di Salvatore Sfrecola
Stimo molto Fabrizio Giulimondi, “tecnico del diritto a servizio delle Istituzioni”, come ama presentarsi, docente in materie giuspubblicistiche, autore di numerose pubblicazioni, relazioni, articoli, note a sentenze, componente Comitato scientifico ForoEuropa, autore di un volume “Costituzione materiale, costituzione formale e riforme costituzionali” del quale molto volentieri ho scritto la Prefazione. Insomma uno studioso attento alle tematiche più varie, che segue tempestivamente, ovunque emergano problematiche stimolanti per un giurista.
Stavolta, però, dissento da un suo scritto “Stati Uniti d’Italia” la rivoluzione del ‘merito’ per sconfiggere i mali della burocrazia” in LabParlamento, Quotidiano di analisi e scenari politici.
“Uno degli ostacoli allo sviluppo economico italiano – scrive Giulimondi – viene indicato nella “burocrazia”, percepita come patologicamente malata, responsabile della lentezza delle decisioni in danno dell’operato di imprese e cittadini, che la avvertono come qualcosa di inafferrabile e nemica. La burocrazia, una specie di creatura mitologica, rappresenta una dimensione ordinamentale – composta da donne e uomini, luoghi labirintici, leggi, procedure, regole e prassi – non facilmente fotografabile, quasi impalpabile e, pertanto, difficilmente disciplinabile”.
Non c’è che da convenire. “La pluralità di soggetti che intervengono in un procedimento per l’emanazione di un provvedimento” è sovente causa di ritardo nella sua adozione, così determinando nel cittadino, in particolare se imprenditore, abituato a considerare il tempo un costo, un rifiuto non solo nei confronti dell’Amministrazione pubblica e quindi dello Stato, che pertanto vede come un nemico.
“L’accumulo di legislazione e regolamentazione farraginosa e mal scritta – scrive Giulimondi – , persino incomprensibile agli addetti ai lavori, oltre a rallentare i tempi di attuazione e l’efficacia dell’intervento pubblico, rende lo stesso spesso inutile. L’eccessiva prudenza e reticenza nel prendere decisioni dei dirigenti, sempre più intimoriti dalla minaccia penale (a partire dall’abuso di ufficio) e tranquillizzati soltanto dalla comfort zone del “precedente”, completa il quadro raffigurato”.
Non sarebbe stato possibile delineare meglio il “problema burocrazia”, che non è tale solamente per i privati, cittadini o imprese. Il tempo è un costo per chiunque attenda un’autorizzazione o partecipi ad una procedura contrattuale per la fornitura di beni o servizi, che tra l’altro, come ha rivelato nei giorni scorsi Angelo Canale, Procuratore Generale della Corte dei conti, sono pagati con estremo ritardo, u dato che preoccupa, “trattandosi di articolazioni centrali dello Stato, dotate di adeguate strutture amministrative e delle necessarie professionalità. E ricorda che, con sentenza del 28.1.2020 (in causa C-122/18), la Corte di giustizia dell’Unione europea ha considerato lo Stato italiano inadempiente agli obblighi discendenti dall’art. 4 della direttiva 2011/7/UE, configurandoli come “di risultato” e non “di mezzi”, ritenendo la sua responsabilità sussistente anche nei casi in cui le amministrazioni contraenti agiscano al di fuori delle loro prerogative pubblicistiche nell’ambito di una transazione commerciale, non rilevando l’eventualità che l’inadempimento sia imputabile ad un’istituzione costituzionalmente indipendente, come nel caso delle amministrazioni regionali.
La sentenza richiama “un passaggio deciso verso una cultura dei pagamenti rapidi”, considerato che quei ritardi aggravano la condizione dei creditori “i loro problemi di liquidità” e “compromettono anche la loro competitività e redditività quando tali imprese debbano ricorrere ad un finanziamento esterno a causa di detti ritardi nei pagamenti”.
Il “problema burocrazia”, dunque, costituisce da sempre la causa prima dell’inefficienza dell’azione di governo, perché i tempi dell’adozione dei provvedimenti nei quali si sostanzia la realizzazione dei programmi dell’esecutivo non è indifferente e finisce per costituire un parametro di valutazione politica dell’azione dei ministeri e, in sede elettorale, della stessa maggioranza parlamentare.
