di Salvatore Sfrecola
Michele Ainis è un costituzionalista insigne, ordinario di Istituzioni di diritto pubblico all’Università di Roma Tre, ma è anche un editorialista brillante, uno scrittore che sa illustrare con linguaggio appezzabile anche da un non tecnico le questioni giuridiche più complesse.
Ieri si è dedicato su La Repubblica ad un tema importante, che ricorre frequentemente nel dibattito politico e dei giuristi, quello di affidare le riforme costituzionali non già al Parlamento ma ad una assemblea costituente, che nell’articolo viene indicata come formata da non parlamentari, la quale dovrebbe redigere una bozza di riforma da sottoporre alle Camere, aprendo, altresì, i suoi lavori al contributo della società civile, alle associazioni, ai movimenti, ai singoli cittadini. È accaduto altre volte, ricorda. E fa l’esempio dell’Islanda.
Credo, tuttavia, che al fondo della sua proposta vi sia il ricordo dell’Assemblea costituente che, fra il 1946 ed il 1947 ha scritto l’attuale Costituzione, che si vorrebbe riformare.
Lo spunto, ovviamente, è dato dalla proposta di “premierato” che è difficile approfondire con certezza perché cambia di giorno in giorno, a mano a mano che alcune osservazioni sulla funzionalità della riforma vengono suggerite, a dimostrazione di una insufficiente meditazione e del fatto, fondamentale, che non esiste un precedente se non in Israele, di cui Ainis ha scritto in un recente volume, “Capocrazia”. Ed è un precedente negativo perché, dopo un breve periodo, la riforma è stata soppressa.
I temi sono molti, soprattutto quelli riferiti alla inevitabile riduzione dei poteri del Capo dello Stato e al ruolo del Parlamento per cui il Professore Ainis sembra immaginare, attraverso un’assemblea ad hoc costituente, una riflessione più serena rispetto al dibattito parlamentare che è condizionato dalla maggioranza e all’interno della maggioranza dalle opinioni diverse che sul tema sono state prospettate o che, giorno dopo giorno, si manifestano.
Io ho sempre ha avuto dubbi sulla ricorrente proposta di un’assemblea costituente. Capisco che l’idea si presenta bene, essenzialmente perché abbiamo davanti agli occhi l’Assemblea che ha redatto la Costituzione vigente. Parliamo di un’assemblea composta di persone di altissimo profilo, politico e giuridico, con grandi esperienze. Luigi Einaudi, ad esempio, non era un giurista ma era un grande economista, attento osservatore e sapiente commentatore dei fatti della politica lungo molti decenni, uomo di straordinario equilibrio e capacità anche storica. Parliamo di una classe politica anche di diversi e molto divergenti orientamenti che peraltro aveva alto il senso del ruolo che in quella sede veniva esercitato.
Il fatto è, senza offendere nessuno fra quelli che si occupano di questa riforma a Palazzo Chigi e dintorni, che personalità come quelle che fecero la Costituzione da Costantino Mortati a Meuccio Ruini, da Piero Calamadrei a Giuseppe Codacci Pisanelli, da Aldo Bozzi ad Emilio Lussu, per non citare che alcuni, non sono oggi disponibili. O comunque, per essere più obiettivi, perché la classe politica impegna esclusivamente yes men persone pronte a dire quel che il leader vuol sentire ed a scrivere di conseguenza. Non c’è oggi in politica Vittorio Emanuele Orlando, uno dei più grandi giuristi italiani del diritto pubblico, contrarissimo al premierato ante litteram di Benito Mussolini. Una contrarietà implicita nella rivalutazione del ruolo delle Camere con la quale Gaetano Mosca, critico del parlamentarismo, aveva risposto all’avvento della dittatura Fascista.
Cosa fare, dunque? Contrariamente a quel che sostengono i fautori della riforma costituzionale, sia nella forma del presidenzialismo che del premierato, chi siede a Palazzo Chigi ha poteri rilevanti che, infatti, esercita con fermezza, sovente prevaricando il ruolo delle Assemblee legislative private della possibilità di emendare testi governativi in ragione del ricorso alla fiducia.
La soluzione, a mio giudizio, andrebbe individuata in una legge elettorale che consenta di selezionare la classe dirigente mediante l’instaurazione di un rapporto diretto tra elettore ed eletto. E qui ancora una volta devo richiamare il pensiero di Vittorio Emanuele Orlando, ammiratore dell’esperienza inglese che conosce un sistema elettorale con collegi uninominali a misura delle comunità locali che portano alla Camera dei comuni soggetti votati per diretta conoscenza dell’elettorato e, pertanto, poco condizionabili dalle segreterie dei partiti. E sappiamo che a Londra il primo ministro è già noto al termine degli scrutini ed è il leader del partito che ha vinto le elezioni.