mercoledì, Novembre 27, 2024
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Cancel culture? Un’idea da cancellare. Ci priva del passato, mortifica il presente

di Salvatore Sfrecola

Dopo Cristoforo Colombo, “condannato” perché ritenuto schiavista, con conseguente rimozione di molte delle statue a lui dedicate, passa un guaio anche la coppia di innamorati più famosa della storia, “Giulietta e Romeo” e l’autore che l’ha resa famosa. Ritenuta sessualmente “troppo esplicita”, la tragedia shakespeariana è stata proibita agli studenti della Florida. Ed è dalla città di Giulietta che giunge una risposta netta a quel modo di guardare alla storia definito cancel culture nel quale sono incappati gli amanti veronesi. La firma il Professor Davide Rossi, storico del diritto, che ne scrive su L’Arena, in un editoriale del 19 agosto (“Giulietta non si può cancellare”).

Non entro nel merito dell’aspetto sessuale, che, francamente, mi era sfuggito, per andare a quella che il Prof. Rossi definisce la “prospettiva totalmente antistorica, in cui il presente assorbe in sé il passato, rimuovendo dalla comunicazione ogni valore contrario all’epoca storica in cui si sta vivendo … nell’assunto che le capacità simboliche del passato – anche datato e lontano nel tempo – possano alimentare la realtà valoriale contemporanea; di conseguenza è necessario rimuovere (o, in subordine, modificare il contenuto) dalla comunicazione ciò che non è in sintonia con il portato valoriale attuale”.

Non c’è dubbio che è un errore gravissimo quello che guida la cancel culture, con la quale si ritiene di dover esprimere un giudizio su fatti e comportamenti del passato, come se lo studio della storia fosse un tribunale, mentre ha lo scopo di cercare di comprendere e spiegare. La storia, infatti, “è figlia del suo tempo”, scrive Fernand Braduel. E per Marc Bloch “gli uomini sono figli più del loro tempo che dei loro padri”. Come per i cambiamenti climatici, i fatti rimangono consegnati al momento nel quale sono avvenuti, mentre questi moderni iconoclasti, che si ritengono portatori di valori evidentemente superiori a quelli che hanno caratterizzato il passato, si sentono investiti della missione di una sorta di riparazione morale nei confronti di quanti nel corso dei secoli sono stati “vittime” di iniquità. Restaurando l’indice dei libri proibiti, censurando le biblioteche, rimuovendo quadri, abbattendo statue. “Ciò facendo, sembrano non rendersi conto di riprendere gli atteggiamenti e le pratiche degli oscurantisti che li hanno preceduti dal medioevo in avanti, fino ad arrivare ai regimi totalitari e ai fondamentalismi islamici” (Massimo L. Salvatori, “In difesa della storia – contro manipolatori e iconoclasti, Roma 2021). Così sono finiti tra i libri proibiti quelli che usano la parola “negro” od i volumi di autori di lingua inglese messi al bando perché maschi e bianchi.

Non è questo l’atteggiamento che deve assumere chi affronta lo studio del passato per comprendere come i protagonisti di quegli eventi si sono determinati nelle scelte individuate sulla base delle loro conoscenze e dei costumi dell’epoca. Anche considerata l’influenza dell’interpretazione personale, quella che faceva dire ad Ecateo di Mileto “io racconto come sembra a me”, un atteggiamento che oggi non può che essere ancorato ai documenti allegati.

In ogni caso gli eventi che studiamo appartengono ad un contesto temporale che non consente contaminazioni. Acquisire quelle esperienze alla realtà odierna, come giudicare il passato con la mentalità e la cultura di oggi significa privarsi di un importante riferimento che deve farci capire come l’umanità ha progredito, ad esempio, perché il tema è ricorrente, comprendendo perché la civiltà giuridica romana, che è stata capace di delineare i diritti della persona, ammettesse la presenza di soggetti che ne erano privi. Vogliamo cancellare il diritto romano per la parte che non è conforme ai nostri princìpi, quelli che uomini illuminati sono andati delineando nel corso dei secoli per divenire “diritti fondamentali” nelle moderne costituzioni, da fine ‘700 in poi?

