sabato, Novembre 23, 2024
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Mattarella spiega quali sono i suoi poteri all’atto della promulgazione di una legge e, implicitamente, giustifica la firma apposta dal Re Vittorio Emanuele III alle Leggi Razziali

di Salvatore Sfrecola

Interessanti riflessioni sui suoi poteri nella promulgazione delle leggi da parte del Presidente Sergio Mattarella nel corso dell’incontro con il Dott. Gianfranco Giuliani, Presidente di CASAGIT, e con una delegazione di esponenti dell’associazione, “nella veste insopprimibile di giornalisti” e quindi – ha spiegato Mattarella – tramite tra istituzioni e i nostri concittadini, tramite informativo per far notare che frequentemente il Presidente della Repubblica viene invocato con difformi, diverse motivazioni”.

Ed ha fatto, tra le sue molteplici funzioni a quella di promulgazione delle leggi con riferimento alla quale ha ricordato che “c’è chi gli si rivolge chiedendo con veemenza: “il Presidente della Repubblica non firmi questa legge perché non può condividerla, perché gravemente sbagliata”, oppure: “il Presidente Repubblica ha firmato quella legge e quindi l’ha condivisa, l’ha approvata, l’ha fatta propria”.

Il Presidente della Repubblica – ha spiegato Mattarella – “non firma le leggi, ne firma la promulgazione, che è cosa ben diversa. È quell’atto indispensabile per la pubblicazione ed entrata in vigore delle leggi, con cui il Presidente della Repubblica attesta che le Camere hanno entrambe approvato una nuova legge, nel medesimo testo, e che questo testo non presenta profili di evidente incostituzionalità”.

Il Presidente, che è anche docente di diritto parlamentare ed è stato Giudice della Corte costituzionale, ha voluto chiarire ai presenti che da giornalisti sono spesso chiamati ad illustrare le tesi di chi vuole che una legge sia o no promulgata, che se quando gli viene presentata una legge “dicesse, per esempio: “non promulgo questa legge perché c’è forse qualche dubbio di costituzionalità che potrebbe racchiudere e raffigurarvisi”, si arrogherebbe indebitamente il compito che è rimesso alla Corte costituzionale”.

“O se, addirittura, dicesse: “non firmo questa legge perché non la condivido, perché, a mio avviso è sbagliata”, farebbe ben altro, andrebbe al di là di qualunque limite posto dalla Costituzione nel rapporto tra i poteri dello Stato e tra gli organi costituzionali”.

“Quando il Presidente della Repubblica promulga una legge, non fa propria la legge, non la condivide, fa semplicemente il suo dovere, che è quello che ho descritto”.

A conclusione delle sue considerazioni Mattarella ha aggiunto che “qualche volta ho come l’impressione che qualcuno pensi ancora allo Statuto Albertino in cui, come è noto, la funzione legislativa veniva affidata congiuntamente alle due Camere e al re. Quando le Camere approvavano la legge, il re prima di promulgarle doveva apporre la sua sanzione, cioè la sua condivisione nel merito, perché aveva anche attribuito il potere legislativo.

Fortunatamente non è più così. Il Presidente della Repubblica non è un sovrano, fortunatamente, e quindi non ha questo potere”.

E qui, ovviamente, il pensiero corre alle leggi razziali, d’iniziativa del Governo Mussolini, approvate dalla Camera dei Fasci e delle Corporazioni e dal Senato del Regno, che, notoriamente, il Re Vittorio Emanuele III non condivideva. Giusta la considerazione del Presidente quanto al potere legislativo, come delineato dallo Statuto Albertino. Sennonché quello Statuto, che aveva garantito le libertà fondamentali dell’uomo e del cittadino fin dal 1848, era una costituzione cosiddetta “flessibile” che, cioè, poteva essere modificata da leggi ordinarie e dalla prassi costituzionale per cui l’originaria funzione di “condivisione nel merito” da parte del Sovrano si era dissolta ed il Re, che era notoriamente un formalista, non avrebbe promulgato quelle norme, che aveva fatto sapere di aborrire, come riferisce lo stesso Mussolini, se avesse avuto ancora la funzione di apporre la sanzione con l’originario significato richiamato da Mattarella. Come aveva potuto fare prima che il Fascismo trasformasse, con la complicità della politica, la natura della “Monarchia rappresentativa” e liberale in un regime autoritario, incidente perfino sul funzionamento del Parlamento, considerato che “nessun oggetto può essere messo all’ordine del giorno di una delle due Camere, senza l’adesione del Capo del “Governo” (art. 6 della legge 24 dicembre 1925, n. 2263). Una norma oggi inconcepibile. L’avvenuta mutazione statutaria è sottolineata anche dal fatto che il 25 luglio 1943, con l’approvazione dell’ordine del giorno Grandi, il Gran Consiglio del Fascismo delibera di restituire “al re la integrità dei poteri statutari” (R. Martucci, Storia Costituzionale Italiana, p. 242).

In ogni caso oggi, in Repubblica, se il Presidente decide di rinviare alle Camere una legge richiedendo loro di procedere ad una nuova deliberazione (art. 74 Cost.), una volta riapprovata, il Presidente “deve” promulgarla. 

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