di Salvatore Sfrecola
Affronto nuovamente il tema della Pubblica Amministrazione partendo da un episodio, di qualche anno fa, raccontatomi da un mio amico, avvocato, consulente di un imprenditore impegnato a realizzare in Canada un impianto di costruzione di pneumatici. Mi raccontava di aver accompagnato il suo cliente nell’intesa che dovesse assisterlo negli adempimenti amministrativi che avrebbe dovuto affrontare. Ma mi ha riferito, stupito, che il governo canadese aveva messo a disposizione dell’imprenditore un’area per costruire gli impianti, gli aveva abbonato le imposte per cinque anni, evidentemente considerandoli un tempo necessario per avviare la produzione e intervenire nel mercato, ed aveva messo a sua disposizione un funzionario perché lo guidasse negli adempimenti necessari da espletare presso gli uffici. Il mio amico avvocato, dunque, è stato in vacanza, non ha dovuto fare assolutamente niente.
È il caso di un’amministrazione pubblica che si preoccupa di sviluppare le attività imprenditoriali ritenute funzionali allo sviluppo dell’economia ed all’incremento dell’occupazione favorendo gli adempimenti necessari alla loro realizzazione. E viene immediatamente alla mente quel che aveva detto Sabino Cassese, illustre giurista del diritto amministrativo e consulente antico di molte amministrazioni pubbliche, che per ottenere alcune autorizzazioni a svolgere attività imprenditoriali, con realizzazione delle occorrenti strutture di supporto, in Italia sono necessari in alcuni casi fino a 70 adempimenti. E che “le opere pubbliche sono bloccate da un “labirinto di norme”.
Stamattina la televisione (TG24), nel dar conto del fatto che l’Italia è al 16° posto in Europa per la realizzazione di impianti di energie rinnovabili, ha riferito della diminuzione degli impianti realizzati rispetto all’anno precedente precisando che per un impianto eolico occorrono cinque anni rispetto ai sei mesi previsti dalla legge. È evidente che, in queste condizioni, l’attività privata è scoraggiata e che nella congerie degli adempimenti richiesti facilmente si può inserire il germe della corruzione, nel senso che l’imprenditore può essere indotto a ungere qualche ruota del complesso ingranaggio per accelerare i tempi. E questo conferma quel che vado dicendo da tempo sulla base dell’esperienza maturata nell’osservare le azioni della Pubblica Amministrazione, dall’interno e dall’esterno, che un governo che voglia effettivamente realizzare gli obiettivi del proprio programma debba, prima di tutto, riordinare la pubblica amministrazione, nella distribuzione delle attribuzioni e nelle procedure attraverso le quali l’amministrazione realizza gli obiettivi propri o favorisce le attività dei cittadini e delle imprese. È un tema antico se si pensa che fin dal dopoguerra i governi italiani hanno costantemente annoverato fra i ministri anche uno che si occupasse di riforma burocratica e di semplificazione, cambiando, di volta in volta, la denominazione dell’Ufficio ma lasciando immutata la realtà di un’amministrazione che è un costo per lo Stato, per i cittadini e per le imprese. Mentre i costi dovrebbero essere ammortizzati dall’efficienza conseguente al perseguimento degli obiettivi programmatici e al servizio reso ai privati.
Ora non è dubbio che sarebbe necessario por mano ad una riforma complessiva degli apparati, rivedendo la distribuzione delle attribuzioni, concentrandole, ove necessario, o eliminandole, mentre oggi con il concorso di più amministrazioni e di più uffici di una stessa amministrazione, centrali e periferici, le pastoie che il cittadino e le imprese si trovano a dover affrontare sono tali da impedire la realizzazione, in tempi fisiologici alle esigenze, di qualunque obiettivo di politica economica e sociale. Mi rendo conto della complessità dell’impegno che queste indicazioni richiedono ma credo che non sarebbe difficile cominciare rapidamente semplificando una serie di procedure che consentano di abbattere i tempi degli adempimenti, tempi che sono un costo per l’amministrazione e per i privati che gravano sull’economia del Paese. Considerato che l’avvio di un’impresa o il suo ampliamento liberano risorse, favoriscono l’occupazione, recuperano allo Stato imposte e tasse in un ciclo virtuoso del quale ogni politico accorto dovrebbe darsi carico.
E così aveva destato in me vivo interesse il fatto che Mario Draghi, nel presentare il programma del Governo, avesse richiamato Cavour, il più grande statista italiano di tutti i tempi, con una straordinaria capacità di guardare all’Italia intera, di immaginare e realizzare le grandi riforme che, in pochi anni, hanno trasformato il Regno di Sardegna facendone il motore del Risorgimento nazionale e dello sviluppo dell’industria e dei commerci, esempio permanente di attitudine a governare. Iniziando, in contemporanea ad un grande piano di infrastrutture ferroviarie, stradali, portuali, con una profonda riforma della Pubblica Amministrazione, nel senso di riordinare i ministeri e semplificare le procedure per fare presto e bene. Nel rispetto dei principi di legalità, efficienza, efficacia ed economicità, perché il denaro pubblico fosse speso per finalità coerenti al sacrificio richiesto ai cittadini con imposte e tasse. Per questo il Conte di Cavour, nella sessione straordinaria del Parlamento subalpino del dicembre 1852, insieme alla riforma dei ministeri e dei procedimenti potenzia i controlli, creando la Corte dei conti, in sostituzione dell’antica e prestigiosa Camera dei conti, che il Regno di Sardegna aveva ereditato dal Ducato di Savoia, convinto della “assoluta necessità di concentrare il controllo preventivo e consuntivo in un magistrato inamovibile”.
E allora, mi chiedo, se “a paralizzare il Paese” è un “labirinto di norme” il Professore Cassese dovrebbe rivolgersi alla classe politica che, tra Governo e Parlamento, quelle norme ha prodotto, spesso affidandone la stesura ad estranei alla P.A., persone certamente avvezze agli studi ma che, visti i risultati, probabilmente non avevano mai partecipato all’istruttoria di un procedimento ed alla stesura di un decreto. Perché se avessero seguito l’iter procedimentale, dall’atto di iniziativa, di parte o d’ufficio, alla fase istruttoria, a quella decisoria forse si sarebbero accorti della duplicazione di competenze, di concerti non necessari, di pareri inutili che allungano i tempi e rendono incerto l’esito delle decisioni, spesso rimettendo al giudice amministrativo la definizione della “pratica”, con anni di ritardo, dimenticando che il tempo è un costo, per la parte che chiede il provvedimento, per l’amministrazione e per la società.
Ebbene, invece di prendersela con la classe politica, il Professore bastona le singole istituzioni, l’Autorità anticorruzione e i sindacati che “si dichiarano subito “nettamente contrari”, scrive, a questa semplificazione”. E si chiede che “se questo non si può modificare, quell’altro non si può fare, com’è possibile governare?” Ed evoca un grande giurista e politologo, Carl Schmitt, solitamente reietto ed accusato di essere il giurista del Nazismo che in questo caso fa comodo perché denunciava le “forze interessate alla conservazione”, segnalando, nel 1931, che “la forza dello status quo in quanto tale è enorme e molto potente”.
Non pensa il Professore Cassese che la situazione che denuncia sia conseguenza della modestia della classe politica, incapace di immaginare una vera riforma della P.A. che non sia una periodica limatina a questa o a quella attribuzione di ministeri ed enti secondo le aspettative del politico di turno che vuole occuparsene?
È anche un pro-memoria per il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni.