di Salvatore Sfrecola
A me Carlo Calenda non è simpatico. A pelle, come si dice. Lo trovo arrogante, supponente, uno che parla alla gente come se avesse di fronte persone che non arrivano a comprendere quello che lui dice, certamente sulla base dell’esperienza della sua pregressa attività di manager privato. Eppure, ha preso molti voti a Roma, nelle recenti elezioni comunali, e qui bisogna dire che ha perduto l’occasione di dar vita ad un polo autonomo. Invece, si è subito schierato con il Partito Democratico per fare leggere Roberto Gualtieri, un’alleanza che ha ricercato nuovamente per le elezioni politiche.
Non mi è simpatico ma devo dare ragione a lui nella vicenda che da ultimo lo vede opposto a Enrico Letta ed alla coalizione alla quale aveva aderito a condizione, aveva chiarito, che quell’alleanza originata dalla natura della legge elettorale non avesse ricompreso Fratoianni, Bonelli e Di Maio. Una alleanza, “un patto – ha detto a Maria Teresa Meli nell’intervista che gli ha concesso sul Corriere della Sera – che di fatto rendeva la coalizione un’ammucchiata”. Lo era già, per la verità. Ma ad accentuare questa critica è stata la partecipazione di una forza politica, in particolare quella che fa capo a Nicola Fratoianni, che è mille miglia lontana dall’impostazione del governo Draghi, al quale, infatti, Sinistra Italiana ha votato sistematicamente contro, la cui caduta si addebita al Movimento 5 Stelle, da una parte, ed a Forza Italia e Lega, dall’altra.
Quindi, nonostante la necessità di aggregazione dovuta alla legge elettorale, l’idea di Calenda era condivisibile e dimostra che Letta ha cambiato le carte in tavole arruolando Nicola Fratoianni ed Angelo Bonelli. “Io penso – dice Calenda nell’intervista – che lui si sia trovato di fronte a un bivio che il Partito Democratico ha affrontato tante volte nella sua storia. Quello tra una scelta riformista o un’alleanza in cui mettere tutto e il contrario di tutto. Alla fine ha scelto questa seconda strada. E questo è stato l’errore di Letta”. In sostanza, è l’idea del Presidente di Azione, il Partito Democratico “ha sempre l’ansia di avere tutto dentro” e non ha avuto il coraggio di rappresentare i socialdemocratici. E, prosegue, il “Pd poteva scegliere tra fare l’ammucchiata “contro” e fare un progetto politico serio, alla fine ha scelto l’ammucchiata contro. E l’ammucchiata contro perderà. Non solo: non darà mai un’alternativa agli italiani. Cercare di mettere insieme tutti gli ex 5 Stelle possibili e immaginabili, noi, Fratoianni, Bonelli, è un’operazione che non puoi spiegare gli italiani. Non puoi spiegare che per difendere la Costituzione fai un patto con gente con cui sai che non governerai mai. Nessuno può comprenderlo”.
Come dargli torto, come non rilevare, e lo abbiamo scritto nei giorni scorsi, che questa alleanza ha soltanto una finalità elettorale e non prefigura, in caso di vittoria, una maggioranza di governo? È una necessità dovuta alla legge elettorale ma è certamente una limitazione come immagine nei confronti degli elettori, destinata a ridurre l’attrattiva per la coalizione perché, a fronte di una raccolta di varie opinioni in contrasto tra loro, non vi è un’offerta politica, un indirizzo politico di governo. Naturalmente è scattata immediatamente l’accusa a Calenda di essere venuto meno alla parola data e di aver, con questa iniziativa, favorito la vittoria delle destre. Argomento ripreso da tutta la stampa di sinistra da Repubblica al Domani a La Stampa. Calenda è chiaro al riguardo: “la scelta di regalare il paese alle destre l’ha fatta Enrico Letta quando si è seduto con Fratoianni e Bonelli, prima, e con Di Maio, poi, per costruire una coalizione che nessuno nell’orbe terracqueo può votare convintamente. E io penso che Letta si farà molto male”. Perché, scrive Domani, “ora Letta è costretto a essere di sinistra”. Come se l’apparenza, data dalla presenza di Calenda, contasse più della realtà rappresentata dall’arcigno Fratoianni. Non basta evidentemente un moderato liberal-progressista per offrire all’elettorato una coalizione sinistra “ma non troppo”.
Calenda se ne va e svanisce l’equivoco di un’ammucchiata dove essendoci di tutto sarebbe stato possibile presentare all’elettorato via via il veterocomunista, il riformista, l’europeista e il liberale per cercare di limitare gli effetti di un esito elettorale che “appare scritto”, come sostiene Ilvo Diamanti su Repubblica, sulla base dei principali sondaggi, compreso quello condotto da Demos proprio per il giornale diretto da Maurizio Molinari.
Da parte sua Letta parla con La Stampa, intervistato da Annalisa Cuzzocrea, con una buona dose di acredine, certo comprensibile, nei confronti del leader di Azione che accusa di fare “un regalo alla destra”. Calenda aveva detto che non è comprensibile il tipo di aggregazione promosso da Letta e questi ribalta l’accusa. E, di fronte alla richiesta se abbia capito “le ragioni di questo passo indietro” risponde “No, non ho capito e non credo siano facilmente comprensibili, ma mi sento di poter dire che Calenda può stare, secondo quello che lui stesso ha detto, solo in un partito che guida lui, in una coalizione di cui è il solo leader e in cui non ci sia nessun altro”.
Il Segretario del PD non può credere veramente che quella di Calenda sia un’alzata d’ingegno, che abbia realmente mancato alla parola data solo cinque giorni prima, perché tutti coloro che in questi giorni hanno seguito i dibattiti televisivi e le dichiarazioni dei leader ricorderanno che Calenda aveva delimitato il “perimetro”, come va di moda dire oggi, dell’alleanza precisando che non avrebbe dovuto ospitare quanti avevano votato contro il governo Draghi provocandone la caduta, il Movimento 5 Stelle e Sinistra Italiana di Fratoianni. Non è, dunque, Calenda che è venuto meno all’impegno assunto, è Letta che ha voluto forzare la mano immaginando che, proprio in ragione del sistema elettorale e della promessa di alcuni seggi, il leader di Azione non avrebbe reagito all’estensione della coalizione. Adesso potrebbe cambiare lo scenario al centro, ove Calenda si alleasse con Matteo Renzi. Tuttavia, una cosa è certa: sull’esito delle elezioni, come prefigurato dai sondaggi, è difficile immaginare che Letta, Calenda o Renzi possano influire. Ma continueranno, insieme all’avvocato Giuseppe Conte, a rinfacciarsi errori di strategia fino al 25 settembre quando le urne diranno come gli italiani giudicano la politica dell’ultima legislatura e dei tre governi che hanno gestito pandemia, il conseguente grave disagio economico e sociale e la crisi bellica. Figure politiche modeste, come quelle che Vincenzo De Luca, Presidente della Regione Campania, chiama “personaggetti”.