di Salvatore Sfrecola
Non c’è notiziario e dibattito che in TV trascuri di evocare il “pericolo” dell’esercizio provvisorio del bilancio, ove il relativo disegno di legge non venga approvato entro il 31 dicembre. Anche i giornali seguono questo copione. Il “rischio” dell’esercizio provvisorio è sulla bocca e nella penna di tutti. Che evidentemente hanno studiato poco, di storia e di diritto. Di storia, perché si è ricorsi spesso in passato all’esercizio provvisorio del bilancio e non è mai stato un dramma. Di diritto, perché, se è vero che il bilancio di previsione per il prossimo esercizio finanziario andrebbe approvato prima che inizi il nuovo anno, ove ciò non fosse possibile la Costituzione, all’articolo 81, comma 5, prevede che con legge, e solo per un periodo non superiore a quattro mesi, si provveda alla gestione provvisoria del bilancio non approvato entro il 31 dicembre. Nel nostro caso il bilancio 2023, non il bilancio 2022, come qualcuno ha scritto in questi giorni, forse ricordando che un tempo la prassi era questa. Poi si è riflettuto e nella legge che autorizza l’esercizio provvisorio si può stabilire di riferirsi al bilancio in corso di approvazione, cosa logica perché corrisponde alle esigenze nuove, come individuate dal Governo. In ogni caso, essendo il bilancio triennale, esiste una previsione per l’anno per il quale si attua l’esercizio provvisorio.
Nel periodo per il quale è autorizzato l’esercizio provvisorio, che potrebbe riguardare anche solamente un mese o due, la gestione del bilancio, per la competenza e la cassa, è consentita per tanti dodicesimi della spesa prevista da ciascuna unità di bilancio quanti sono i mesi dell’esercizio autorizzato, ovvero nei limiti della maggiore spesa necessaria, qualora si tratti di spesa obbligatoria e non suscettibile di impegno di pagamenti frazionati in dodicesimi. Ora nessuno può onestamente dire che l’esercizio provvisorio, con queste caratteristiche, costituisca un danno per l’economia e per il Paese.
È vero che in regime di esercizio provvisorio della legge di bilancio, che ha inglobato negli ultimi anni quella che un tempo era la “legge finanziaria” e poi la “legge di stabilità”, cioè la normativa che modifica il sistema delle leggi che incidono sul bilancio, non entrerebbero in vigore dal 1° gennaio le norme tributarie e quelle ordinamentali, ma è anche vero che, a fronte di un ritardo di un mese o due, avremmo il pieno rispetto del ruolo del Parlamento. E comunque le norme tributarie potrebbero ugualmente entrare in vigore dal 1° gennaio una volta approvato definitivamente il bilancio, in assenza di un divieto di irretroattività.
Che poi la discussione sulla legge di bilancio vada a rilento in alcuni casi e non consenta l’approvazione entro il 31 dicembre è un fatto che dipende dalla capacità dei gruppi parlamentari di dominare e regolamentare l’intervento dei propri rappresentanti nel dibattito in commissione e in aula. Quel che preme sottolineare è che la democrazia esige il libero dispiegarsi dell’attività dei rappresentanti del popolo. Un valore che si va perdendo da tempo e che l’emergenza covid ha accentuato. Nel silenzio dei paludati “custodi” della Costituzione che discettano a destra e a manca di “diritti” spesso fantasiosi o opinabili, trascurando che le regole del sistema parlamentare sono l’essenza stessa della democrazia.
È assolutamente certo che Camera e Senato riusciranno ad approvare il bilancio di previsione dello Stato per l’esercizio finanziario 2023 entro il 31 dicembre 2022. Con affanno e chiudendo la discussione con l’approvazione di una “mozione di fiducia” posta dal governo, il che significa impossibilità di emendare il testo. Con mortificazione della democrazia parlamentare che vede nell’approvazione del bilancio, cioè nel piano annuale, con proiezione triennale (2023-2025), la definizione delle politiche pubbliche, atto fondamentale dello Stato. Ed è, appunto, ad imitazione di quel che avviene in altri ordinamenti che da alcuni anni i regolamenti parlamentari prevedono un’apposita “sessione di bilancio”, che è quello spazio di tempo nel quale deputati e senatori si concentrano sulla definizione dei documenti finanziari.
Diceva il Conte di Cavour, “datemi un bilancio ben fatto e vi dirò come un paese è governato”. Il Governo Meloni ha avuto poco tempo e le decisioni che è stato chiamato ad adottare hanno risentito soprattutto dell’emergenza bollette, per cui ha dovuto limitare le “novità” a pochi ritocchi dei capitoli di spesa e di entrata, rinviando al prossimo anno, cioè di qualche mese, una più profonda revisione dell’intero bilancio per trasferire in quelle cifre il programma elettorale condiviso dagli elettori. Avrebbe potuto farlo fin d’ora giustificando l’esercizio provvisorio con la necessità di rivedere i conti del governo Draghi. Invece li ha fatti propri, con qualche ritocchino. Una scelta che rinvia nel tempo una più adeguata revisione delle politiche di bilancio. Del resto, avendo imbarcato gli staff dei precedenti governi, nessun suggerimento innovativo con un minimo di coraggio poteva venire dalle strutture ministeriali.
Il compito che attende Giorgia Meloni è, dunque, molto impegnativo. Un bilancio di oltre mille miliardi di spese prevede certamente impegni necessari ma anche taluni inutili o eccessivi. Ognuno di questi ha un destinatario politicamente sorretto dai partiti o da esponenti forti di partiti, al centro e nelle regioni. Riordinare la spesa e contestualmente rivedere le entrate tributarie è un’opera immane. Occorrerebbe il già ricordato Conte di Cavour, il più grande statista che l’Europa abbia conosciuto nel corso dell’800. Mario Draghi lo richiamava spesso. Ma anche lui, che di conti certo se ne intende, non è riuscito ad imitarlo.