di Salvatore Sfrecola
Il mio ricordo di Ferdinando Imposimato è, come l’ho conosciuto, quello della foto della copertina del suo libro “Le inchieste di una vita” (Koinè, Roma, 2023, pp. 343, € 25,00), sorridente, ironico, sereno. Come dovrebbe essere sempre un magistrato, anche se Giudice istruttore e, quindi, un po’ investigatore, su vicende drammatiche che hanno segnato la storia e le cronache di questo Paese, mafia, stragi, terrorismo e sequestri. Di questo e d’altro si è occupato nei quaranta anni della sua vita professionale. “La mia impressione – scrive nell’Epilogo del libro pubblicato postumo – è che la mafia è un ingranaggio del potere, si potrebbe perciò pensare che il potere non può distruggerla senza distruggere se stesso. Sarebbe una sorta di suicidio”. Una riflessione a consuntivo di una lunghissima esperienza professionale iniziata presso il Tribunale di Roma nel dicembre del 1970 dove era stato assegnato dopo essere stato per cinque anni al Tribunale di Milano come giudice istruttore, affaticato da furti, rapine, delitti passionali, bancarotte, truffe e traffico di droga. Voleva fuggire “da questo mondo di violenza, di sangue e di morte” e pertanto desiderava essere assegnato ad una sezione civile. Non fu possibile. Lo aveva preceduto una solida fama di magistrato con predisposizione per il penale e così fu assegnato all’Ufficio Istruzione diretto da Achille Gallucci che aveva fatto esplicita richiesta di poter disporre nella sua sezione del giovane e brillante collega. Naturalmente gli fu fatto presente che la posizione che gli veniva offerta era delicata, in un settore che “esige del tatto”. Ha a che fare con il mondo variegato di una città difficile: “ci sono i ministeri, i corpi diplomatici, gli alti funzionari, i partiti politici e il Vaticano, senza dimenticare una fiorente malavita. Bisogna evitare di sbagliarsi o almeno bisogna sbagliare il meno possibile”. Scrive: “in ogni processo ho sempre considerato l’errore come una probabilità. Mi è capitato di seguire una pista sbagliata ma, appena me ne sono accorto, ho sempre avuto l’umiltà di riconoscere il mio errore e di ricominciare”. L’umiltà è una dote importante per ognuno, massima per un magistrato. Purtroppo non è frequente come attestano clamorosi errori giudiziari inspiegabilmente non corretti in tempo. E la mente torna al “caso Tortora”.
Il tono perentorio del Presidente del Tribunale, condito con le lusinghe del ruolo prestigioso così delineato non ammetteva repliche o tentennamenti. “Non mi restava che obbedire”, scrive Imposimato ed inizia la sua prestigiosa carriera tra colleghi che calorosamente lo accolgono e funzionari di Polizia ed Ufficiali dei Carabinieri che, con altrettanta cordialità, iniziano una lunga collaborazione partendo da quella piccola stanza numero 867 del quinto piano di quell’orrendo palazzo di piazzale Clodio sede del Tribunale penale, un ufficio “minuscolo”, come lo definisce, ingombro di fascicoli, che condivide con Cosimo Legetto il suo prezioso segretario, pugliese di Gallipoli. Unica consolazione la visione di Monte Mario, della splendida villa Miami e delle bionde acque del Tevere.
Comincia con piccoli delitti, omicidi, furti, aggressioni, una routine che viene interrotta il giorno in cui gli è affidato un affare di traffico di droga tra Roma, la Sicilia e gli Stati Uniti d’America, un voluminoso dossier con centinaia di pagine di intercettazioni telefoniche, conversazioni tra mafiosi siciliani, romani e newyorkesi, personaggi pericolosi, schedati “ma sempre in libertà per mancanza di prove”. Un lavoro investigativo difficile perché “queste conversazioni non sono che un accumulo di frasi a mezza bocca, di sotterfugi, di allusioni, monosillabi ed eloquenti silenzi. Un linguaggio problematico e prudente, quasi codificato, che ha lo scopo di camuffare attività illegali senza rivelare alcun fatto preciso”. Eppure Imposimato si assicura il primo successo significativo. Avvalendosi di pedinamenti, sorveglianze e intercettazioni è in grado di fornire all’FBI una informazione che consentirà il sequestro di una rilevante partita di eroina proveniente da un laboratorio siciliano diretta negli Stati Uniti. L’operazione consentiva importanti arresti di membri dell’organizzazione mafiosa a New York, Roma e Palermo, compreso il Capo dell’organizzazione siciliana, Gaetano Badalamenti, Don Tano, rinchiuso all’Ucciardone. In Sicilia Imposimato incontra per la prima volta un giovane Capitano dell’Arma dei Carabinieri, Carlo Alberto Dalla Chiesa, che farà anche lui una carriera prestigiosa al servizio dello Stato combattendo Mafia e terrorismo, per poi cadere in un proditorio agguato insieme alla giovane moglie Emanuela Setti Carraro.
