lunedì, Dicembre 30, 2024
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I Puritani a Roma e… siamo alle solite!

di Dora Liguori

Al teatro Costanzi, martedì 19 aprile, è andata in scena l’ultima opera di Vincenzo Bellini, per l’appunto I Puritani, dramma storico di tali Ancelot e Boniface che molto, a Parigi, aveva impressionato il musicista catanese, alla ricerca di un nuovo soggetto da musicare. E la trama, assolutamente romantica di questi Puritani, gli parve una giusta occasione non solo per le sue corde lirico-romantiche ma anche per le qualità espressive (e non solo quelle) di una cantante che non riusciva a togliersi dalla testa e… da quant’altro. Insomma, Bellini, smaniava per la bellissima Maria Malibran che, quale mirabile interprete della sua “Sonnambula”, tanto lo aveva impressionato a Londra.

Fatta questa premessa, occorre ahimé! passare allo spettacolo propinatoci. Vogliamo parlare della regia di Andrea De Rosa o è preferibile tacere?

Infatti, quella del silenzio deve essere la linea che pare abbiano scelto i critici romani… forse non abbastanza inclini a dire cose spiacevoli. E, per questi Puritani occasioni ce n’erano tante, ad iniziare dal direttore d’orchestra Roberto Abbado, non proprio in sintonia con cantanti e orchestra.

Per quanto, invece, mi riguarda, essendo libera da qualsivoglia remora, mi posso ancora consentire il lusso di dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità! Del resto, se ormai a tanti registi si lascia fare scempio delle opere liriche, mi appare alquanto giusto dare la possibilità ai poveri fruitori della loro “arte” di almeno protestare… ovviamente a vuoto. Non a caso, costoro, percepiscono, per le loro regie divenute ormai teoremi mentali da decifrare, emolumenti notevoli che provengono proprio dalle tasche del miserrimo pubblico. Ma, a detto pubblico, i citati registi vorrebbero imporre il silenzio, essendo, sempre il pubblico, marchiato dal peccato originale di non essere abbastanza acculturato per godere a pieno dei loro incompresi parti… quando si dice l’ignoranza del volgo!

E il volgo, questa volta si è ritrovato ad essere testimone di un’operazione che ha visto una delle più belle opere creata da mente umana, travolta nel tempo nonché tradita nella sua essenzialità romantica, dal regista Andrea De Rosa.

In sicura sintonia con le idee della regia, la scena era costituita soprattutto da una grande scalinata; la qual cosa ha fatto sorgere negli spettatori, quelli abituali, un’idea malandrina: vuoi vedere che il teatro, in vena di risparmio, abbia così inteso riciclare la scalinata della Turandot di Wei-Wei?

“Il mio pensiero” come direbbe Otello “è fello” ma, se ciò non fosse, come sarebbe possibile spiegare questa mania delle scalinate che ci viene puntualmente proposta dai registi? Le scale sono in effetti un elemento teatrale, ma, lungi dall’essere innovativo, esso era stato già abbondantemente sfruttato nel teatro di rivista di almeno 70 anni fa, ai tempi della Wandissima. Infatti, la gentile signora Osiris, vera star del tempo, scendeva una lunga scalinata cantando e distribuendo rose, ben sorretta da elegantissimi boys, utili soprattutto a non farla rovinare in terra poiché la divina… più che un abito indossava un monolocale.

Comunque, concesse pure le scale, passiamo al resto dell’azione, concepita, dice il regista, in uno spazio senza tempo. 

E no! Il tempo esiste e come! I Puritani appartengono ad un preciso spazio lirico- romantico, una corrente, diremmo filosofica, concepita da un signore di nome Schiller, e che appartiene, nella sua impalpabilità, al mondo dell’utopia, dell’“anima bella” e del “paradiso perduto”. 

