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Giugno 2009

Il successo della Lega
La politica vicino alla gente
di Salvatore Sfrecola

     “La politica vicina ai cittadini – il localismo che porta voti”. Eloquente il titolo della nota settimanale di Francesco Alberoni, oggi sul Corriere della Sera. Eloquente e appropriato per un’esperienza troppo a lungo sottovalutata dai politici di professione dell’uno e dell’altro schieramento. Politici malati “di politica”, sempre a parlare dei massimi sistemi, della politica estera, dell’America di Obama, di Israele e dell’Olocausto, dell’Islam, temi senza dubbio importanti, ma di scarso interesse nelle competizioni locali, dove i cittadini decidono in relazione alle scelte fatte o promesse sul traffico, l’inquinamento atmosferico e acustico, la pulizia delle strade e il decoro urbano.
     Lo dice spesso il nostro Marco Aurelio quando si rivolge al Sindaco di Roma, Alemanno, invitandolo a fare il Sindaco, appunto.
     La Lega queste cose le ha capite da tempo. Anzi è nata sull’onda del malcontento delle popolazioni del nord est verso i politici locali con il complesso di Roma, nel senso che sindaci ed assessori hanno sempre avuto l’abitudine di passare più tempo a pensare alla politica nazionale verso la quale si sentivano proiettati, anziché pensare alle esigenze della “comunità amministrata”, come si esprime la legge sulla responsabilità amministrativa che affida alla Corte dei conti il controllo sulla corretta gestione del denaro pubblico, per dire che le finalità dell’amministrazione locale sono quelle di attribuire vantaggi e benessere ai cittadini.
     Così i politici della Lega si sono fatti interpreti delle necessità delle gente, del sentire dei cittadini, quanto a sicurezza delle città, a pulizia e regolamentazione del traffico. E i cittadini hanno risposto con il voto, largamente. Un voto non ideologico, come dovrebbe essere sempre il voto locale, per cui anche nelle roccaforti “rosse” la classe operaia ha voltato le spalle ai tradizionali referenti, spiazzando il Partito Democratico, come la borghesia ha spiazzato il Partito della Libertà. Il disagio è stato fonte di voti, un profluvio di voti per coloro che hanno interpretato le aspettative della gente, non a parole, ma con iniziative concrete in tema di sicurezza, soprattutto, e lotta all’immigrazione clandestina.
     Il successo della Lega deve far riflettere i nostri politici e restituire loro il senso della realtà, la comprensione delle esigenze della gente, perché questa è “la politica”, la gestione oculata e rispettosa delle leggi delle necessità della popolazione.
     Attenzione, dunque, la Lega insegna a fare politica sul territorio, con la gente e per la gente.
     Che poi la Lega sia, almeno in alcuni suoi esponenti, anche espressione di un localismo a volte poco compatibile con gli interessi nazionali, diciamo anche manifestazione di una mentalità a volte gretta, poco incline a declinare i valori della solidarietà e della Patria comune, queste mentalità costituiscono una sfida per politici di razza che possono inserire gli interessi locali in una visione più ampia e nobile della politica, che certamente anche quelle popolazioni apprezzerebbero.
     Politici di razza, ho detto. Certamente ve ne sono in tutti gli schieramenti, anche se non appaiono ancora all’orizzonte in numero sufficiente a restituire smalto e dignità alla politica. Ma, da inguaribile ottimista, mi auguro sempre meno chiacchiere e più fatti.
29 giugno 2009

La visita di Berlusconi a casa Mazzella,
Giudice costituzionale
L’immagine e la realtà dell’indipendenza
di Iudex

