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La vocazione mediterranea dell’Italia nel pensiero politico di Camillo Benso Conte di Cavour e nell’attualità

di Salvatore Sfrecola*

Non passa giorno che nell’affrontare un tema politico di attualità non lo si ritrovi già analizzato e delineato nelle sue prospettive in qualche scritto di Camillo Benso di Cavour, il più saggio e benemerito statista del suo tempo, ha scritto il grande storico inglese Trevelyan, “se non di ogni tempo”[1]. Come a proposito dell’attenzione che l’uomo di governo piemontese, ma che “pensa” italiano, riserva al ruolo dell’Italia nel Mediterraneo, un’area che, ancora nell’800, costituiva una realtà politica ed economica permanentemente sotto la lente d’ingrandimento della politica estera delle grandi potenze, tanto che Cavour nel 1855 decideva la partecipazione del Regno di Sardegna alla guerra di Crimea perché – aveva detto in un discorso alla Camera subalpina il 3 febbraio – “se la presente guerra avesse esito felice per la Russia, se avesse per conseguenza di condurre le aquile vittoriose dello czar in Costantinopoli, evidentemente la Russia acquisterebbe un predominio assoluto sul Mediterraneo, ed una preponderanza irresistibile nei consigli dell’Europa. Sia l’una che l’altra conseguenza non possono a meno che reputarsi altamente fatali agli interessi del Piemonte e dell’Italia”[2].

La Russia, che torna ad affacciarsi su quel mare che i romani chiamavano “nostrum”, per dire a tutti del potere che avevano acquisito grazie ad una flotta potente che proteggeva le navi commerciali dai nemici della Repubblica e dell’Impero. Dopo duemila anni quest’equazione non è cambiata ma si è arricchita di nuovi, importanti flussi mercantili dall’Europa verso l’Africa e l’Oriente.

Con la Russia di Putin, preme la Turchia di Erdogan, in ragione di un interesse preminente allo sfruttamento delle risorse energetiche dell’intero bacino orientale tra Cipro, Grecia, Egitto, Siria, Israele e Libano dove sono stati scoperti rilevanti giacimenti di gas e di petrolio. C’è, poi, la Libia, in pratica fuori controllo in una guerra per bande dove il petrolio fa gola a russi e turchi. “Il conflitto è pressoché completamente geopolitico: la Turchia, in contrapposizione con l’Arabia Saudita e l’Egitto, mira a diventare una grande potenza regionale, soprattutto oggi che l’Italia sembra aver abbandonato tale suo ruolo” [3].

Un “sembra” pudico che copre una realtà gravissima, quella di un Paese che la natura ha posto “al centro del Mediterraneo” (Cavour)[4] e della sua storia lungo i secoli nei quali si è sviluppata la civiltà occidentale[5], ma non riesce ad esprimere una presenza significativa, politica ed economica, in quell’area preziosa per le nostre esigenze energetiche. Una politica incerta, altalenante, che strizza l’occhio al mondo islamico, a lungo nella convinzione per l’Italia di poter “tanto più facilmente assumere nel Mediterraneo una posizione preminente quanto più avesse dato prova di comprensione e simpatia per i paesi di recente indipendenza”[6]. Una politica sgradita ad Israele ed anche agli Stati Uniti, senza che l’Europa abbia manifestato un qualche interesse al nostro ruolo mediterraneo, come il Conte aveva delineato in una visione globale dello sviluppo economico e commerciale, partendo dalla necessaria espansione della rete ferroviaria per giungere ai porti che avrebbero consentito di collegare il Continente all’Africa e all’Oriente.

“L’Italia è il mare”, titola Limes n. 10/2020, prestigiosa rivista “italiana” di geopolitica, che così “marca” il senso del suo ruolo scientifico “fiera parte di una nazione – si legge nell’editoriale – , dunque studiamo i suoi interessi non da entomologi, ma con cuore e mente partecipi di un destino collettivo”[7]. E nel chiedersi perché propone “l’equazione fra patria e mare” richiama Federico Chabod, il “severo guardiano della storiografia italiana”, come lo aveva definito Gennaro Sasso. Ebbene Chabod, in Storia politica del Mediterraneo” scrive che, finalmente unificata “l’Italia cessava di essere oggetto di storia, ma diventava essa stessa soggetto attivo; da terreno di battaglia, contendente, protagonista attivo delle vicende europee. Poco o molto che fosse (…) il giovane regno doveva necessariamente (tondo nostro)nutrire anch’esso aspirazioni mediterranee”.