Delineate le prime attività di Imposimato si comprende meglio quel che scrive Giuseppe Lombardo nella prefazione al libro. “La storia, maestra di vita, ha bisogno di esempi. Di testimonianze che siano in grado di tracciare la strada a chi ha voglia di andare oltre le apparenze”. Perché i fenomeni complessi vanno conosciuti a fondo attraverso una investigazione che è “la premessa imprescindibile del lungo percorso di conoscenza, da attuare senza timori o incertezze che possano condizionare la ricostruzione giudiziaria di accadimenti che hanno segnato la nostra storia”. Fenomeni, scrive Lombardo, in continua evoluzione, perché il sistema criminale “vive e si alimenta di dinamiche raffinate, particolarmente innovative e tendenzialmente invisibili, fortemente orientate a programmare e attuare operazioni sistemiche, in grado di generale deviazioni profonde – ed apparentemente senza responsabili immediati – in ambito politico economico e finanziario”.
È quello che Imposimato apprende presto, che comprende nelle sue fondamenta quale sistema integrato in ambito nazionale e internazionale, che si avvale di professionisti, di infedeli operatori delle istituzioni, di operatori bancari e finanziari corrotti mentre un fiume di denaro inquina i mercati e condiziona anche le scelte della politica. Perché “la mafia è un ingranaggio del potere”, come abbiamo sentito dalle parole dell’Autore nell’epilogo che in qualche modo riassume la sua lunga e variegata esperienza. Per cui, scrive Lombardo, questo libro assume un rilievo particolare, “è uno straordinario strumento per evitare che si ripeta il drammatico errore già fatto in epoca antecedente alla stagione delle stragi quando si era portati a considerare Cosa Nostra un insieme di criminali in carriera, temibilissimi, che mai avrebbero trovato il coraggio di colpire lo Stato nelle sue componenti più esposte.
Purtroppo, il sistema mafioso integrato fa questo e molto altro… è capace di uccidere senza generare clamore mediatico, è capace di corrompere senza muovere un solo euro, è capace di eterodirigere operazioni complesse, anche in ambito internazionale, senza fornire indicatori di riconoscibilità esterna in grado di orientare immediatamente l’investigazione”.
È il “metodo mafioso” che Ferdinando Imposimato ha investigato nel corso della sua lunga e prestigiosa carriera che si snoda pagina dopo pagina in una narrazione che tiene il lettore come in un giallo tanto la descrizione dei fatti e degli incontri con gli inquisiti è condotta con sapiente capacità espositiva in un linguaggio di facile comprensione, come lo ricordo quando abbiamo avuto occasione di parlare di alcune sue indagini delle quali ha scritto in autonomi volumi.
Tra i primi ricordi l’incontro con Badalamenti, un colloquio, un incontro al fioretto tra il capo dei capi, responsabile di gravissimi reati, compiutamente provati e il suo giudice. Quell’interrogatorio si conclude con un nulla di fatto. Badalamenti rimane all’Ucciardone e Imposimato impara che in quell’ambiente “gli affiliati a Cosa Nostra sono i padroni del luogo”. Di là continuano a comandare ed a trasmettere i loro ordini.
