di Salvatore Sfrecola
Il 7 gennaio, in occasione della ricorrenza della “Festa del Tricolore”, il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha rilasciato una dichiarazione che riporto integralmente.
«Ricorre oggi il 227° anniversario della nascita, per volontà del Parlamento della Repubblica Cispadana, riunito a Reggio Emilia, del primo Tricolore rosso, bianco e verde.
Radicandosi nelle tappe della storia d’Italia, è giunto sino ad oggi, simbolo della Patria.
La Costituzione afferma, con l’articolo 12, il Tricolore come Bandiera della Repubblica, emblema del nostro Paese.
In essa si identificano quei sentimenti di coesione e identità nazionale e quegli ideali di libertà, democrazia, giustizia sociale e rispetto dei diritti dell’uomo che sono le fondamenta della nostra comunità e animano la coscienza civile nelle sue varie espressioni.
Del Tricolore, patrimonio di storia e cultura, andiamo, giustamente orgogliosi. In esso si riconoscono le concittadine e i concittadini stimolati nell’impegno di rendere vivi i valori della Costituzione.
Viva il Tricolore, viva la Repubblica».
Da sempre, con grande rispetto per la Persona e per il ruolo, mi accosto agli interventi del Capo dello Stato che, ai sensi dell’art. 87, comma 1, della Costituzione “rappresenta l’unità nazionale”, anche se “non è l’incarnazione e la personificazione dello Stato medesimo”, come ha spiegato la dottrina nel ricostruire il significato del termine in monarchia e nelle istituzioni repubblicane (F. Dimora, nota all’art. 87 Cost., in Crisafulli – Paladin, Bartole – Bin, Commentario breve alla Costituzione, Padova, CEDAM, 774).
Tanto premesso mi consentirà il Presidente di svolgere alcune considerazioni che nascono dalla lettura di un testo che si snoda tra storia e diritto, materie che da sempre mi appassionano e che vado coltivando, in particolar modo per quanto riguarda le istituzioni di vertice degli stati, osservando quel che accade negli ordinamenti dei paesi che, in qualche modo, possono essere posti a confronto del nostro.
E così la lettura del testo suggerisce alcune osservazioni, a cominciare dal necessario richiamo all’art. 12 della Costituzione che individua la bandiera della Repubblica nel “tricolore italiano”, unico dei simboli dello Stato, “simbolo patriottico, carico di idealità libertarie, (che) affonda le sue radici nella storia risorgimentale” (A. Cossiri, Commentario, cit., 99). Ma di Risorgimento nel messaggio del Presidente non si fa cenno, anche se si richiamano i “sentimenti di coesione e identità nazionale e quegli ideali di libertà, democrazia, giustizia sociale e rispetto dei diritti dell’uomo”. Insomma, il Risorgimento è costantemente ai margini, solo di rado apertamente richiamato. Eppure è in quello straordinario periodo storico che gli ideali di libertà e di democrazia, che avevano ispirato la Repubblica Cispadana, della quale il tricolore era stato l’antico vessillo, hanno preso forma in uno Stato unitario, antica aspirazione di generazioni di italiani “da secoli calpesti, derisi” perché “divisi”.
Il fatto è che tenere alta la bandiera risorgimentale avrebbe significato riconoscere l’impegno della Casata che con il Re di Sardegna Carlo Alberto ha sposato senza remore la causa dell’unità apertamente confermata il 23 marzo 1848 quando all’esercito che interveniva in quella che sarebbe stata la Prima Guerra d’Indipendenza fu affidato il tricolore con al centro lo stemma di Savoia. In quel momento, con atto temerario troppo spesso sottovalutato, il Sovrano metteva in gioco secoli di storia familiare per sfidare il più potente stato d’Europa, quell’Impero Austro-Ungarico che, al Congresso di Vienna (1815), si era assunto il compito di mantenere l’Italia divisa in ben sette stati ed a sostenere con le armi i sovrani illiberali, come i Borbone.
Anche la chiusa “Viva il Tricolore, viva la Repubblica” mi ha colpito. E mi è tornato alla mente il discorso pronunciato dal Re di Spagna, Filippo VI, il 6 gennaio in occasione della Pascua Militar, un evento istituito per commemorare la riconquista di Minorca, strappata ai britannici nel 1782, che ha concluso con viva Espaňa, non viva la monarchia. Avrei voluto leggere a chiusura del messaggio presidenziale viva l’Italia. Non è evidentemente cattiva volontà di chi ha contribuito alla stesura del testo che, poi, il Presidente ha sottoscritto. Ma è conseguenza della diffusa difficoltà di considerare la nostra storia come formatasi lungo un tempo nel quale siamo stati orgogliosi, e in molti lo siamo tuttora, dei sacrifici di quanti, col pensiero e con l’azione, hanno concorso a “fare” l’Italia. Per cui non deve stupire se alcuni cattolici, contraddicendo il pensiero del Papa Paolo VI, rimpiangono ancora il potere temporale dei Papi o alcuni “neoborbonici” lamentano la fine del Regno delle Due Sicilie, trascurando che Garibaldi ed i suoi raccolsero in una manciata di giorni l’abbraccio dei sudditi di uno stato che ormai aveva esaurito la propria funzione, incapace di capire che non era più il tempo di impiccare i liberali e sparare sulla folla che chiedeva la Costituzione. E non a caso la dissoluzione di quel regno è partita proprio dalla Sicilia, la terra del Presidente Mattarella, che rivendicava fin dai famosi Vespri siciliani (1282) quella indipendenza dallo straniero che l’Eroe dei Due Mondi gli avrebbe dato issando il tricolore al grido di “Italia e Vittorio Emanuele”.