Detto da un uomo di montagna, aostano, alpinista, il richiamo alla vocazione mediterranea dell’Italia non può che essere espressione della consapevolezza di un ruolo storico, naturalmente connesso alla sua configurazione geografica. Come per Cavour per il quale, quasi 170 anni prima, l’Italia era “destinata a collegare l’Europa all’Africa… quando il vapore la attraverserà in tutta la sua lunghezza, il cammino più breve e più comodo dall’Oriente all’Occidente”[8].

È il 1846. Cavour scrive di ferrovie ma ha una visione complessiva delle esigenze trasportistiche dell’Italia che immagina come unica pur nella realtà variegata della sua economia ancora divisa in sette stati, come aveva deciso il Congresso di Vienna nel 1815. Lo statista illuminato, che guarda alla prospettiva dell’Italia quando “non era allora frequente un discorso unitario italiano neppure a proposito dell’economia della penisola”[9], delinea le esigenze dello sviluppo economico del Paese, quindi anche delle utilità che derivano dal mare. In uno straordinario commento alla relazione di Ilarione Petitti di Roreto sulle ferrovie italiane[10], ne sottolinea la funzione unificante e il ruolo di sviluppo dell’economia nazionale in quanto, assicurando “un grande movimento di merci e di viaggiatori che vanno e vengono dal Mediterraneo all’Adriatico”, contribuiscono allo sviluppo dell’economia delle singole regioni. E, ancora, “se le line napoletane si estenderanno fino in fondo del regno, l’Italia sarà chiamata a nuovi alti destini commerciali … Non appena ci si potrà imbarcare a Taranto o a Brindisi, la distanza marittima che ora bisogna percorrereper recarsi dall’Inghilterra, dalla Francia e dalla Germania in Africa o in Asia sarà abbreviata della metà. È dunque fuor di dubbio che le grandi linee italiane serviranno allora a trasportare la maggior parte dei viaggiatori e alcune merci più preziose che circoleranno in queste vaste contrade. L’Italia fornirà anche il mezzo più veloce per recarsi dall’Inghilterra all’India e in Cina; cosa che rappresenterà ancora una fonte abbondante di nuovi profitti”. Aveva immaginato la via della seta della quale si dice oggi non senza contrasti!

Le ferrovie, il cui ruolo nel trasporto delle merci e delle persone aveva apprezzato in Inghilterra, destinate a rivoluzionare la vita dell’umanità, lo entusiasmavano. Voleva vederle nascere dappertutto tra Torino e Genova naturalmente, poi tra Torino e Chambery, tra Milano e Venezia non solo perché avrebbero modificato radicalmente  il modo di viaggiare delle persone e favorito lo scambio delle merci ma anche perché erano destinate a cambiare, e questo gli sembrava più importante ancora, la mentalità della gente.

Ministro della Marina promosse il passaggio dalla vela al vapore sulle unità da guerra e dalle pale all’elica. Volle anche ordinare in Inghilterra la costruzione di una fregata che avrebbe consentito l’allestimento di unità identiche, tecnologicamente avanzate per la Marina sarda. Si rese conto che il Golfo di La Spezia, oltre a essere splendido per le bellezze naturali, sembrava fatto apposta per diventare base navale e tale sarebbe rimasta fino ai nostri giorni. E contribuì a creare una città marittima dove esisteva solo un borgo marinaro. 

Insiste Limes: “se non siamo mare non siamo Italia”. Ancora “tornare marittimi per tornare a contare”, per recuperare uno spazio politico ed economico che è connaturale alla posizione geografica nel Mediterraneo che l’Italia dovrebbe rivendicare anche quale membro dell’Unione Europea e nell’interesse dell’Unione. Per essere un “grande stato” come preconizzava Cavour richiamando il ruolo storico di Roma quando, tra gli applausi, aveva affermato alla Camera il 25 marzo 1861, pochi giorni dopo la proclamazione del regno d’Italia (17 marzo) che “senza Roma capitale d’Italia, L’Italia non si può costituire”. E spiegava che “in Roma concorrono tutte le circostanze storiche, intellettuali, morali, che devono determinare le condizioni della capitale di un grande Stato. Roma è la sola città d’Italia che non abbia memorie esclusivamente municipali; tutta la storia di Roma dal tempo dei Cesari al giorno d’oggi è la storia di una città la cui importanza si estende infinitamente al di là del suo territorio, di una città, cioè, destinata ad essere la capitale di un grande Stato”[11].