Manca, infatti, da troppo tempo alla nostra burocrazia – scrive Giulimondi – “la cultura dell’obiettivo”. Occorrerebbe “una draconiana riduzione delle leggi da redigere in modo qualitativamente migliore e, non da ultimo, mediante la digitalizzazione che riduce certamente le lunghezze procedimentali”. Non c’è dubbio, infatti, che la sovrabbondanza di leggi, che dettano regole spesso contorte e scritte male, che non tengono conto degli indirizzi interpretativi della magistratura amministrativa, è un motivo nel quale inciampano i funzionari contribuendo a quel diffuso “timore della firma” spesso segnalato nelle polemiche che coinvolgono giudice penale ed giudice contabile quando intervengono, rispettivamente, in materia di abuso d’ufficio o di danno erariale.
Giulimondi a questo punto richiama l’esigenza di una maggiore “diffusione della coscienza del valore del ‘pubblico’” che non è – precisa – “una res nullius che non appartiene a nessuno. Il “pubblico” è una propaggine della sfera privata, un’estensione del patrimonio personale fruibile anche dagli altri, una prosecuzione del privato godibile pro quota dalla comunità, sebbene con differenti disposizioni giuridiche: se getto il mozzicone di sigaretta sul selciato di una strada sporco qualche cosa che è mio oltre che degli altri; se presto servizio in un ministero devo essere consapevole che le mie determinazioni si espandono al di fuori di quelle mura, incidendo sulle esistenze di persone in carne ed ossa”.
Questa consapevolezza del valore di ciò che è “pubblico” è scarsamente diffuso nella cultura dei cittadini. E gli esempi fatti ne danno ampia dimostrazione. Purtroppo, quasi come reazione all’eccesso di enfatizzazione della sfera pubblicistica prodotta dal Fascismo, la classe politica repubblicana ha disabituato i cittadini dal rispetto per lo Stato e le istituzioni, che diventa sempre più negazione della identità di un popolo che di storia ne ha tanta, politica, culturale, artistica, della quale più essere giustamente orgoglioso. Come accade in molti paesi esteri nei quali il servizio allo stato e pubblico in generale costituisce motivo di attrazione e di orgoglio.
A questo punto l’artico di Fabrizio Giulimondi, dal quale abbiamo preso le mosse, inizia un percorso che non posso condividere, al quale, anzi, mi opporrò decisamente. È il riferimento a quella che definisce la “Grande riforma costituzionale”, un disegno di legge costituzionale (n. 889) “Modifiche alla Costituzione in tema di Stato federale e forma di governo presidenziale” d’iniziativa del Senatore Manuel Vescovi, della Lega, ed altri, presentato il 4 luglio 2020.
Dove i motivi di dissenso con il Prof. Giulimondi e il Sen. Vescovi che – scrive il nostro giurista (Giulimondi) “appone un punto fermo di natura costituzionale allo sviluppo della “Amministrazione di risultato” sorta con la legge Brunetta nel 2009”? La proposta “novellazione dell’art. 97 Cost. costituzionalizza una nuova architettura “interiore” amministrativa, non più basata sul “tempo”, sull’orario di lavoro e di servizio, ma sui risultati ottenuti entro un certo arco temporale”. Insomma, “il tempo non è più elemento strutturale del contratto lavorativo ma ne costituisce la cornice nella quale l’obiettivo deve essere attinto. Il risultato sostituisce il tempo: il primo diviene elemento essenziale del rapporto di lavoro sostituendosi al secondo, che viene depotenziato, degradato ad elemento accidentale del contratto di lavoro subordinato”. Conseguentemente l’art. 97 Cost. sarebbe così integrato: “La retribuzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni è determinata in base al merito. L’avanzamento della carriera avviene soltanto per merito e per obiettivi”.
L’“elemento strutturale – spiega Giulimondi – diviene l’obiettivo, mentre il tempo è solo un confine delimitante l’ambito di azione pubblica. Il risultato inevitabile, che costituisce anche il soffio vitale della novella costituzionale, è il merito. Non conta più il tempo trascorso in ufficio ma soltanto quanto si è prodotto e, così, il merito diviene la vera, e unica, bussola che qualifica l’azione lavorativa del dipendente, imponendosi come paradigma di valutazione dell’impegno professionale”.
