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Stantio refrain di origine fascista: la “fuga” del Re

di Salvatore Sfrecola

Il 1° settembre 1939, alle 4,45 le forze armate tedesche invadono la Polonia, il 17 il governo polacco “si trasferisce” in Romania, il 13 la Regina Gugliemina d’Olanda “si rifugia” i Gran Bretagna, il 16 il Governo belga “si trasferisce” da Bruxelles a Ostenda, l’8 e il 9 giugno Re Haakon VII di Norvegia ed il governo “si rifugiano” in Gran Bretagna, all’alba del 9 settembre 1943 il Re e Badoglio “con un improvvisato seguito (una parte del governo e alcuni capi militari) fuggono da Roma verso Pescara”, il 27 aprile 1945 “una formazione partigiana cattura Mussolini mentre si dirigeva verso il confine svizzero insieme a un convoglio di militari tedeschi” (G. Palitta – D. Meldi, Cronologia universale – La storia del mondo dalle origini ai giorni nostri, Newton, Genova, 1996, pagine 701, 702, 733, 759).

Apprendiamo, dunque, che taluni “si rifugiano”, altri “si trasferiscono” lontano dalle capitali e all’estero, solo il Re d’Italia “fugge” per essersi trasferito da Roma, città all’evidenza indifendibile militarmente se non a rischio della sua distruzione, per recarsi in altra regione libera dal controllo delle truppe tedesche ed anglo americane, per poter continuare ad esercitare le funzioni sovrane. C’è, infine, chi è catturato “mentre si dirigeva verso il confine svizzero” per salvare la pelle, giusto desiderio di ogni uomo. È omesso un particolare: il Duce fu catturato vestito da tedesco.

Ebbene, credo che anche un bambino alle prime armi di fronte alla storia comprenda il senso degli eventi e che coloro che si trasferiscono o si rifugiano avevano il dovere di non farsi catturare dai tedeschi per poter continuare a rappresentare lo stato occupato militarmente dai tedeschi in una guerra neppure dichiarata.

Ugualmente il Re d’Italia Vittorio Emanuele III, unica autorità legittimata a svolgere le funzioni statali e ad assicurare le necessarie relazioni con gli anglo-americani a seguito dell’armistizio firmato pochi giorni prima, aveva il dovere di sottrarsi all’eventuale cattura o anche alla morte in ragione del suo ruolo.

Accade, invece, che la propaganda fascista, quella dei duri e puri che avrebbero dato vita alla Repubblica Sociale Italiana per continuare a fianco dei nazisti a combattere gli anglo-americani, hanno dato vita alla narrazione della “fuga” del Re, anche per legittimare la loro scelta e in qualche modo per mettere la sordina sulla polemica della tragica conclusione di una guerra che il Fascismo aveva imposto alla Nazione nonostante non avessimo interesse a parteciparvi e per la quale le Forze Armate italiane erano assolutamente impreparate, dopo l’impegno in Etiopia ed in Spagna.

Naturalmente di “fuga” non si è parlato solamente in quegli anni perché, stranamente alleati, fascisti e socialcomunisti ne hanno fatto un argomento forte in occasione del referendum del 2 giugno 1946.

E così la “fuga” rimane nell’immaginario di molti, superficiali o distratti, non solamente del quisque de populo ma anche di taluni storici i quali, come spesso capita agli intellettuali, preferiscono seguire la narrazione che va “di moda”, politically correct, come si usa dire di questi tempi, perché fa comodo, non crea problemi. Né questi sono sfiorati dal dubbio, che è espressione di intelligenza ed onestà intellettuale, che i protagonisti, dei quali scrivono con severo cipiglio rimarcando “i loro errori”, avessero una visione dei fatti diversa dalla loro che, dinanzi alla scrivania dei loro studi possono consultare libri e memoriali che, ex post dicono cosa è accaduto e così possono anche indicare ai loro lettori cosa avrebbero dovuto fare il Re, il Capo del Governo, Maresciallo Badoglio, i Ministri ed i Capi militari in quelle drammatiche ore, trenta, come si legge nel risvolto di copertina del libro di Marco Patricelli (“Tagliare la corda – 9 settembre 1943, storia di una fuga”, Solferino, Milano, 2023, pp. 277, € 18,00), nelle quali “l’Italia implode, con una velocità e con conseguenze che non hanno precedenti nella storia”.