Anche per la sua vocazione mediterranea Cavour è morto troppo presto, lasciando spazio ad una classe dirigente settentrionale che non s’è mai appassionata al mare, che mira a sentirsi mitteleuropea, incurante della scarsa attenzione che riceve dagli stati del centro Europa mentre potrebbe destare l’attenzione dell’Unione proprio per una vocazione mediterranea che significa ruolo politico ed economico in un’area nella quale la presenza di Roma è ancora attestata dai monumenti della civiltà, gli acquedotti, le terme, i teatri, le strade che le guide turistiche mostrano ai visitatori ovunque sulle coste di Turchia, Libia, Tunisia. 

Tuttavia, se il Nord non “sente” il fascino del mare, neanche le regioni meridionali dimostrano nel tempo una specifica attenzione all’espansione marittima, al di là della pesca e di alcuni collegamenti commerciali. I porti di Napoli, Bari, Taranto e Palermo mancano di infrastrutture adeguate e non sono polo di attrazione per i commerci internazionali anche perché manca, oltre alle attrezzatura capaci di caricare e scaricare rapidamente le imponenti navi portacontenitori, il collegamento via terra con il sistema del trasporto terrestre. Mancano snodi porto-ferrovia-autostrade, cioè mancano quelle condizioni che consentono, come aveva intuito Cavour, un rapido trasferimento delle merci e delle persone che utilizzano il mezzo marittimo.

Una intuizione felice per restituire attenzione ed interesse al Mar Mediterraneo e comunque alla realtà marittima del nostro Paese la ebbe, nei primi anni ’90, il ministro dell’allora Marina Mercantile, Giovanni Prandini, il quale incaricò i suoi uffici di predisporre una iniziativa legislativa per istituire il “Ministero del mare”, inteso come struttura amministrativa che avrebbe riunito sotto un’unica direzione politica tutte le competenze in qualche modo riconducibili al mare, dalla gestione delle coste, ai porti e alle connesse opere marittime, alla cantieristica, alle linee di navigazione, alla pesca. Prandini aveva compreso che la distribuzione tra vari ministeri di competenze riconducibili al mare non consentiva quel coordinamento e quella visione unitaria della politica marittima che avrebbe permesso all’Italia di assicurarsi nel Mar Mediterraneo una presenza commerciale ma anche turistica. Anche in relazione ad una  cantieristica di eccellenza, sia nella costruzione di navi mercantili e crocieristiche che in quella delle unità militari. Nell’ambito di questa idea di riappropriazione del mare il Ministro istituì la “Guardia Costiera”, quale articolazione dei reparti delle Capitanerie di porto.

Come spesso accade in Italia non fu possibile costituire il Ministero del mare per l’ostilità e la miopia delle amministrazioni che avrebbero dovuto abbandonare attribuzioni riconducibili al mare, come quella delle “opere marittime”, che all’epoca erano di competenza del Ministero dei lavori pubblici. Soppresso il Ministero della marina mercantile ed incorporato nel Ministero delle infrastrutture e dei trasporti alcune materie risultano fuori contesto, come la pesca attribuita al Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali.

L’Italia è il mare, torniamo alla felice espressione di Limes. Ma è certo che ha sicuramente nuociuto al ruolo marittimo del nostro Paese la lunga disarticolazione politica in ragione della quale Clemente Lotario di Metternich, il potente Cancelliere austriaco che dominò dal Congresso di Vienna in poi la politica europea lungo gran parte dell’800, poté definire l’Italia “un’espressione geografica”. Per secoli, infatti, l’Italia politica è stata divisa in piccoli stati in conflitto perenne tra loro, spesso alimentato con il ricorso a potenze straniere, dalla Francia alla Spagna all’Austria a riprova di una visione politica limitata al particulare di principi e governanti con il piacere del vassallaggio.

