sabato, Novembre 23, 2024
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La Democrazia Cristiana nei ricordi di Filippo de Jorio

di Salvatore Sfrecola

Sulla Democrazia Cristiana hanno scritto in molti, ma ora giunge nelle librerie un libro particolare, “Democrazia Cristiana, dal l’apogeo, alla decadenza, all’epilogo – ricordi e segreti di tempi migliori per l’Italia e per noi” (Pagine editore, Roma, 2023, I libri del Borghese, pp. 180, € 18,00), scritto dal professor Filippo de Jorio, avvocato, docente di diritto amministrativo e tributario, consulente giuridico di molte imprese pubbliche e private, parlamentare regionale del Lazio per la Democrazia Cristiana per tre legislature, stretto collaboratore di Mariano Rumor, Giulio Andreotti e Arnaldo Forlani. Con i primi due ha svolto funzioni di portavoce. Ha lasciato la Democrazia Cristiana in polemica con Ciriaco De Mita esprimendo così il suo dissenso rispetto alla linea dell’allora Segretario della DC e Presidente del Consiglio che portò alla fine del partito. È stato membro del Comitato economico sociale dell’Unione Europea a Bruxelles, autore in quella sede dell’inchiesta europea sulle pensioni. Ha firmato centinaia di articoli, di saggi e di studi sulle più importanti riviste giuridiche italiane e straniere e scritto numerosi libri. Famoso quello, sempre per Pagine, sul rapimento e l’assassinio di Aldo Moro. Presidente della Fondazione de Jorio il Professore vanta anche una intensa attività forense che lo ha portato a ottenere importanti pronunce della Cassazione, del Consiglio di Stato e della Corte dei conti.

L’importanza di questo libro sta nel fatto che è scritto da un “politico” del tutto particolare, un professionista, impegnato sui temi fondamentali del cittadino, come l’ambiente e quindi sensibile agli umori dell’elettorato per cui afferma che “un italiano su quattro vuole la ricostituzione del partito cattolico”. Giurista di vaglia, erede di una illustre famiglia napoletana che ha prestato servizio nelle istituzioni del Regno delle due Sicilie, di quella nobiltà di toga che faceva della classe dirigente napoletana un esempio non frequente nell’Italia preunitaria, se si esclude la classe dirigente del Regno di Sardegna. Per questo non ci racconta una storia ufficiale ma “una rievocazione il più possibile fedele alla verità di quelli che furono gli ideali, i sentimenti, le motivazioni politiche che sottesero la “nostra” Democrazia Cristiana, quella che nacque con Don Sturzo, entrò in agonia con l’avvento al potere di Ciriaco Di Mita e, definitivamente, ebbe il suo epicedio e quindi la sua morte dichiarata, con l’ultimo segretario, Mino Martinazzoli, che ne volle cambiare il nome in quello di Partito Popolare, rinunciando implicitamente ad un cinquantennio di tradizione e di storia del movimento cattolico. Egli assurdamente – e non fu il solo – incoraggiò molto, questo quasi unanime “cupio dissolvi”, con l’esortazione a modificare il nome del partito (rinnegandolo nella sostanza) in quello antico e glorioso, ma di certo quasi dimenticato, di Partito Popolare Italiano”.

Era il 21 giugno 2020, in piena pandemia, ricorda de Jorio, quando, riandando al centenario dell’appello di don Luigi Sturzo ai cattolici italiani, ai “liberi e forti” con cui egli diede avvio alla pur breve esperienza del Partito Popolare Italiano che il Nostro pensò di scrivere questo libro, ricordando che quell’appello era tornato alla mente dei politici alla fine della seconda guerra mondiale quando l’Italia doveva rialzarsi dallo sfacelo della guerra e dalla crisi politica e morale del ventennio fascista. Quell’appello, sottolinea de Jorio, fu all’origine della nascita della Democrazia Cristiana già nell’ultima fase della guerra. Lì furono gli ideali che fecero breccia fra gli italiani e diedero alla Democrazia Cristiana un successo che le consentì di governare per molti anni con una classe dirigente di valore, con esperienze politiche e professionali rilevanti, basti pensare che designava ministri prevalentemente docenti universitari, come Antonio Segni, Aldo Moro Amintore Fanfani, sensibili ad un impegno sociale, sollecitato anche dalla “vigile presenza della Chiesa” nella vita pubblica, con l’attenzione ai giovani e alle loro legittime aspirazioni nella società che andava cambiando rapidamente.