Tolti questi elementi, tutto diviene una poco credibile farsa. E tale ci è apparsa la collocazione temporale di questi Puritani, trasportati negli anni cinquanta del novecento, con figuranti vestite da novizie di improbabili ordini monacali. La povera Elvira, invece, oltre ad essere vestita malissimo, veniva collocata nel letto di una stanza richiamante un’ambiente di tipo manicomiale. 

Come ovvio il povero spettatore, a tal vista, s’è chiesto: ma perché? La fanciulla ancora non è uscita di testa, infatti, per tale sciagura occorre attendere la fine del primo atto.

Una chiave di lettura potrebbe essere che, l’Elvira, evidenziando, sin da piccola, lati oscuri del suo cervello, i solerti e previdenti genitori l’abbiano da subito voluta abituare all’ambiente che l’avrebbe, di lì a poco, accolta. Comunque, lasciato il letto, la futura demente abbandona la stanza (ovvero una piattaforma), e chi ti va, allora, ad entrare nel fatal luogo? Quel malamente geloso di Sir Riccardo Forth, spasimante respinto dalla già alquanto labile fanciulla che, non sapendo com’altro spegnere i suoi bollori, si va ad abbracciare il cuscino del letto.

Ora, che l’opera lirica sia quanto di più illogico cervello umano abbia ideato è un dato di fatto, ma un minimo di logica comunque occorrerebbe: un uomo o meglio un estraneo, in un secolo molto bigotto e influenzato dai Puritani, forse sarebbe pure potuto entrare nella camera da letto di una fanciulla ma difficilmente ne sarebbe uscito. La sopravvivenza dell’incauto diveniva nulla, persino se fosse stata la fanciulla a farlo entrare, anzi… Pertanto la logica della impropria collocazione di Sir Riccardo è rimasta a tutti gli spettatori ignota.

Procedendo, si giunge al clou del dramma rappresentato dalla, causa abbandono del promesso sposo Arturo Talbo, entrata nella follia vera e propria della giovane fanciulla.

“Ah vieni al tempio”, canta, dolente, Elvira, mentre, le novizie di cui sopra le bendano gli occhi… l’amore è cieco e la follia pure. E, ivi giunto, anche lo spettatore sceglie, chiudendo gli occhi, di divenire cieco; solo così, evitando di vedere la scena, il tapino può riuscire a farsi trasportare, tramite la malia della musica belliniana, nel suo “paradiso perduto”.

A risvegliare dai sogni ci pensa, nel secondo atto, il regista, il quale fa entrare in scena la povera folle Elvira, ancora vestita del suo già bianco abito da sposa, divenuto ormai grigio per la sporcizia. Ed è, in quelle miserande condizioni, che il soprano è costretto a cantare uno degli appelli più romantici di tutto il teatro d’opera: Ah, rendetemi la speme o lasciatemi morire. 

E anche il pubblico, a tale visione, senza speme, qualche volta vorrebbe morire (operisticamente parlando). Identica idea, anche se non espressa, nel terzo atto, deve averla avuta il fuggitivo Arturo, allorché di ritorno, dopo tre mesi, ritrova, in quelle condizioni la sua Elvira. Lo sventurato avrà detto: pazienza la follia ma così zuzzosa proprio no! 

Insomma, ad Elvira, dopo ben tre mesi, un bagno, le novizie, delle quali non è stata compresa la presenza, potevano anche farglielo fare. 

P.S. Non ho volutamente, per non infierire, parlato della compagnia di canto, ma ignorare Jessica Pratt, la protagonista, sarebbe quasi un’offesa. La cantante inglese è stata un ottimo e grande soprano d’agilità, e per la zona acuta lo è ancora; nei centri, invece, ha perso, da un paio di anni, consistenza e smalto. E, purtroppo per lei, la partitura belliniana si dipana soprattutto nel centro della voce; come già accennato, Bellini, componendo l’opera, pensava alla voce della Malibran che, in effetti, era un mezzosoprano con una bella estensione vocale. Comunque, fatta eccezione per la vocalità di Irene Savignano (sprecata nella brevissima parte della regina Enrichetta), la Pratt dominava facilmente sul resto della compagnia. 

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