Riservandomi di tornare sul libro, mi limito ad aggiungere a quanto precede quel che ha scritto per l’ANSA Adam Hanzelewicz di un “coacervo di tragedia e farsa, l’Italia del 9 settembre 1943 descritta da Marco Patricelli scivola sul piano inclinato della guerra civile”. Aggiunge il recensore che “gli ultimi spasmi della monarchia e della classe dirigente anche militare italiana in via di dissoluzione, preda di arrivismo misto a inadeguatezza sono tracciati nel volume… un saggio storico che getta luce sulle ombre che si addensano sul Paese nelle ore successive all’annuncio dell’armistizio con gli Alleati da parte del generale americano Eisenhower emesso attraverso Radio Algeri nel pomeriggio dell’8 settembre”.

Attraverso la “disamina puntuale e dettagliata, col raffronto incrociato di fonti d’archivio e della memorialistica, di una pagina cruciale della nostra storia” – scrive Hanzelewicz – Patricellli “cavalca lo sfaldamento progressivo delle istituzioni per incapacità, la meschinità e la colpevole superficialità delle classi dirigenti che in appena 30 ore sono artefici dell’implosione della nazione”. Aggiungendo che dal libro si evince che “Vittorio Emanuele III, il capo del governo Badoglio e lo Stato Maggiore dell’Esercito, restano astanti di un teatro dell’assurdo da essi stessi determinato”.

Evidentemente riprendendo la tesi dell’A. “se gli italiani avessero seguito le direttive alleate, rendendo possibile la contemporaneità dello sbarco a Roma di una divisione aviotrasportata americana (operazione Giant 2) con quello di Salerno (operazione Giant 1), forse racconteremmo un’altra storia. Ma l’operazione “era naufragata di fronte all’inerzia italiana”. Mentre Badoglio, terrorizzato dall’idea di essere catturato e ucciso dai nazisti, spingeva il re a fuggire da Roma a Pescara attraverso l’unica via consolare non minacciata e non presidiata dai tedeschi, “altri soldati combattevano, e morivano, guidati da altri ufficiali che non avevano smarrito il vincolo del giuramento di fedeltà al re”. Gli ordini e i contrordini impartiti o negati nella fuga di Pescara creano ulteriore confusione nelle truppe rimaste nella capitale, nel Paese e all’estero, fino allo sbando totale”.

“Di particolare rilievo – scrive Adam Hanzelewicz – la ricostruzione di Patricelli, attraverso i documenti, demolitoria dell’ipotesi spesso evocata che ci fosse un accordo con i tedeschi per il via libera alla fuga del re in cambio della presa di Roma o della liberazione di Mussolini dal Gran Sasso. Nel volume, che si avvale di una scrittura coinvolgente dal ritmo incalzante, si svela anche in quali circostanze si scelse di sbarcare a Brindisi, poi capitale dell’effimero Regno del Sud, dopo l’imbarco in due tempi a Pescara e a Ortona sulla corvetta ‘Baionetta’”.

Di certo involontariamente stanno nelle parole che abbiamo appena riportato le ragioni della tragedia che ha colpito l’Italia e gli italiani in quelle ore. Una tragedia le cui origini partono da lontano, da errori gravissimi accumulatisi nel tempo in ragione di quella che efficacemente l’A. della recensione individua nella “classe dirigente anche militare italiana in via di dissoluzione, preda di arrivismo misto a inadeguatezza”. Una classe militare che Mussolini aveva blandito con promozioni e onorificenze” per assicurarsene la fedeltà in qualche modo sottraendola alla Corona. Alla quale proprio il Gran Consiglio del Fascismo il 25 luglio aveva restituito i poteri statutari nella consapevolezza della tragedia che si andava consumando giorno dopo giorno da quel 10 giugno 1940 da quando, nonostante il valore di soldati ed ufficiali, Forze Armate disorganizzate e inadeguatamente armate avevano collezionato sconfitta dopo sconfitta o comunque figure meschine, come in Francia ed in Grecia. E quando “altri soldati combattevano, e morivano, guidati da altri ufficiali che non avevano smarrito il vincolo del giuramento di fedeltà al re”, come a Cefalonia, l’eroismo senza armi adeguate non poteva che portare al sacrificio di quegli eroici combattenti.

La storia renderà giustizia al Re Vittorio Emanuele III lasciato solo dal 1922 in poi da quanti avrebbero potuto, pur nella tragica situazione del primo dopoguerra, impegnarsi per mantenere vive le libertà che lo Statuto della Monarchia rappresentativa aveva garantito. E che, invece, sono fuggiti, loro sì, dinanzi alle difficoltà di una grave crisi politica, economica e sociale lasciando mano libera agli eversori delle istituzioni liberali.

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