Come ha scritto il dottor Lombardo effettivamente la ricostruzione dettagliata dei quarant’anni di storia giudiziaria per la parte che vi ha avuto il Giudice Imposimato sono un autentico manuale delle investigazioni su una vasta serie di reati ognuno dei quali si caratterizza per i comportamenti tenuti e per l’ambiente nei quale sono maturati e si sono svolti. Imposimato ha intuito e capacità investigative che lo fanno apprezzare da Achille Gallucci che gli affida indagini sempre più importanti e complesse. Come nel caso dell’attentato al Commissario Angelo Mangano che proietta Imposimato nel contesto della mafia nel quale è già emerso Luciano Liggio, il boss sanguinario, un freddo assassino, “il gangster più feroce della nuova mafia”, ricercato invano da poliziotti e magistrati. Puntuale e dettagliata l’esposizione che Imposimato fa dell’organizzazione mafiosa che domina la Sicilia attraverso personaggi in qualche caso insospettabili con incarichi molteplici in attività di carattere economico, come don Michele Navarra, direttore dell’ospedale di Corleone, e dei luoghi nei quali s’incontrano esponenti locali e americani, come al Grand Hotel et Des Palmes. E una sfilza di nomi, il sindaco Vito Ciancimino l’onorevole salvo Lima che sarà ucciso in un agguato e poi l’ambiente che Imposimato descrive con singolare maestria.
Imposimato non trascura anche di richiamare la sua famiglia d’origine, le parentele di Maddaloni, gli studi e poi il concorso a Commissario di Polizia, il suo apprendistato in Emilia Romagna, a Forlì, a contatto con la complessità dell’attività amministrativa con le prime inchieste, i primi interrogatori, i primi arresti. Sono anni di vivaci contrasti sociali, con scioperi e scontri, spesso violenti fra manifestanti e Forze dell’Ordine. Dal Ministero dell’interno a quello del Tesoro A Roma dove si forma ad altre problematiche amministrative e finanziarie ed acquisisce altra esperienza importante a fianco dei funzionari pubblici in un settore che comunque è stato formativo anche per la sua successiva attività in magistratura nella quale entra nel 1964, prima a Milano, poi a Roma, come abbiamo visto. Di tanto in tanto emergono tratti di vita privata, le amicizie con Francesco Rosi, che lo mette in guardia dai pericoli della mafia, e Federico Fellini, “appassionato di storie di mafia”. E, poi, la sua famiglia, con la moglie Anna Maria compagna di una vita, che diventerà magistrato della Corte dei conti, le figlie amate, Sandra e Chiara, “le tre donne della mia vita” scrive. Ma in famiglia c’è anche un cane lo yorkshire Filippo, il cocco delle donne di casa.
Impara presto a conoscere la vera natura della Mafia “una multinazionale del crimine”. Gli era stata utile l’esperienza del Commissario Mangano che gli rivela i motivi per i quali aveva subito un attentato che avrebbe dovuto eliminarlo una volta per tutte. Il racconto è dettagliato, come un triller che pagina dopo pagina avvicina il lettore alla conclusione dell’inchiesta, attraverso intercettazioni, confidenze, suggerimenti, riflessioni cui non sono estranei giornalisti d’inchiesta che offrono e cercano notizie o conferme. Poi gli interrogatori, come quello di Frank Coppola “Tre Dita”, nel quale emerge la personalità del boss in un confronto drammatico con il Commissario Mangano che aveva tentato di far uccidere. Nello stesso tempo sono i contrasti con Carmelo Spagnolo, il potentissimo Procuratore Generale che riceverà una messa in stato di accusa per associazione a delinquere firmato Ferdinando Imposimato ed Enrico Di Nicola.
Il libro si snoda lungo inchieste poco note al grande pubblico ma ugualmente importanti per il magistrato, nelle quali il suo intuito e la perseveranza lo premiano con risultati a volte insperati, come nel caso Papaldo. Poi il sequestro Chiacchierini e la collaborazione con Vittorio Occorsio, il Pubblico Ministero che sarà ucciso dai terroristi “neri”. Un nome “che va ad aggiungersi a una lunga lista di rappresentanti dello Stato uccisi da nemici dello Stato perché lo Stato non ha saputo proteggerli e difenderli”. I sequestri servono a finanziare le attività criminali. E a Roma insieme a siciliani, sardi, calabresi, francesi e colombiani emerge la banda della Magliana guidata da un corleonese. “La mafia è presente ovunque” è la conclusione. Ma scoprirà che in alcune attività criminali operano elementi appartenenti a logge massoniche deviate. E si mette sulle tracce dei riciclaggi della malavita, un profilo investigativo che lo vedrà protagonista in importanti inchieste, perché il denaro viene reinvestito in attività commerciali anche nel centro di Roma. La guerra alla criminalità è senza tregua; cominciano i controlli bancari e i sequestri tra l’Italia e la Confederazione Svizzera soprattutto.