     Questo giornale è tornato ripetutamente sul tema dell’indipendenza della magistratura ricordando che regola fondamentale di chi è investito di funzioni giudicanti è quella di apparire oltre che essere indipendente.
     Alla luce di questa aurea, ma purtroppo dimenticata regola, che potrei definire elementare e di generale comprensione, la notizia, che riferisce l’Espresso oggi in edicola, secondo la quale il Giudice costituzionale Mazzella avrebbe organizzato un ricevimento al quale avrebbe partecipato il Presidente del Consiglio, crea un certo sconcerto.
     Naturalmente a casa sua Mazzella invita chi vuole. Ma è certo che, alla vigilia della decisione della Corte costituzionale sul c.d. “lodo Alfano”, la norma che sottrae alla Giustizia, per il periodo del mandato, il Presidente del Consiglio e le altre tre più alte cariche dello Stato, il Presidente della Repubblica ed i Presidenti di Senato e Camera, l’ospite Berlusconi è senza dubbio inopportuno.
     E’ vero che la Corte costituzionale non è un giudice qualunque ma il giudice delle leggi, organismo “politico” che deve verificare la fondatezza di eventuali dubbi di costituzionalità mossi da giudici, nel corso di un processo, a leggi delle quali gli stessi tribunali fanno nella specie applicazione. Un giudizio tecnico giuridico ma ispirato ai “valori” della Costituzione, che sono valori “politici”, tanto che questa valutazione è stata rimessa dalla stessa Costituzione ad un organo che è costituito da personalità scelte per due terzi con criteri “politici”, cinque dal Parlamento in seduta comune, cinque dal Capo dello Stato. Solo i restanti cinque sono designati dalle Magistrature, ordinaria e amministrative, Consiglio di Stato e Corte dei conti.
     Nella specie Luigi Mazzella, ex Avvocato Generale dello Stato ha ricoperto il ruolo di Ministro della funzione pubblica nel Governo Berlusconi ed è stato eletto dal Parlamento su designazione della maggioranza di allora, Forza Italia, Alleanza Nazionale, Lega. Come Paolo Maria Napolitano, anch’egli, secondo l’Espresso presente a casa Mazzella. Ex funzionario del Senato, nominato Consigliere di Stato dal Governo, eletto dal Parlamento nell’estate del 2006, subito dopo la fine del Governo, nel quale aveva ricoperto la carica di Capo dell’Ufficio legislativo di Gianfranco Fini, prima a Palazzo Chigi, poi alla Farnesina, anche Napolitano avrà certamente sentito imbarazzo a trovarsi di fronte il Presidente del Consiglio, visto che dovrà, insieme a Mazzella ed agli altri tredici giudici, decidere sulla legittimità costituzionale della legge Alfano.
     Conosco tanto Mazzella quanto Napolitano. Con il primo ho una lunga consuetudine per motivi istituzionali, con il secondo un’antica amicizia per aver egli prestato la sua collaborazione con me ed altri parlamentari, per la verità tra centro e destra, dove Napolitano milita fin dagli anni della scuola media.
     Nessuno dei due è sospetto di decidere sulla base delle idee della maggioranza che li ha designati. Sono di quelle persone per le quali, chiunque li conosce, metterebbe la mano sul fuoco. Mazzella e Napolitano sono soprattutto uomini di elevata professionalità giuridica e di sicura fedeltà alle istituzioni ed alle leggi dello Stato.
     Tuttavia è stata un’imprudenza, per il primo organizzare un ricevimento avendo ospite Berlusconi e per il secondo parteciparvi. Perché obiettivamente chi non li conosce, come li conosco io, potrebbe pensare che essi, dovendo decidere su una vicenda che interessa direttamente il Presidente del Consiglio, potrebbero non essere, almeno psicologicamente, del tutti indipendenti.
     Ritorna la necessità dell’apparire, oltre che, naturalmente dell’essere indipendenti.
    Hanno dunque sbagliato i due. Come ha sbagliato Berlusconi che ha messo in imbarazzo persone legate alla sua maggioranza. Ma forse il Premier lo ha fatto apposta. Ha voluto rimarcare che quei due Giudici costituzionali sono a lui “vicini”. “Senso dello Stato zero”, come ho sentito ripetere più volte da Gianfranco Fini.
27 giugno 2009

Studio Bce:  l’euro protegge Italia dal caos politico
Il riscatto della moneta unica
di Economicus

