di Salvatore Sfrecola
“Giustizia è fatta”, avrà certamente detto fra sé e sé Antonella Manzione nel leggere la sentenza (n. 02142/2022) della settima sezione del Consiglio di Stato in sede giurisdizionale la quale ha riconosciuto che la sua nomina quale Consigliere di Palazzo Spada era legittima, perché in possesso dei requisiti di professionalità la cui contestazione certamente l’aveva offesa. Quei requisiti che erano stati ritenuti assenti dall’Associazione Nazionale Magistrati Amministrativi (A.N.M.A.). L’unico rammarico per lei potrà essere quello che, come spesso accade in Italia, di questa sentenza forse non parleranno gli organi di stampa che a suo tempo avevano enfatizzato il ricorso dell’A.N.M.A., probabilmente in odio a Matteo Renzi, con il quale la dottoressa Manzione aveva a lungo collaborato quale Comandante del Corpo della Polizia Municipale di Firenze e Direttore generale del capoluogo toscano, poi Capo del Dipartimento per gli Affari Giuridici e Legislativi (DAGL) della Presidenza del Consiglio dei ministri.
Ben cinque erano stati motivi di ricorso dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio con i quali l’A.N.M.A. aveva eccepito che la dottoressa Manzione non avesse al momento della nomina l’anzianità richiesta (superiore a 55 anni) e non fosse in possesso dell’esperienza professionale per durata e qualità idonea a ricoprire il ruolo di magistrato amministrativo. Infine l’A.N.M.A. contestava la legittimità costituzionale della norma che prevede una quota di consiglieri di Stato di nomina governativa, ritenuta in contrasto con gli articoli 101,108 e 117 della Costituzione.
Una corposa contestazione, dunque. Dopo una prima pronuncia del Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio che, con una sentenza del 2018, aveva deciso essenzialmente su vari profili processuali, l’appello è entrato nel merito. E, dopo una accurata istruttoria, che ha portato all’attenzione del Collegio la documentazione riferita alla carriera professionale della dottoressa Manzione, il Consiglio di Stato ha ritenuto le tesi dei ricorrenti infondate.
Per quel che può interessare il pubblico, attento da sempre alle nomine di competenza del Governo, è da rimarcare l’affermazione che la dottoressa Manzione era in possesso dei requisiti richiesti dalla legge. Tra l’altro si contestava che potesse qualificarsi dirigente generale. Tesi disattesa dal Consiglio di Stato che, nel ricostruire la normativa che attiene a questa qualifica dirigenziale, presente nell’ordinamento dello Stato e degli enti pubblici, ha riconosciuto che, l’espressione “altre amministrazioni pubbliche” che si legge nell’art. 19, comma 1, n. 2 della legge 186 del 1982, sull’ordinamento del Consiglio di Stato, “sintetizza la complessità dell’organizzazione della Pubblica Amministrazione, in quanto informata al principio della pluralità, ai sensi dell’art. 97, Cost, ed a quello del decentramento amministrativo, ai sensi dell’art. 5 Cost.”. Aggiungendo che un’elencazione sostanzialmente compiuta di amministrazioni pubbliche è contenuta nell’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001, dove è chiarito cosa s’intende per amministrazioni pubbliche e quindi dove sono ricompresi anche gli enti locali.
Ora il Consiglio di Stato dà una piccola lezione di diritto agli incauti ricorrenti, che avevano contestato l’equiparazione tra dirigenti statali e degli enti locali, cominciando col richiamare l’art. 12 delle Disposizioni sulla legge in generale (le cosiddette Preleggi) laddove è scritto che “nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore”. Osserva in particolare il Collegio giudicante che sul piano letterale la norma fa riferimento ai dirigenti generali o equiparati dei ministeri, degli organi costituzionali e delle altre amministrazioni pubbliche, mentre sul piano sistematico l’equiparazione è tra le funzioni materialmente esercitate dai titolari degli uffici, circoscrivendo la platea delle amministrazioni pubbliche. E precisa come la tecnica dell’equiparazione serva a rendere pari elementi di raffronto che in natura non lo sono, non essendo i ministeri, gli organi costituzionali e le altre amministrazioni pubbliche accomunati dal medesimo modello organizzativo e funzionale, anche perché diretti a soddisfare interessi pubblici diversi. Richiamando la disciplina della dirigenza pubblica statale contenuta nel decreto legislativo 165 e quella degli enti locali il Collegio osserva che quest’ultima contiene tutti i principi generali che caratterizzano la dirigenza statale, in particolare il principio della distinzione tra poteri di indirizzo e poteri di controllo politico e amministrativo.
Tuttavia, la cosa che senz’altro avrà dato maggiore soddisfazione alla dottoressa Manzione è che il Consiglio di Stato ha riconosciuto “le evidenze documentali” le quali “dimostrano che sussiste perfetta corrispondenza tra le funzioni legalmente previste di direzione generale e di coordinamento di uffici dirigenziali, e quelle che ella ha esercitato in virtù del conferimento degli incarichi (sia di direttore generale del Comune, sia di dirigente coordinatore di ufficio preposto ad altri uffici dirigenziali)”. Ricorda poi la sentenza che la dottoressa Manzione ha avuto accesso alla carriera dirigenziale a seguito di un concorso pubblico per titoli ed esami nel 1997 e di aver svolto incarichi dirigenziali in qualità di dirigente della Polizia municipale nei comuni di Verona, Livorno, Lucca, città dove assunto il ruolo di Comandante del Corpo e responsabile della protezione civile. Successivamente ha svolto il ruolo di Comandante vicario del Corpo della polizia municipale del Comune di Firenze, di Direttore per la direzione di Corpo polizia municipale di coordinatore dell’area di coordinamento sicurezza e attività produttive, ruolo cumulato, nel biennio 2013-2014, con quello di direttore generale del Comune di Firenze.
Quanto alla circostanza che la dottoressa Manzione non aveva raggiunto i 55 anni, il Consiglio di Stato osserva che era stata prevista dal Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa “espressamente una deroga al limite anagrafico massimo, consentendo che per coloro che al momento della proposta abbiano già superato il sessantacinquesimo anno di età, sia possibile derogare, e cioè esprimere un giudizio positivo e favorevole per i candidati in possesso di eminenti requisiti”. E se “analoga precisazione non è prevista per quando i nominandi non abbiano raggiunto invece il limite anagrafico minimo dei cinquantacinque anni … ciò non significa che la ratio della deroga non si imponga anche in questo caso specifico, attesa la preminenza del dettato legislativo, per il quale rileva soltanto l’oggettiva valutazione dell’attività e degli studi giuridico-amministrativi compiuti”.
Quanto infine alla quota di magistrati di nomina governativa il Consiglio di Stato ha ricordato che analoga disposizione è prevista anche in altri ordinamenti. In ogni caso la Corte costituzionale già si era pronunciata in passato su analoghe nomine governative dei Consiglieri della Corte dei conti riconoscendone la conformità ai principi costituzionali sull’indipendenza dei magistrati.