Immaginate se non apprezzo la valorizzazione del merito. Ho scritto più volte che una istituzione dello Stato, cosa che vale per tutte, le civili, le militari, la magistratura, non possono che essere fondate sulla valorizzazione del risultato e, pertanto, sul riconoscimento del “merito”, cioé del lavoro svolto dagli addetti, non solo dal punto di vista quantitativo. È evidente, infatti, che la qualità del lavoro svolto determina l’efficienza dell’amministrazione, anche di quella giudiziaria, evita ricorsi al giudice amministrativo o civile, dà prestigio alle istituzioni dello Stato. Un prestigio necessario perché una comunità si riconosca nelle proprie istituzioni.
Detto questo vorrei anche sottolineare come la valorizzazione del merito non richieda una modifica della Costituzione. Esige criteri oggettivi, certamente complessi, che peraltro non devono dissuadere dal perseguimento di obiettivi di efficienza. La statistica quantitativa ci dice che un provvedimento di rilascio di un’autorizzazione di un passo carrabile e la stesura di un contratto di appalto di diritto europeo costituiscono entrambi una unità. Allora sarà necessario pesare l’importanza dei provvedimenti, procedendo dalla considerazione della complessità dei procedimenti, della normativa applicata, del rilievo giuridico degli interessi coinvolti che vanno valutati e riconosciuti. Detto così può sembrare complesso. Direi che non è certamente facile ma si deve arrivare a premiare il merito perché senza merito nessuna istituzione pubblica ha un futuro.
La riforma immaginata da Vescovi – scrive Giulimondi – “fa proprio il principio coniato dall’Università di Bologna: l’“imprenditività”. Ogni impiegato pubblico si impegna come se lavorasse per se stesso sentendosi parte di un ingranaggio, percepito come proprio, a cui si vuole fornire un contributo”. Non vorrei dispiacere il mio amico ma è la classica scoperta dell’acqua calda perché da sempre, nelle istituzioni che sanno perseguire obiettivi di efficienza, i singoli sono e si sentono parte di un ingranaggio destinato ad obiettivi virtuosi.
Acqua calda anche la proposta integrazione dell’art. 4, comma 1, Cost. inserita nella riforma Vescovi secondo il quale “in aggiunta al diritto al lavoro (qualsiasi forma e organizzazione esso possegga) la Repubblica (federale) riconosce in via autonoma anche l’esercizio dell’attività di impresa”. Sta già scritto nell’art. 41.
La Costituzione è la legge fondamentale dello Stato e va maneggiata con cura. Il diritto costituzionale comparato conosce costituzioni brevi ed uno stato, il Regno Unito, esempio insuperato di democrazia, che non ha neppure una costituzione se non qualche norma, alcune delle quali risalenti alla Magna Charta Libertatum (1215).
Tutto qui. L’articolo di Giulimondi, molto interessante per gli stimoli che immette nel dibattito ci ha consentito considerazioni a condivisione della aspettativa di una riforma che restituisca allo Stato un’immagine di efficienza nella legalità. Ma siccome questa disposizione modifica la Costituzione di una Repubblica che, per altri versi, il Sen. Vescovi vuol trasformare da unitaria in federale, e pertanto “Stati Uniti d’Italia”, voglio fin d’ora far presente ai miei lettori che sono fermamente contrario perché in questa espressione vedo la negazione del processo unificatore del Risorgimento nazionale, che è una espressione finale di un lungo percorso culturale che attraverso i secoli ha condotto le persone di cultura a desiderare che l’Italia fosse una dalle Alpi al Lilibeo. Una e unica perché l’’Italia è un paese unico al mondo per la varietà delle esperienze politiche culturali artistiche locali che sono una ricchezza del bel Paese e della stessa comunità nazionale. Per la varietà del territorio e dell’ambiente che non si identifica necessariamente nelle regioni politiche che abbiamo avuto con la Costituzione repubblicana. L’Italia e la sua storia sono nei comuni e nelle province. Se poi si vuole valorizzare l’apporto degli enti locali alla vita ed allo sviluppo delle comunità locali e della comunità nazionale sarò sempre presente. Ma se vogliamo inserire in un paese, già difficile per aver perduto da tempo il senso della identità, elementi di divisione, solamente per accarezzare la pancia di alcune aree del Paese per motivi di basse finalità elettorali, con il rischio di acuire fratture io sarò sempre contrario.
E naturalmente ne scriverò ancora.