Quella Democrazia Cristiana nella quale, ricorda de Jorio, ”c’era una sorta di culto dell’unanimità da parte dei dirigenti più avveduti” cambiò con “la presa di potere” di De Mita, portatore di una politica molto diversa che, scrive, “fu in qualche modo l’antesignano, per i suoi metodi, del peggio di quello che ha connotato la “Seconda Repubblica”, anche soprattutto in termini di scollamento tra politica e istanze dei cittadini di cui la classe dirigente doveva invece tener conto, oltre ad essere chiamata a farsene interprete”.

I ricordi di de Jorio si snodano lungo gli anni, cominciando dalla “subalternità ideologica alla cultura e alle tesi della sinistra, come se essa fosse l’unica depositaria di una “verità rivelata” su tanti temi, e quindi che il partito dei cattolici dovesse in qualche modo di questo tener conto e imparare qualcosa da loro”. Molto “radicata e profonda” questa mentalità costituiva una “palla al piede” della Democrazia Cristiana, “errore grossolano perché la dottrina sociale della Chiesa aveva risolto molto prima dell’estrema sinistra i problemi sociali, dettando le opportune soluzioni da dare ad essi”. È un passaggio molto importante nel libro del professor de Jorio perché questa “subalternità”, questa “propinquità con l’estrema sinistra intrattenuta nel corso dell’esperienza del Comitato di Liberazione Nazionale” avrebbe nel tempo pesato fino a dissolvere lo spirito originario del partito dei cattolici. E richiama in proposito la “cocciutaggine” di Alcide De Gasperi che mentre dimostrava “molta indulgenza nei confronti dei crimini commessi dopo la “liberazione” contro avversari politici o presunti “fascisti” dimostrò “astio del tutto inspiegabile nei confronti dei profughi che venivano dall’Istria o dalla Dalmazia, e che invece avrebbero meritato tutto il suo più grande rispetto”. Concludendo che in ragione di questa mentalità De Gasperi, dopo il successo del 18 Aprile 1948, “dimostrò più ostilità nei confronti delle destre che nei confronti dei comunisti”. Tanto che, di fronte al desiderio di Pio XII, coadiuvato dal cardinale Ottaviani, da Don Luigi Sturzo e da Riccardo Lombardi, di fare presentare a Roma, alle elezioni comunali, una lista unitaria anticomunista che comprendesse anche le destre – De Gasperi reagì in maniera scomposta e disobbedì al Papa, benché anche il fondatore del Partito Popolare, e quindi colui che incarnava la matrice storica da cui proveniva la Democrazia Cristiana, Don Luigi Sturzo, lo avesse pregato di rispettare la volontà del Pontefice. La risposta del Presidente del Consiglio- scrive de Jorio – fu apertamente ostile, quasi rabbiosa, e determinò il fallimento di quello che era stato un grande progetto di Pio XII, che vedeva sempre lontano”. Ed esprime la convinzione che “Pio XII salvò l’Italia dal comunismo” e che “se Alcide De Gasperi lo avesse seguito e gli avesse ubbidito nel 1952 la storia d’Italia sarebbe stata diversa”.

