sabato, Novembre 23, 2024
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Una scuola da reinventare

di Salvatore Sfrecola

“La scuola è peggiorata grazie al Sessantotto”. C’è da scommettere che, fin dal titolo, il pezzo di Giuseppe Valditara, Ministro dell’Istruzione e del merito, su Libero di ieri farà discutere molto, anche se quella data è nella mente di tutti come uno spartiacque nella scuola, ora certificato, perché il Ministro prende le mosse da una valutazione di Bankitalia secondo la quale l’“ascensore sociale” si sarebbe bloccato a metà degli anni 70. In sostanza la scuola, che ha sempre avuto la funzione, attraverso una preparazione adeguata alle esigenze di formazione culturale, in vista degli studi universitari o di esperienze professionali, di favorire gli appartenenti a famiglie modeste, il cosiddetto “ascensore sociale”, appunto, ha tradito il suo ruolo ed è diventata, al contrario, “classista”. Perché non diversamente potrebbe qualificarsi una scuola che, attraverso la modesta preparazione che assicura ai discenti, di fatto favorisce soltanto chi completa la formazione fuori delle aule scolastiche, per una speciale predisposizione personale agli studi oppure perché seguito in famiglia attraverso la disponibilità la sollecitazione di persone di cultura, nonni, genitori, fratelli.

Per la verità il tema è stato dibattuto a lungo e l’analisi alla quale il Ministro Valditara si riferisce è certamente condivisa da tempo ad una semplice osservazione che potrebbe fare chiunque di noi, procedendo dalla considerazione del livello di impegno negli studi che gli è stato richiesto solamente qualche anno fa, messo a confronto con la scuola dei propri genitori, quella dei propri figli e dei propri nipoti. A mio padre, al liceo classico, si chiedeva di tradurre dal greco al latino, io al liceo Tasso di Roma dovevo faticare per prendere un sei o un sette e spesso quel voto era il più alto della classe, che pure era considerata eccellente. Mio padre ed i suoi compagni di liceo hanno raggiunto posizioni professionali elevate, ugualmente è accaduto ai miei colleghi. Insomma, quello studio, con quelle difficoltà non è stato inutile.

Eravamo prima del ‘68. Da allora il livello di impegno è progressivamente calato. Perché, inevitabilmente, molti dei laureati con il diciotto politico sono divenuti professori i quali hanno allevato altri ancora meno preparati, a loro volta divenuti professori o comunque professionisti. Non a caso qualche anno fa seicento professori di università segnalarono al Ministro dell’istruzione che nelle tesi di laurea si trovavano frequentemente errori di grammatica non ammissibili in terza elementare. Il che significa che nel corso degli studi, in ben tredici anni, è stata trascurata la lingua italiana, una materia, ho scritto più volte, che non è importante solamente per i letterati. Anche uno scienziato sarà chiamato a predisporre una relazione, a proporre un progetto che sarà apprezzato tanto più per il suo valore scientifico quanto meglio sarà presentato e illustrato. Così, un colloquio di lavoro avrà un esito positivo a seconda del modo con i quale il candidato si presenta, come parla e come espone le sue aspettative di lavoro e di sviluppo della carriera.