     La bistrattata moneta unica, l’Euro, che ha reso visibile l’avvio di una fase determinante dell’unità europea, si è presa una bella rivincita in uno studio della Banca Centrale Europea il quale ha concluso con l’affermazione che quella moneta protegge l’Italia dal caos politico.
     L’avevamo detto fin dall’inizio. Certe furbizie italiane oppure come le misure in passato adottate per contrastare l’inflazione, del tipo svalutazione della lira, non sono più possibili in regime di moneta unica assistita dal patto di stabilità e crescita imposto dal Trattato di Maastrict. E quindi le conclusioni della BCE, come sintetizza una nota delle Reuters di qualche giorno fa, sono nel senso che separare gli italiani dalla loro  valuta e dalle loro responsabilità di politica monetaria ha contribuito  a proteggere i mercati finanziari del paese dai suoi regolari periodi di  turbolenza politica.
     L’Italia, infatti, continua la Reuters, ha una delle più volatili storie politiche recenti nell’Europa  Occidentale. Ha avuto 60 governi dalla fine della seconda guerra  mondiale ad oggi, ha passato circa un decimo degli ultimi 35 anni senza  un governo formale, ha visto suicidi legati alla politica e attacchi  terroristici mossi su basi politiche.
     Nell’analisi della Bce, che ha preso in considerazione il  Paese dal 1973, l’introduzione dell’euro e il passaggio  delle decisioni di politica monetaria a Francoforte hanno portato a una  marcata riduzione della volatilità del mercato finanziario rispetto  all’epoca della lira. Di contro, la ricerca mette in risalto che i mercati finanziari italiani non hanno  risentito dei problemi politici fin dall’entrata in vigore dell’euro, sebbene non sia rallentato il ritmo dell’andirivieni politico del Paese.
     La Bce conferma, dunque, quanto gli osservatori più avvertiti avevano già segnalato. Questo non vuol dire che l’entrata in vigore dell’Euro non abbia portato altri problemi, provenienti da altre situazioni. Ad esempio, continua a far discutere la determinazione del cambio lira/euro, come il generalizzato aumento dei prezzi, dovuto a mancanza di controlli sulle speculazioni ed ad alcuni brutti esempi provenienti proprio dall’autorità pubblica. Basti pensare che il canone RAI l’anno prima dell’Euro era di poco più di 100 mila lire per diventare di 97 euro, esattamente il doppio e che la sosta tariffata nelle città italiane, quando era fissata a 1000 lire è stata immediatamente portata ad un euro.
     Tutto il resto è venuto di conseguenza sulle spalle dei cittadini che frequentano negozi e mercati. Tutte questioni che con l’euro non c’entrano e che riguardano solo pubbliche e private furbizie e disonestà.
23 giugno 2009

Qualcuno vuole interferire nelle decisioni del Papa?
Pio XII, la storia e la santità
di Salvatore Sfrecola

     Il portavoce Vaticano naturalmente ha smentito. Ma il fatto che, secondo Padre Perter Gumpel, relatore nella causa di canonizzazione di Pio XII, il Papa avrebbe subito pressioni da “rappresentanti delle organizzazioni ebraiche” perché il processo di beatificazione di Eugenio Pacelli non si concluda positivamente, non può essere passata sotto silenzio. Perché già in altre occasioni sono state espresse censure sul comportamento del Papa durante la guerra, nonostante le note iniziative di assistenza dei tanti perseguitati dai nazisti ospitati in conventi ed in edifici della Santa Sede, su cui esistono testimonianze abbondanti e non equivoche.
      In questa querelle organizzata spesso ad arte, quasi si volesse tenere sotto scacco la Chiesa cattolica, condizionarla nella sua azione quotidiana di evangelizzazione, una cosa va detta forte: il Papa, e nessun altro, è arbitro dell’accertamento delle virtù eroiche di Pio XII. A Lui spetta, dopo il processo canonico che, secondo le regole rigide della Chiesa Cattolica, scava a fondo sulla vita del candidato, decidere se Papa Pacelli merita di essere elevato alla gloria degli altari.
     Nessuno può e deve interferire nelle vicende della Chiesa, quando si occupa di vicende di fede.
     La tecnica dei veti, che mortifica spesso la vita politica, non si può applicare a questioni che non appartengono alla logica delle contrapposizioni ideologiche e di partito. Si tratta di interferenze che non fanno onore neppure a chi le attua, neppure se in buona fede. Nessuno deve intervenire nella vicende religiose che appartengono alla parte più intima della Chiesa, il riconoscimento o meno della santità in un uomo che ha vissuto, con ruoli diversi, sempre di primo piano i momenti più difficili della prima metà del secolo scorso, quando i popoli si scagliavano l’uno contro l’altro e i religiosi delle varie confessioni benedivano le bandiere e le armi di quanti si apprestavano ad usarle contro altri soldati, cioè contro quelli che devono essere considerati fratelli, dacché l’insegnamento del Nuovo Testamento ha sostituito alla legge del taglione, alla regola dell'”occhio per occhio”, l’amore verso il nemico. Un passaggio che forse qualcuno non ha ancora metabolizzato.
21 giugno 2009

Referendum sulla legge elettorale
Perché dobbiamo votare SI
di Salvatore Sfrecola

