di Salvatore Sfrecola
Abbiamo ancora nell’orecchio l’anatema di Giorgia Meloni sul ”pizzo di Stato”, inteso come imposta gravosa che riduce i guadagni dei piccoli operatori economici, quelli, per intenderci, che non rilasciano lo scontrino o la ricevuta, il barista, il ristoratore, il titolare dello stabilimento balneare, il solito idraulico o il tecnico della lavatrice o della lavastoviglie in panne. Per la Presidente del Consiglio l’evasione fiscale non è quella degli scontrini e delle ricevute che a milioni non vengono rilasciate, ma quella delle grandi banche, delle compagnie di assicurazione, delle grandi finanziarie, dimostrando di ignorare che lì, al più, si annida l’elusione perché le dimensioni di quegli operatori economici prevedono controlli interni e certificazioni dei bilanci.
In ogni caso quel che voleva dire Giorgia Meloni, in realtà, è che il fisco è pesante per molti operatori economici medi e piccoli. Ma se questo è vero, e lo è certamente, il Presidente del Consiglio deve promuovere una revisione delle aliquote che non dissuada chi vuole intraprendere una attività commerciale o professionale, avendo presente la realtà della riscossione delle imposte alla quale contribuiscono per oltre i due terzi lavoratori dipendenti e pensionati. Cosa nota da tempo e oggetto di generiche enunciazioni elettorali, dimenticate il giorno dopo da chi governa e da chi è all’opposizione. Perché, da tenere a mente, tutti i partiti politici hanno una loro quota di evasori da difendere in nome del consenso. Grandi, medi e piccoli, categorie alle quali, invece di offrire una riforma seria vengono elargiti condoni variamente definiti, da ultimo “rottamazioni”, termine che vorrebbe edulcorare l’ignobile scelta politica di premiare i furbetti dello scontrino alla faccia di lavoratori e pensionati ai quali mese dopo mese il fisco sottrae somme rilevanti. Non è questo il vero “pizzo” del quale parlava la Meloni?
Ebbene, questo meccanismo perverso è stato messo in risalto nuovamente dalla Corte dei conti, la magistratura alla quale lo Stato ha affidato, fin dall’unificazione nazionale, il compito di vigilare sulla riscossione delle entrate. E così, richiamando i dati di un lungo periodo, proprio nei giorni scorsi, in occasione del giudizio sul Rendiconto generale dello Stato, la Corte ha denunciato il fallimento del fisco nella gestione degli ultimi governi, da quello presieduto da Matteo Renzi, ai giallo-verdi e giallo-rossi di Giuseppe Conte e Mario Draghi, un’eredità pesante per il Governo di Centrodestra che in materia di fisco ha annunciato in campagna elettorale significative riforma, genericamente presentate ma comunque rimaste nel limbo delle buone intenzioni.
I conti dello Stato, infatti, sono fortemente rigidi. La spesa è rilevante, alimenta tante produzioni di beni e servizi in capo ad imprese che sempre hanno uno sponsor politico, e pertanto difficilmente comprimibile. Ridurre le imposte significherebbe disporre di minori risorse per la spesa ed è difficile immaginare che, in tempi brevi, minori imposte possano mantenere il gettito necessario alla spesa corrente e d’investimento in ragione della sperata riduzione dell’evasione che si addebita al carico fiscale elevato.
Infatti, mancano risorse. È quel che dice la Magistratura contabile per bocca delle Sezioni Riunite che riferiscono al Parlamento sulla gestione del bilancio del 2022 facendo il punto su un lungo periodo nel quale, una rateizzazione dopo l’altra, ha trasformato l’Agenzia delle Entrate-Riscossione in una finanziaria che concede prestiti ad “una massa di debitori a elevato rischio di inesigibilità“. Pertanto con esito definito fallimentare perché, nella migliore delle ipotesi, l’erario incassa metà del previsto. Le riscossioni, infatti, giungono a poco più del 13%: 170 miliardi su oltre 1.200, tra il 2000 e il 2022. Un quadro di “grave difficoltà“ per la Corte che la induce a ribadire l’esigenza di “abbandonare definitivamente il ricorso a provvedimenti che, oltre ad incidere negativamente in termini equitativi e sul contributo di ciascuno al finanziamento dei servizi pubblici, rischiano di comportare ulteriori iniquità”. Un giudizio negativo che sottolinea, nelle parole del Procuratore Generale, Angelo Canale, come “la politica dei condoni mina alla radice la credibilità del sistema, sottraendo alle imposte il loro significato di strumento democratico di finanziamento della cosa pubblica: premiando proporzionalmente di più chi maggiormente si rende attore di condotte evasive, vengono indotti anche i contribuenti onesti ad adeguarsi a tale illegittimo modus operandi”.