De Jorio non risparmia critiche vivaci e puntuali a De Gasperi a cominciare dalla posizione assunta al tempo del referendum del 2 giugno 1946, per la scelta tra Monarchia e Repubblica, condividendo la tesi, ormai diffusa tra gli storici, che gli esiti della consultazione elettorale siano stati “falsati”, sia il successiva ostilità all’appoggio delle destre la monarchica e la missina che lo portarono a scelte che non consentirono di consolidare il monocolore successivo alle elezioni legislative del 1953, per cui il governo De Gasperi cadde e lo statista trentino perse anche la segreteria politica del partito passata ad Amintore Fanfani.

Il libro passa in rassegna i successivi governi, quello di Adone Zoli, di Mario Scelba, di Fernando Tambroni, Emilio Colombo, in tempi sempre più difficili per la Democrazia Cristiana che aveva perduto molto dello spirito originario della cultura liberal-cattolica che aveva delineato Don Sturzo. Poi seguono importanti capitoli su Mariano Rumor, Flaminio Piccoli e Toni Bisaglia. Del primo de Jorio è stato stretto collaboratore, come inizialmente di Giulio Andreotti nei suoi primi due governi, dei sette che avrebbero caratterizzato il parlamentare romano. De Jorio torna sulla sua esperienza a Palazzo Chigi con il compito di tenere i contatti con i grandi elettori di Giulio Andreotti attraverso una struttura ramificata di sezioni che dimostrarono la loro importanza nelle elezioni del 1972, il 7 di maggio, quando il consenso nei confronti di Andreotti fu “plebiscitario”. E qui ricorda di essere stato destinatario di una somma notevole per l’epoca, 10 milioni, della cui utilizzazione poi fornì un dettagliato rendiconto, che Andreotti gli aveva detto “vengono dai nostri amici siciliani”. In questo periodo la collaborazione con Andreotti si consolida fino a quando il suo “andare a sinistra” ruppe l’incantesimo di una collaborazione che aveva avuto momenti di straordinario successo politico, personale con risvolti anche professionali.

Ma andare a sinistra non poteva Filippo de Jorio, che aveva sempre militato nella destra cattolica, vicino alla Chiesa che quindi non poteva condividere l’“avvicinamento” di Andreotti al Partito Comunista in questo contesto. E racconta come alcuni collaboratori di Andreotti si interessarono del presunto “golpe” di Junio Valerio Borghese alla cui scoperta “lavorarono sodo e sporco per dare vita ad una “leggenda” – che sopravvive ancora oggi nel “Pantheon” della sinistra – nonostante numerose sentenze abbiano smentito, in maniera definitiva, qualsivoglia ipotetico tentativo di colpo di Stato”. Qui il racconto si fa stringente e particolarmente interessante perché de Jorio ricorda di essere stato destinatario di un “avviso di garanzia” e di essere stato interrogato dal giudice istruttore, al quale si era spontaneamente presentato, il quale gli disse: “ma su che cosa io dovrei interrogarla non saprei, lei non ha fatto nulla; è tutta una macchinazione politica nei suoi confronti”. De Jorio, quindi, prende carta e penna e scrive un articolo “Il Giuda è tra noi”, pubblicato da Il Borghese e Il Giornale d’Italia nel quale denunciava il “tradimento” di Andreotti. A breve l’avviso di garanzia diviene un mandato di cattura al quale de Iorio si sottrae perché consigliato “di andare a fare un bel viaggio in Europa”. Era il 30 giugno 1975. De Jorio sale sulla sua barca, pronta a Fiumicino per la pesca d’altura, e fa rotta verso Bastia in Corsica, per poi dirigersi a Montecarlo dove vende lo yacht per procurarsi di che vivere. “Le persecuzioni di Vitalone nei miei confronti – scrive -, per ordini ricevuti, non si arrestarono, egli voleva assolutamente il mio ‘scalpo’”. Di cui è prova il mandato di cattura internazionale, con richiesta di estradizione sia alla Francia che al Principato di Monaco. Entrambi rifiutarono. Ospite del Principe Ranieri – scrive de Jorio – mi fece sapere “finché sarà nostro gradito ospite, nessuno potrà farle del male!”