     Sul voto di oggi e domani che siamo chiamati ad esprimere sul referendum che propone di abrogare alcune norme della legge elettorale, il famigerato “porcellum”, come lo ha definito il suo Autore, si è scritto e detto molto, per spiegare le ragioni del “si”, del “no” e dell’astensione, un mezzo per non far raggiungere il quorum previsto dalla legge (50 per cento + 1 degli aventi diritto al voto).
     I sondaggi della vigilia dicono che tanti italiani non sanno nulla dei quesiti referendari e quindi delle conseguenze del voto. E’ un po’ di tutti i referendum che intervengono su norme complesse che il più delle volte è difficile aggredire con una ipotesi di abrogazione che passi il vaglio della Corte costituzionale. Il referendum tenta di migliorare quella che i più giudicano una pessima legge elettorale. Non può fare nulla di più. E’ la conseguenza della mancanza di una referendum propositivo. Così gran parte delle forze politiche incita all’astensione, compreso Di Pietro che aveva raccolto le firme. Lo fanno perché pensano che il risultato più probabile sia quello che votino in pochi e non vogliono essere tra i perdenti.
     Un argomento di chi si oppone o sollecita l’astensione è quello secondo il quale la vittoria dei «sì» non ci consegnerebbe un un buon sistema elettorale. L’obiezione non è esatta e comunque non coglie a pieno l’importanza dell’eventuale successo dei “si”.
     Innanzitutto sarebbe importante spostare il premio di maggioranza dalla coalizione di partiti alla singola lista, un modo per superare “l’aspetto più grave e pericoloso della legge elettorale in vigore: il fatto che essa non contiene alcun anticorpo contro la frammentazione partitica”, come ha scritto Angelo Panebianco sul Corriere della Sera.  Aggiungendo che la riduzione dei partiti, che può avvenire anche naturalmente, com’è accaduto nelle ultime elezioni, deve essere favorita dalla legge elettorale. Spiega, infatti, che “alle prossime elezioni il Partito democratico tornerà, presumibilmente, a una più tradizionale politica delle alleanze (ed è plausibile che, per diretta conseguenza, si manifestino tendenze disgregative anche a destra). La legge elettorale in vigore tornerà allora a sviluppare le sue letali tossine, alimenterà di nuovo la frammentazione partitica”.
      Sullo stesso giornale Giovanni Sartori, contrario al referendum, ha fatto due obiezioni, quella che, in caso di successo dei “si” il sistema elettorale consentirebbe al partito che raggiungesse anche solo il trenta per cento dei voti di aggiudicarsi il premio di maggioranza, con l’effetto di disporre della maggioranza assoluta dei seggi. Con la seconda obiezione Sartori rileva che, poiché il premio di maggioranza va alla lista più votata, si presenterebbero delle liste-arlecchino formate da partiti che si metterebbero insieme solo per conquistare il premio di maggioranza, pronte a dividersi di nuovo il giorno dopo.
     Si tratta di obiezioni teoriche che in politica contano meno di niente.
     La legge elettorale deve agevolare condizioni stabili, di governabilità. Un partito finto che si divide il giorno dopo le elezioni non è verosimile e comunque l’obiettivo deve essere quello della concentrazione delle forze politiche stimolando quello che le unisce per governare.
     C’è, poi, un argomento che milita a favore del “si” a mio giudizio decisivo. Tutti ritengono la legge attuale inadeguata, con varie argomentazioni e differenti sfumature. Ma nessuno fa una mossa per cambiarla. I partiti, infatti, e soprattutto la loro dirigenza amano questa legge che mette nelle mani di una ristretta oligarchia la scelta di deputati e senatori. Nominati nella realtà, eletti solo nella forma.
     Dunque la vittoria del “si” costringerebbe il Parlamento a fare una nuova legge e finalmente il cittadino si riapproprierebbe di un ruolo politico importante, quello di controllare i partiti attraverso scelte elettorali o referendarie.
     Il più grosso risultato del “si” sarebbe proprio questo, una sveglia alla classe politica chiusa in se stessa, la casta distante dai cittadini e dai loro interessi concreti, che è poi la critica che si fa al sistema politico italiano dei professionisti degli organi collegiali elettivi che non hanno fatto mai un lavoro se non quello di giornalisti o funzionari di partito, assolutamente incapaci di percepire i problemi della gente.
     Se non altro per questo vale la pena di votare “si”!
21 giugno 2009