La relazione della Corte segnala il dato sulle rateazioni concesse fino al gennaio 2023 (prima, dunque, della rottamazione quater prevista dall’attuale Governo): 4,7 milioni di istanze per un valore di 45,4 miliardi, 13,6 in più rispetto ad inizio 2022. Numeri eloquenti che smentiscono la narrazione che dice di piccoli debiti, di cartelle per multe arretrate (peraltro soggette a periodici annullamenti) e simili: infatti, più del 47% degli importi rateizzati supera i 100mila euro, solo l’8% è sotto i 5mila. Aggiungasi che l’accesso a sanatorie e rateazioni non è subordinato a valutazioni sulla effettiva condizione di difficoltà del contribuente. Nota il Procuratore Canale nella sua memoria depositata nel giudizio: “La possibilità di adempimento differito viene offerta a tutti, indipendentemente dalla loro capacità contributiva”. Inoltre, se è vero che “una quota rilevante del volume annuo di riscossione deriva dai piani di pagamento rateali”, il bilancio finale è però sempre in perdita per lo Stato. E non solo perché spesso le rateizzazioni prevedono l’annullamento di sanzioni e interessi di mora. Il punto è che molti pagano qualche rata e poi smettono.
È un flop continuo. La prima “rottamazione”, del 2016 (Governo Renzi), ha raccolto da 1,4 milioni di contribuenti debitori per 31,2 miliardi solo 8,3 miliardi contro i 17,7 attesi. La bis del 2017 del Governo Gentiloni, che ha consentito di chiudere i conti sulle cartelle non ammesse alla precedente tornata e sui nuovi debiti accumulati nel frattempo, ha portato in cassa solo 2,8miliardi sugli 8,5 previsti (a fronte di debiti lordi per 14,1 miliardi). La rottamazione ter dal Conte1 (giallo-verde), che offriva la possibilità di rateizzare il debito su 5 anni, ha visto la risposta di 1,4 milioni di contribuenti per un valore lordo di ben 43,5 miliardi e un introito di 8,6 miliardi rispetto ai 26,3 previsti. Migliore il risultato del saldo a stralcio del 2019, riservato a chi avesse Isee sotto i 20mila euro: sono stati recuperati 689 milioni su 1,2 miliardi previsti.
A commento di questi dati il Procuratore Canale sottolinea che “i contribuenti che adempiono tempestivamente e spesso con grandi sacrifici non soltanto non sono premiati, ma si vengono a trovare in posizione deteriore rispetto ai soggetti inadempienti, che possono comodamente pagare a distanza di molti anni dalla scadenza del termine e senza alcuna conseguenza”. Un “sistema perverso che si autoalimenta”, secondo l’alto magistrato. “Più i contribuenti sono consapevoli di una sostanziale impunità fiscale, tramite cancellazioni o condoni, più si allarga la platea degli evasori parziali o totali, o comunque di coloro che, a seguito delle possibilità offerte dallo stesso legislatore, adempiono in ritardo e senza corrispondere né interessi, né sanzioni”. Un circolo vizioso che rischia di allontanare i risultati previsti dal Recovery plan, in termini di riduzione della distanza tra le imposte pagate e quelle effettivamente dovute.
Il Governo Meloni ha previsto una riforma, nella delega fiscale all’esame del Parlamento. Tra le proposte, i decreti attuativi dovranno disporre il discarico automatico al 31 dicembre del quinto anno successivo a quello dell’affidamento delle quote non riscosse, anche se con possibilità per l’ente creditore di riaffidarle, se emergono “nuovi e significativi elementi reddituali o patrimoniali”.
Si tratta di una scelta già in passato censurata dalla Corte dei conti che l’aveva definita “una eventualità da scongiurare, che altererebbe radicalmente il sistema di gestione dei tributi fondato sull’adempimento spontaneo e nel quale la riscossione coattiva delle somme ancora dovute costituisce complemento imprescindibile“.
Nel frattempo, la lotta all’evasione segna il passo. L’Agenzia delle Entrate, vittima dell’assurdo blocco del turnover che a fine 2022 denunciava la mancanza di oltre 16mila posti, assumerà nuovi funzionari, poco più di 3mila, che avranno bisogno di adeguata formazione. Quella che forse manca anche a chi è in servizio se nel 2022, riferisce la Corte, gli accertamenti ordinari sono stati poco più di 189mila, inferiori ai livelli del 2019 quando gli accessi brevi, i controlli mirati e le verifiche sul posto erano stati oltre 28mila, tre volte i 9.580 del 2022. Uguale deficit hanno rivelato gli accertamenti parziali automatizzati che non hanno raggiunto i livelli pre pandemia, fermandosi a meno di 178mila. Come la maggiore imposta accertata, che è stata di 16,3 miliardi complessivi contro 17,9 del 2019. Fanno eccezione i controlli sostanziali sulle dieci categorie di attività in cui ricadono più contribuenti: quelli sono aumentati. Ma per i contribuenti in difetto la probabilità di subirne uno resta modesta: supera il 5% solo per le costruzioni e gli intermediari del commercio, si ferma al 2,9% per i ristoranti, al 3,1% per bar e gelaterie, al 2,5% per gli studi medici.
In barba dell’effetto deterrenza affidato ai controlli.