Dante la definì “misera” o “miseranda”, con angoscia perché, come scrive Aldo Cazzullo, “si criticano le cose che si amano, e che si vorrebbero profondamente diverse”[12]. “Hai serva Italia, di dolore ostello!” prorompe il Poeta. Il fatto è che per secoli “calpesti, derisi,/ perché non siam popolo,/ perché siam divisi”, come ricorda l’Inno nazionale, nessuno degli stati ha saputo esprimere una politica marittima capace di imporsi nel bacino del Mediterraneo. Neppure le repubbliche marinare[13] che hanno combattuto spesso fra loro tanto che nessuna ha mai avuto una egemonia tale da rappresentare l’Italia nel suo complesso nel Mediterraneo. Neppure Venezia che fra tutte ha dominato l’Adriatico e l’Egeo con presenze significative nelle isole del Dodecaneso e sulle coste turche e siriane in funzione dei propri commerci è potuta assurgere a potenza mediterranea. Anzi, spesso ha dovuto assicurarsi una limitata autonomia nei traffici entrando a patti con l’impero ottomano.

Sempre il ministro Prandini, al quale si deve riconoscere una straordinaria percezione del ruolo marittimo del nostro Paese, lui bresciano, uomo di terra, aveva istituito un premio per un Concorso destinato alle scuole medie superiori intitolato “Amare il mare” al quale gli studenti potevano partecipare con scritti, filmati e altre espressioni culturali e artistiche.

Ma proprio in quella occasione, nell’incontrare le scolaresche, fu chiaro agli inviati del Ministro che in giro per l’Italia l’attenzione per il mare varia in relazione all’esperienza storica delle popolazioni rivierasche perché dal mare per secoli sono venuti i pericoli rappresentati dalle scorrerie dei corsari che, dopo la caduta di Costantinopoli, la capitale dell’Impero romano d’Oriente (29 maggio 1453), erano parte essenziale del disegno di conquista del Mediterraneo, obiettivo di Mehmed II (Maometto il Conquistatore) e dei suoi successori che, per un paio di secoli, alimenteranno anche sul mare la jihad[14]. In quegli anni i pirati barbareschi, legittimati dalle “patenti” del sultano saccheggiavano i villaggi rivieraschi avidi di tesori (soprattutto delle chiese) ma anche di uomini, di fanciulli e di donne (giovani), molto richiesti dal mercato degli schiavi fiorente nell’intero Islam. A Lepanto la flotta cristiana il 7 ottobre 1571 ottenne “una vittoria senza precedenti”[15] che fermò l’espansione islamica nel Mediterraneo, ma solo per qualche tempo, perché il 14 luglio 1683 il più grande esercito turco mai arrivato nel cuore dell’Europa si dispiegava intorno alle mura di Vienna[16]. Dove peraltro sarebbe stato sconfitto in due sanguinose battaglie nelle quali emerse l’incitamento di un frate cappuccino, Marco d’Aviano, ed il valore di un generale italiano, il Principe Eugenio di Savoia.

Nonostante siano sono passati secoli ed i pirati barbareschi si vedano solo nei film non dappertutto il mare è amato. Lo si nota perfino nella struttura di alcune città rivierasche. Infatti, se a Venezia i palazzi delle famiglie nobili o più ricche della Serenissima Repubblica sono sul mare, a dimostrazione dell’importanza della famiglia, perché comunque Venezia era protetta dalla sua flotta, in altre regioni d’Italia, dove questo questa capacità di tutela delle popolazioni e dei litorali non c’era, i palazzi dei nobili e dei ricchi non sono sul mare, come a Palermo, come anche a Napoli o a Cagliari. Ciò nonostante i rapporti commerciali di alcune aree geografiche marittime con il Mediterraneo con l’Africa sono rilevanti, come dimostra Mazara del Vallo, base di una rilevante flotta peschereccia la cui attività è collegata tradizionalmente alla Tunisia, tanto che il Governo italiano non gradì l’occupazione francese di quella regione dove italiani e addetti alla pesca locali avevano costituito strutture industriali e commerciali importanti. Tant’è che qualche anno dopo (1911) l’Italia occupò la Libia, proprio perché aveva interessi in quella sponda dell’Africa.