È il 16 Marzo 1978 quando viene rapito Aldo Moro il Presidente della Democrazia Cristiana e l’Italia conosce la realtà delle Brigate Rosse che dividono l’opinione pubblica tra chi voleva salvare l’ostaggio e chi era intransigente, pronto ad accettare il suo sacrificio. E qui Imposimato impone la sua strategia: “voglio che dichiariamo guerra ai criminali. Voglio che adottiamo una strategia militare, che interveniamo nel momento del pagamento del riscatto!” Non solo. Imposimato sperimenta la collaborazione con altri colleghi, con Rosario Priore e Francesco Amato, una scelta dettata non dall’amicizia ma dalla stima e dall’esperienza di entrambi.
“Per combattere, un nemico bisogna conoscerlo”. Conoscere le Brigate Rosse non è facile. Nascono all’interno del mondo politico e dopo un periodo nel quale conducono azioni spettacolari senza mai uccidere alzano il tiro. La prima vittima è Francesco Coco, Procuratore della Repubblica della Corte d’appello di Genova, poi uno stillicidio di uccisioni, quasi quotidiane. È un clima di terrore che per un magistrato impegnato nelle investigazioni sulle Brigate Rosse è limitazione della vita. Imposimato non può, come ogni altro cittadino, andare al cinema con la moglie, camminare con le figlie, incontrare amici e passeggiare sui viali ombreggiati del Pincio.
Segue la narrazione degli accordi con investigatori italiani e stranieri e il primo uso, favorito da un investigatore americano, di una microspia che, collegata via radio radar ad una macchina, permetteva di seguirne gli spostamenti. La materia dei sequestri è delicatissima, c’è di mezzo la vita dell’ostaggio, l’angoscia delle famiglie, la tensione dell’opinione pubblica. Ogni “errore” può portare la perdita di una vita umana e gettare discredito sulle istituzioni.
Come nel caso del sequestro Moro, che ancora conserva lati oscuri, tra errori ed omissioni che forse avrebbero potuto salvare la vita dell’ostaggio. Ma forse il destino era segnato, come abbiamo letto in alcuni libri e Moro “doveva” morire. “Poteva essere liberato, scrive Imposimato. Non l’hanno voluto”.
Altro sequestro “eccellente” è quello di Michele Sindona il “banchiere di Dio” lodato pubblicamente eppure Ehi vicino ad ambienti malavitosi. Le pagine di questa indagine sono di estremo interesse, tra Roma e New York con la collaborazione importante dell’FBI e di importanti investigatori italiani. Straordinario l’interrogatorio di Sindona che rivela le sue relazioni e i suoi molteplici rapporti che il libro sviluppa successivamente anche con riferimento ai rapporti con il Vaticano, in una visione precisa dell’ascesa e della caduta di Sindona anche se alcuni punti rimangono obiettivamente oscuri.
Un altro capitolo importante riguarda la vicenda di Roberto Calvi di Monsignor Marcinkus, dove si intrecciano affari e malaffare. Infine l’omicidio del Generale Dalla Chiesa che Imposimato aveva conosciuto da giovane Capitano dei Carabinieri al primo viaggio in Sicilia sulle orme della Mafia.
Nella parte finale la dolorosa vicenda dell’uccisione del fratello Franco per il quale Ferdinando Imposimato ha parole di affettuoso dolore. “Era un essere generoso che amava il nostro paese e i suoi paesaggi che difendeva coraggiosamente contro la cupidigia dei costruttori”. E si chiede il perché di quella morte per concludere “è morto al mio posto… per fermare le mie indagini”.
Il libro corre verso le ultime importanti attività di Ferdinando Imposimato che si occupa dei traffici di droga anche in collegamento con l’Onu. Viaggia lì dove la droga viene coltivata e prodotta, va a Vienna dove incontra le autorità e gli investigatori che si occupano di lotta alla droga.
Il libro non parla della sua ultima attività politica. Parlamentare per tre legislature è stato componente della Commissione Antimafia. Si è dedicato alla battaglia per il referendum costituzionale del 2016 e alla difesa dei diritti umani, impegnato nel sociale al servizio della comunità di don Piero Gelmini. “Non posso dimenticare che la forza mafiosa trova origine nell’indifferenza, nella superficialità, nel distacco, nel cinismo e nella paura. Malgrado tutto voglio sempre credere nella vittoria della Giustizia.
È questo Ferdinando Imposimato.