Non c’è dubbio che la scuola ha perduto il livello di eccellenza che aveva un tempo. E quindi il ‘68 effettivamente è un momento di passaggio perché la promozione facile ha prodotto una generalizzata riduzione del livello di preparazione. Ne parlo spesso con un mio amico il quale sostiene che la scuola di massa, quella che conosciamo oggi, non può mantenere lo stesso livello di preparazione della scuola di mio nonno o di mio padre, nella quale studiavano poche persone. La tesi non mi convince. In particolare, perché una scuola aperta a tutti non possa essere, allo stesso tempo, formativa e capace di assicurare quella base culturale che è necessaria per le professioni. E mi chiedo che senso ha oggi non prevedere prove di italiano, i temi o gli elaborati o come altro vogliamo chiamarli secondo l’italica abitudine di cambiare continuamente le definizioni. Forse che si può imparare diversamente la lingua se non scrivendone ed esponendo per iscritto idee e valutazioni dei fatti, dando sfogo alla fantasia, o esprimendo le sensazioni che si sono provate alla lettura di un brano di un romanzo o di una poesia? Le poesie, ad esempio, non si studiano e soprattutto non s’imparano a memoria, trascurando che quell’esercizio si accompagnava al momento della “recita”, quando lo studente impara ad esprimersi in pubblico di fronte al docente ed ai colleghi, come dovrà fare nella vita quando si presenterà per farsi apprezzare in un colloquio professionale. Non si fanno più i riassunti, che erano un esercizio importante per predisporre lo studente ad imparare l’importanza della sintesi, di saper presentare in poche righe un documento come probabilmente molti dovranno fare nel corso della loro vita di lavoro. Qualche esempio solo tra i più evidenti di “innovazioni” che non mi convincono, mentre è certamente importante il collegamento che oggi si fa tra alcuni aspetti della storia e della geografia, considerato che la vita dei popoli è condizionata per molti aspetti dall’ambiente. Come dimostrano le migrazioni, non solamente di oggi.

Il Ministro Valditara, nel suo articolo, ritiene che tre siano i dogmi rivelatisi sessantottini nefasti: “il disconoscimento dell’autorità; un egualitarismo che sta a fondamento del principio noto come dell’uno vale uno, l’opposto del principio costituzionale di uguaglianza, che presuppone trattamenti diseguali per situazioni diseguali e che non disconosce il merito; la teoria della liberazione”. 

È evidente che la crisi dell’autorità dipende dalla scarsa autorevolezza dei docenti che, pertanto, vengono spesso contestati dagli stessi studenti e dalle loro famiglie, come sappiamo dalle cronache. Noi percepivamo il valore professionale dei nostri professori e stavamo di fronte a loro (molti ci davano del lei) con l’umiltà di chi deve imparare da chi ne sa di più. Di presso alla crisi dell’autorevolezza dilaga l’egualitarismo che mette sullo stesso piano chi insegna e chi è a scuola per imparare.

Ed a questo proposito, poiché siamo sempre pronti a fare confronti con l’estero o con quello che riteniamo avvenga all’estero, sono andato curiosare tra i programmi di una scuola di eccellenza nel Regno Unito. Lo spunto me lo ha dato una famosa battuta di Sir Antony Eden, Primo Ministro di Sua Maestà, che volendo spiegare perché, a suo giudizio, il governo che lui presiedeva fosse tra i migliori della storia recente disse che la ragione stava nel fatto che ben sette dei suoi ministri, come lui, avevano studiato nel prestigioso Eton College che dal 1440, anno in cui fu costituito per volere di Enrico VI, con il nome di King’s College of Our Lady of Eton beside Windsor, ha formato e istruito un gran numero di artisti, celebrità, scrittori, uomini politici e membri della famiglia reale. E così sono andato a controllare quali sono oggi le materie oggetto di studio. Sono varie, e spaziano dal campo umanistico a quello scientifico: matematica, biologia, chimica, fisica, informatica, latino, greco, storia, geografia, storia dell’arte, economia, lingue straniere moderne. Ampio risalto viene dato anche alle attività extra-curriculari, come teatro, musica e sport. Il rapporto fra allievi e insegnanti è di 8:1, basso rispetto alla media delle scuole inglesi. Le classi contano venti-venticinque alunni nel primo anno, e scendono spesso sotto i dieci allievi nell’ultimo anno.

Il richiamo all’esperienza dell’esclusivo collegio inglese non vuol essere un esempio da imitare tout court ma un riferimento sul quale riflettere e che ci dice che la scuola va riformata, a partire dalle elementari. Ed è urgente.

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