di Salvatore Sfrecola
La graduatoria del concorso a dirigente dell’Agenzia delle entrate, da rinnovare secondo le indicazioni del giudice amministrativo, stenta a vedere la luce. E gli avvocati sono pronti a costituire in mora l’Agenzia per poi chiedere al Consiglio di Stato la nomina di un “Commissario ad acta” perché provveda a dare esecuzione alla sentenza che aveva ritenuto le scelte della Commissione in ordine alla graduatoria di merito “manifestamente contrarie ai princìpi di ragionevolezza e logicità dell’azione amministrativa”. Così il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio (Seconda Sezione-ter, sentenza n. 14859 del 14 novembre 2022), aveva bollato le decisioni della Commissione giudicatrice della selezione pubblica per l’assunzione a tempo indeterminato di 175 dirigenti di seconda fascia, bandito dall’Agenzia delle entrate il 29 ottobre 2010. Così il Consiglio di Stato che, con una sentenza della Settima sezione depositata il 26 giugno, n. 6237, ha condiviso la decisione dei primi giudici e respinto l’appello dell’Agenzia perché effettivamente la graduatoria è frutto di “marchiani errori nella valutazione dei titoli”, al punto da alterare lo stesso spirito del bando. Un appello che non si doveva fare, che denota un intento dilatorio rispetto ad una decisione dei primi giudici assolutamente ineccepibile e che rischia di far ricadere sul vertice dell’Agenzia i costi della procedura di ottemperanza, un classico “danno erariale”.
Dal 26 giugno l’Agenzia prende tempo. Attende il 12 luglio per comunicare che “le operazioni di rivalutazione previste non sono immediate ma richiedono necessariamente un congruo lasso di tempo per essere effettuate”, una spiegazione non condivisa dagli avvocati dei ricorrenti. Il ritorno alla legalità, infatti, è delineato dalla sentenza dei primi giudici, confermata in appello. Si tratta di formulare una nuova graduatoria sanando i vizi della precedente, realizzata “in violazione delle regole fissate dal Bando”, uno svarione gravissimo per un’attività tutto sommato semplice, com’è quella di “individuazione del punteggio da attribuire ai singoli titoli valutabili”. Il Bando, infatti, “prevedeva che il concorso si dovesse svolgere “mediante valutazione dei titoli e verifica dei requisiti e delle attitudini professionali integrato dal colloquio”. In sostanza attribuendo, “perlomeno tendenzialmente pari rilevanza alla valutazione dei titoli posseduti dai candidati e alla verifica dei requisiti e delle attitudini professionali integrata da colloquio”.
Sennonché la Commissione ha “talmente diluito il peso in termini di punteggio attribuibile, da rendere, nella pratica, impossibile non soltanto il conseguimento, in una delle sottocategorie, del punteggio massimo previsto dal Bando, ma pure il conseguimento di un punteggio anche soltanto significativo rispetto al valore assegnato dal medesimo Bando alla valutazione dei titoli, sia con riguardo al peso ponderato delle categorie di titoli, che con riguardo al peso dei titoli sulla valutazione finale”. A dimostrazione del loro assunto il TAR aveva fatto l’esempio del candidato che ha conseguito il più alto punteggio per titoli il quale ha ricevuto una valutazione di 11,60 su 100, pari ad appena poco più del 10% della valutazione astrattamente conseguibile per i titoli e, addirittura, pari ad appena il 5% sulla valutazione complessiva che il Bando richiedeva di esprimere “in duecentesimi”.
Altro svarione ha caratterizzato la valutazione dei titoli accademici e di studio (nel bando un punteggio massimo di 20). La Commissione, infatti, aveva deciso di attribuire ad ogni laurea magistrale, ulteriore rispetto a quella utilizzata come requisito di accesso al concorso, se conseguita in materie attinenti alle attività istituzionali dell’Agenzia, il punteggio di appena 0,5, per ogni master universitario di secondo livello e di primo livello rispettivamente i punteggi di 0,75 e 0,5. “Pertanto – si legge nella sentenza – un candidato teoricamente in possesso di 16 lauree avrebbe conseguito un punteggio di 15 punti su 20”. La stessa discrasia si è verificata per le pubblicazioni (nel bando era previsto un massimo di 10 punti) per le quali la Commissione ha indicato il punteggio di 0,6 per ciascun “Libro” pubblicato come “Autore”, e 0,3 per ciascun “Libro” pubblicato come “Coautore”, e 0,05 per ciascun “articolo” pubblicato su “riviste di settore” e quello di 0,01 per “pubblicazioni in atti congressuali”. Ciò significa in altri termini – si legge nella sentenza – “che pure se si fosse verificata l’ipotesi, in verità di scuola, di un candidato che avesse scritto e pubblicato 5 monografie come unico autore e 3 monografie come coautore, 40 articoli e 50 pubblicazioni in atti congressuali, tutti attinenti alle materie rilevanti, lo stesso non avrebbe comunque conseguito il massimo punteggio previsto”. In contrasto con la lettera e con lo spirito del bando. Infatti, nessun candidato ha superato la soglia dei 100 punti sui 200 a disposizione, “il che significa che la valutazione selettiva chiesta dal bando è stata in sostanza dimezzata”. Sicché “le scelte della Commissione divergono dall’invece necessario canone di razionalità operativa” che non poteva sfuggire alla Direzione dell’Agenzia in sede di approvazione della graduatoria. Ciò che getta un’ombra sull’attività della medesima Direzione la quale – nel silenzio del Ministero dell’economia che sull’Agenzia avrebbe dovuto “vigilare” – si è fatta colpevolmente complice degli svarioni della Commissione e delle conseguenti responsabilità, anche di natura erariale, avendo prodotto un evidente, vistoso, perdurante “disservizio”.
(da La Verità del 25 agosto 2023)