di potere, quando il vizio attiene ai presupposti, alla formazione e ai fini della volontà amministrativa, esclusa in ogni caso la valutazione dell’opportunità e della convenienza dell’atto emanato, e per l’abuso d’ufficio. Sembra facile a dirsi ma nella realtà sorgono sovente problemi che la politica affronta ribellandosi al giudice amministrativo ed alle sue pronunce, accusate spesso di rallentare l’azione amministrativa, mentre il giudice penale con l’abuso d’ufficio indurrebbe negli amministratori e nei funzionari il c.d. “timore della firma”, una situazione aggravata dalla preoccupazione di incorrere nell’azione risarcitoria da parte delle Procure regionali della Corte dei conti. C’è del vero in queste preoccupazioni ma non vanno trascurati altri profili. L’esperienza ci dice, ad esempio, che questi “timori” sono in gran parte conseguenza di inadeguata preparazione ed esperienza professionale. La P.A., infatti, da molti anni ha posto in posizione di responsabilità funzionari la cui carriera si è sviluppata fuori delle selezioni concorsuali ma sulla base di passaggi di ruolo, di area, di profilo, che non hanno accertato l’effettivo svolgimento di mansioni superiori o di esperienze meritevoli di riconoscimento. Per non dire dei “nominati” sulla base dell’art. 19, comma 6, del decreto legislativo n. 165 del 2001 che ha consentito l’immissione nei ruoli dirigenziali di molti che possono solamente vantare la vicinanza al politico di turno.
Ma non è tutto qui, anche se il livello professionale dei pubblici dipendenti indubbiamente condiziona l’efficienza dell’amministrazione. La quale, peraltro, si trova ad operare con norme spesso inadeguate, non di rado confuse, di difficile interpretazione. Non c’è bisogno di andare lontano, basta leggere il decreto semplificazioni, in corso di conversione, evidentemente redatto a più mani ma senza un efficace coordinamento, per constatare come manchino norme generali, valevoli per tutti i procedimenti, in un contesto di deroghe, sovrapposizioni, richiami che affaticano l’interprete. Probabilmente interverranno circolari esplicative, direttive generali e specifiche di singoli procedimenti. In attesa di conoscere cosa ne pensano i Tribunali amministrativi regionali ed il Consiglio di Stato se ad essi si rivolgono imprenditori e cittadini a reclamare la violazione di interessi legittimi, da un lato, e la Corte dei conti, controllore della legittimità degli atti, dall’altro.
E così all’art. 48, comma 4, del Dl semplificazioni, approvato venerdì sera dalla Camera dei Deputati, si è previsto che, in caso di impugnazione degli atti relativi alle procedure di affidamento di lavori, le opere proseguiranno in quanto i Tribunali amministrativi non avranno più la possibilità di bloccare i cantieri, quello che politici ed imprenditori hanno sempre ritenuto il fardello della giustizia amministrativa. “È la garanzia che l’Italia procederà in velocità, senza pregiudicare le legittime tutele per le imprese” ha commentato il Ministro per la Pubblica amministrazione, Renato Brunetta. La norma “blocca TAR”, varata con il Dl semplificazioni, richiama l’art. 125 del Codice del processo amministrativo, estendendo a tutti gli appalti finanziati con i fondi del PNRR e del PNIEC (Il Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima 2030) una procedura, già prevista in casi straordinari, per le opere strategiche. All’impresa, che eventualmente vinca il ricorso al Tar contro l’aggiudicazione dei lavori al concorrente, spetta esclusivamente una tutela risarcitoria, nell’ammontare stabilito dal Giudice.
È effettivamente una riforma di quelle che si definiscono “epocali” nel Paese in cui i Tribunali amministrativi decidono di tutto, dalle classifiche dei campionati di calcio, alla nomina dei magistrati alle funzioni apicali, alle promozioni nell’esame di maturità. E poi sui Dpcm, sulle regole della risposta alla diffusione del Covid-19, sugli ulivi pugliesi, sull’insegnamento in lingua inglese all’università, per non fare che qualche esempio.
La norma, sollecitata dal Ministro Brunetta, si propone di ridurre il potere dei giudici amministrativi, considerato un elemento di dissuasione ad investire in Italia, soprattutto per gli imprenditori stranieri, spaventati dai ricorsi e dalla lentezza delle decisioni. Come sempre operiamo in emergenza, perché “ce lo chiede l’Europa”. Avremmo dovuto farlo di nostra iniziativa per tempo. La capacità di una classe politica al governo sta nella tempestività dell’adeguamento delle regole una volta verificato che esigono una messa a punto. Infatti, la politica sbaglia quando si lamenta delle incursioni dei giudici nell’attività amministrativa perché trascura che le regole che applicano i tribunali sono scritte dal Parlamento il quale avrebbe anche il compito di correggere eventuali storture, anche solo interpretative, utilizzando lo strumento dell’interpretazione autentica o della correzione della norma. Scelte trascurate, con la conseguenza che i problemi interpretativi che si trascinano nel tempo aggravano quella condizione di contrasto e di reciproco sospetto tra politica e magistratura che non giova alla democrazia. Quindi che criticano la Magistratura dovrebbero prima di tutto fare una severa autocritica, per verificare se le regole che disciplinano il processo sono funzionali all’esigenza di efficienza dell’azione politico amministrativa.