È la negazione della storia ma anche della sua utilità. A chi serve cancellare Cristoforo Colombo o Giulio Cesare o rimproverare alla Regina Vittoria, Imperatrice delle Indie, di essere stata colonialista e imperialista, in un tempo nel quale tutti gli stati facevano a gara per conquistare fette di Africa, di Asia o dell’America Meridionale, per garantirsi minerali preziosi da estrarre a basso costo, anche usando lavoratori semischiavi? Oggi sarebbe inconcepibile che l’Italia invadesse Libia e Tunisia per fermare i migranti economici che partono dalle loro coste, intercettati in mare dalla nostra Guardia Costiera o approdati sulle coste di Pantelleria o su quelle calabresi o siciliane. Per cui oggi la politica ricerca intese che soddisfino reciproci interessi.

È evidente che gli iconoclasti del nostro tempo hanno le idee confuse, anche perché solo una straordinaria ingenuità può indurre a rimproverare agli uomini vissuti anche solamente qualche secolo fa di non essere stati paladini di valori maturati in tempi successivi, l’uguaglianza, la libertà, la democrazia, garantendo a tutti pari dignità nell’ambito dei diritti inviolabili dell’uomo, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali, come si esprime l’articolo 3 della Costituzione.

Il fatto è che viviamo in un tempo nei quali l’interesse per lo studio della storia è andato progressivamente affievolendosi, come dimostra il fatto che nelle scuole di ogni ordine e grado l’insegnamento della disciplina continua a subire un progressivo impoverimento e ridimensionamento in relazione all’idea di dare maggiore spazio alle discipline tecnico scientifiche considerate di maggiore utilità.

Diciamo anche che lo studio della storia è impegnativo e non è facile il suo insegnamento perché c’è l’abitudine di decontestualizzare gli eventi, per cui non deve stupire che qualcuno in televisione ritenga che la scoperta dell’America sia da collocare all’inizio del 900 (!) o confonde la prima e la seconda guerra mondiale per fare due esempi assolutamente banali. Ho colto alcune interessanti battute di Lucio Caracciolo, direttore di Limes. Dice di aver letto sul libro del figlio, che studia in un liceo classico particolarmente rinomato, il richiamo all’editto di Caracalla sulla cittadinanza romana, in poche righe accompagnate da uno “schedone” in cui si dava conto del dibattito nell’attuale Repubblica italiana circa la cittadinanza da dare a chi ci abita. Osserva Caracciolo, “se un ragazzo viene educato a pensare che tra Caracalla e oggi non c’è differenza e che lo stesso tema viene affrontato da esseri umani in età diverse allora comincio a preoccuparmi. Vuol dire che la storia è ridotta veramente a un prodotto liofilizzato che tu puoi appiccicare come appiccichi quelle calamite di metallo al frigorifero. Quindi la mia prima preoccupazione è la perdita del senso della storia, la perdita del senso del contesto, perché se tu sei svedese non puoi essere giapponese nel modo di pensare e viceversa. Il tentativo di fare una specie di fritto misto utilizzabile come chiave interpretativa è legittimo ma non appartiene secondo me al modo migliore per affrontare quello che noi viviamo. E uno dei motivi del nostro spaesamento è proprio che siamo stati abituati a pensare che esistesse un modello universale e che noi addirittura ne fossimo la matrice che l’Europa fosse il mondo e che il mondo fosse un’Europa in potenza per riprendere il nostro amico Fukuyama”.

“L’onesto uso dell’arma della memoria -, scrive Paolo Mieli (L’arma della memoria – contro la reinvenzione del passato”,, Milano, 2015) – è il più valido antidoto all’imbarbarimento. E lo è in ogni stagione politica, in ogni momento del dibattito culturale, in ogni epoca della storia. Un uso onesto che in quanto tale presuppone non ci si rivolga al passato in cerca di una legittimazione per le scelte di oggi. Anzi, semmai, per individuare in tempi lontani contraddizioni che ci aiutino a modificare o a mettere a registro quel che pensiamo adesso”.

Ringrazio, dunque, il Prof. Rossi perché con il suo splendido editoriale mi ha offerto l’occasione per lasciare per un attimo le mie ordinarie incombenze di lavoro e di studio per riflettere, sulla base di qualche lettura preziosa della mia biblioteca, e che mi ha confermato in una convinzione fermissima secondo la quale la storia non è facile da studiare e da insegnare e da trasmettere ai giovani, quando sarebbe un importante strumento di approccio alla realtà di oggi. Spero, dunque che il Ministro dell’istruzione, Giuseppe Valditara, che, essendo un illustre romanista è per definizione uno storico del diritto, voglia richiamare nei programmi di ogni ordine e grado la valorizzazione dell’insegnamento della storia.

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