Oggi, trascurando l’interesse marittimo il nostro Paese si allontana pericolosamente dal Mediterraneo, nostro fisiologico campo d’azione. Lo sottolinea icasticamente Limes segnalando che “lo sguardo perennemente puntato Oltralpe ci impedisce di cogliere cosa capita Oltremare. Come se gli Stati Uniti sognanti il Canada negassero la preminenza del Golfo del Messico, laddove un potenziale nemico può colpirli al cuore, possibilmente risalendo il Mississipi”[17].

Addirittura il Veneto, patria della Serenissima, potenza marittima lungo parecchi secoli, appare indifferente al ruolo del porto del capoluogo, limitato al discusso passaggio delle navi da crociera. 

Il fatto è, come ha denunciato l’Ammiraglio Giuseppe De Giorgi, già Capo di Stato Maggiore della Marina, che “manca nella classe dirigente nazionale la consapevolezza del nostro destino marittimo, dell’importanza del mare per la nostra prosperità e sicurezza. (…) Dovremmo conferire la giusta priorità alla questione marittima, interrompendo il declino della flotta, anche in termini di organici”.

E così il Mediterraneo emerge nei dibattiti politici esclusivamente con riferimento alle polemiche sull’immigrazione clandestina mentre non si sente mai dire del ruolo politico del nostro Paese che in quel contesto si gioca anche una quota significativa delle nostre esigenze energetiche.

Siamo in un contesto certamente imprevedibile, sia in Libia che nel Mediterraneo orientale. Perché “gli Stati Uniti non hanno alcuna intenzione di impegnarsi, né di toglierci la “patata bollente dal fuoco”, il “gioco” resta nelle mani degli europei. Solo una buona rilettura di Clausewitz da parte del governo e uno stretto accordo con la Francia … potrebbero rimetterci nelle condizioni, se non di seconda, almeno di terza potenza regionale in Mediterraneo”[18]. A tutela dei nostri interessi energetici messi in forse dall’impetuosa iniziativa della Turchia proprio in Libia ai danni dell’Eni, in un contesto nel quale appare evidente il declino della “forza della legge” (internazionale) a favore della “legge della forza” e del “ritorno a una logica di potenza che implica evidenti e inaggirabili rischi”[19]. Che non è una novità nella storia delle relazioni internazionali.


[1] Richiamato da P. Ottone, Cavour, storia pubblica e privata di un politico spregiudicato, Longanesi, Milano, 2011, 8.

[2] In Camillo Benso di Cavour, Autoritratto, Lettere, diari, scritti e discorsi, a cura di A. Viarengo, BUR, Milano, 2010, 648.

[3] C. Jean, La Turchia a tutto gas nel Mediterraneo, in Aspenia, 2020, n. 88, 206.

[4] In Camillo Benso di Cavour, Autoritratto, cit. 500.

[5] P. Silva, Mediterraneo, in Enciclopedia Italiana, Treccani, vol. XXII, 752 e ss.

[6] S. Romano, Guida alla politica estera italiana, da Badoglio a Berlusconi, Rizzoli, Milano 2002, 186. 

[7] Limes, 9.

[8] In Camillo Benso di Cavour, Autoritratto, cit. 500.

[9] G. Galasso, Il pensiero italiano di Cavour, Prefazione a Camillo Benso di Cavour, Autoritratto, cit. I.

[10] Sulla parigina Revue Nouvelle, VIII, 446-79, oggi in Camillo Benso di Cavour, Autoritratto, cit., 500.

[11] In Camillo Benso di Cavour, Autoritratto, cit. 716.

[12] A. Cazzullo, A riveder le stelle, Mondadori, Milano, 2020, 11.

[13] M. A. Antonio Bragadin, Repubbliche italiane sul mare, Garzanti, 1951.

[14] A. Petacco, La Croce e la Mezzaluna, Mondadori, Milano, 2004, 19.

[15] A. Barbero, Lepanto, Laterza, Bari, 2011, 582.

[16] A. Petacco, L’ultima crociata, Mondadori, Milano 2007, 157.

[17] D. Fabbri, Italia, penisola senza mare, in Limes, 2020, n. 10, 53.

[18] C. Jean, La Turchia, cit. 210.

[19] V. E. Parsi, Il nuovo triangolo strategico, in Aspenia, n. 2020, n. 88, 186.

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