Un racconto avvincente, inedito di uno dei “segreti”, come nel titolo del libro, di una certa Democrazia Cristiana. E racconta dell’entourage di Andreotti di cui ha già scritto ne “L’albero delle mele marce”: “si circondò di persone che non potrebbero definirsi né brave, né capaci”.

L’assassinio di Aldo Moro e la sua profezia sulla fine della Democrazia Cristiana nella lettera a Cossiga è un capitolo centrale nella ricostruzione e nel ricordo di quei fatti drammatici, un tema al quale, come ho ricordato, Filippo de Jorio ha dedicato un libro di grande successo. Che accusa di insensibilità alcuni esponenti della Democrazia Cristiana anche emersi nei suoi rapporti con alcune personalità dell’entourage dello statista pugliese, come con il Professor Raniero Benedetto.

Il libro è una galoppata tra fatti noti e meno noti dei quali, con un linguaggio sempre molto chiaro ed efficace, da avvocato abituato a convincere, de Jorio ricostruisce le vicende che ruotano intorno al sequestro e dalla morte di Moro. È un libro tutto da leggere che rivela estremo interesse perché proviene da un osservatorio privilegiato, quello nel quale l’A. ha operato per molto tempo, fino ai rapporti col Presidente Cossiga e alla operazione “mani pulite” che a giudizio di de Jorio “ha alimentato la corruzione in un rigurgito di populismo falsamente moralizzatore”. E qui si sente il piglio dell’avvocato che denuncia “regole processuali e di indagine in antitesi rispetto alla nostra Carta costituzionale estorcendo le confessioni con la tattica della carcerazione preventiva” da parte di un “Pubblico Ministero-Sceriffo” che cerca l’applauso dell’opinione pubblica. Da giurista raffinato de Jorio ritiene che ne sia derivato uno squilibrio tra i poteri dello Stato, anche in ragione – e qui tratta un argomento che io spesso ho affrontato – della “scarsa qualità della classe dirigente, la quale non comprende che senza la restaurazione della primazia della politica, è impossibile governare il Paese e che l’unica misura – auspicata del resto da tutti e solennemente proclamata in un non dimenticato referendum – è l’affermazione della responsabilità civile dei magistrati, personalmente riscontrabile e censurabile”. Quest’ultimo profilo è notoriamente da me non condiviso ma dò volentieri atto dell’onestà intellettuale di de Jorio che inserisce questa “riforma” in un contesto di garanzie per il cittadino.

Il tema è di proporzioni gigantesche e comprende aspetti diversi del sistema giustizia che andrebbero affrontati globalmente sine ira ac studio con l’attenzione per l’obiettivo finale che è quello di assicurare la tutela dei diritti del cittadino e quelli della comunità.

La conclusione del libro, che troverà un ampio numero di lettori, alcuni dei quali spero di incentivare io con questa pur necessariamente stringata recensione, è nel senso della rivendicazione della ricchezza ideale dell’unità politica dei cattolici che de Jorio auspica possa essere ritrovata perché L’Italia non può essere condannata ad essere governata da “uomini privi di spessore politico, a cominciare da Berlusconi e a Conte” che “ci hanno portato ad una condizione drammatica con scarse possibilità di ripresa”.

“L’unità politica dei cattolici – scrive de Jorio – è un valore che non può essere più a lungo mortificato e negletto. Ce n’è bisogno! Sono convinto che occorre “rinovellare” l’esperienza politica della Democrazia Cristiana espellendo dal suo seno ogni esperienza sinistrorsa che si è rivelata nefasta anche sul piano elettorale e morale. È ovvio che anche la “falsa destra” non può essere una buona compagna di strada. La via maestra è l’autosufficienza del centro cattolico”.

Buona lettura.

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