Il premier assediato
Un concreto rischio di logoramento
di Senator

     Il rischio di un logoramento per il Premier, come ha titolato Massimo Franco oggi sul Corriere della Sera, è concreto e già se ne intravedono tutti gli elementi. Come l’ira di Berlusconi mandata in onda da SKY, nel corso di una conversazione con il suo avvocato, il lugubre Ghedini, con il volto sempre più scavato dalla massa di rumors che interessano il suo cliente.
    Non credo ad una crisi di governo a breve, ma è certo che il Premier e la dirigenza del Partito delle Libertà non possono trascurare questa evenienza perché quel lento processo di appannamento della figura del Presidente del Consiglio e Capo del partito potrebbe rivelarsi estremamente pericoloso per la maggioranza in un momento particolarmente difficile per il Paese che veleggia verso una riduzione significativa del PIL, mentre le promesse fatte, e spesso solo parzialmente mantenute, magari in tempi più lunghi di quelli indicati, cominciano a fomentare la protesta.
     In queste condizioni potrebbe anche far comodo al Cavaliere passare la mano, magari facendo un passo indietro che potrebbe accreditare come un nobile gesto di chi si sentisse ingiustamente coinvolto in vicende certo non edificanti.
     A chi potrebbe toccare la poco invidiabile eredità? Il Ministro dell’Economia è certamente la personalità di maggiore spicco del PdL, un tecnico abile con sensibilità politica, come rivelano talune sue aperture alla Chiesa che si intravedono nei libri più recenti. Ma “gode” di scarse simpatie. Ugualmente il   Governatore di Bankitalia del quale, pure, si è fatto il nome.
     D’altra parte non c’è un delfino, almeno designato. Capita sempre nelle autocrazie, dov’è naturale sentirsi invincibili e immortali, con la conseguenza che una crisi di governo o di partito a volte diviene crisi di regime.
     La storia, tuttavia, insegna che la persona giusta esiste sempre in natura. E se non è ancora apparsa all’orizzonte può affacciarsi in ogni momento, anche nel momento giusto. D’altra parte il centrodestra è ricco di personalità con sensibilità politica significativa. Fare nomi sarebbe sbagliato, ma tutti quelli che seguono le cose della politica hanno hanno qualche nome in mente.
     Il Presidente del Consiglio, ha scritto Massimo Franco, “sa di avere dalla sua parte il timore diffuso che una crisi improvvisa e traumatica crei un pericoloso vuoto di potere. Una caduta sull’onda di un’offensiva extrapolitica rischierebbe di lasciare il Paese senza una maggioranza; e con la prospettiva di un commissariamento di fatto dell’esecutivo, slegato dal responso elettorale: un ritorno agli ambigui governi “tecnici” dell’inizio degli Anni 90 del secolo scorso”.
     Analisi corretta, ma l’alternativa è l’ulteriore logoramento della maggioranza e del Paese. Né l’una né l’altro possono permetterselo nel bel mezzo di una crisi di grandi proporzioni, che incide su posti di lavoro e capacità delle famiglie e delle imprese di risalire la china.
     La prima cosa da fare, comunque, è quella di abbandonare la tesi del complotto. La verità è che alcuni atteggiamenti disinvolti del Premier e la sua straordinaria capacità di scegliere collaboratori modesti e spesso disinvolti dicono che Berlusconi si è fatto male da solo. L’opposizione fa il suo mestiere e zuppa il pane nel brodo che il Presidente del Consiglio ha preparato con estrema superficialità senza preoccuparsi della sua immagine che per un leader politico e capo di governo non può essere quella dell’uomo perennemente abbronzato con velleità di Ganimede.
     Quello di non saper scegliere le persone nella vita politica, come bene ha scelto in quella imprenditoriale, è uno dei grandi interrogativi sul futuro di Berlusconi che, al momento, è incerto e non è facile prevedere che abbia gli sbocchi che fino a qualche tempo fa era facile intravedere.
     Niccolò Ghedini, da buon avvocato, ha detto e ripete che Berlusconi non è ricattabile. Le vicende di questi giorni sembrano dire il contrario, almeno sotto il profilo dell’immagine, un guaio, direbbero i napoletani, che con un po’ di attenzione e senso della misura il Premier avrebbe potuto evitare, per suo tornaconto e nell’interesse del Paese.
19 giugno 2009

La Croce di Malta simbolo di solidarietà cristiana
di Salvatore Sfrecola

     Ho appena pubblicato la notarella sull’idiozia che colpisce quanti cercano di occultare o cancellare le croci dal paesaggio italiano, come se la storia potesse essere ignorata, che mi soffermo su un’altra Croce, quella dell’Ordine di Malta, ottagona, bianca sulla bandiera rossa, per dar conto della visita che domani 20 giugno il Gran Maestro dell’Ordine, Frà Matthew Festing, farà ai terremotati ospitati nelle due tendopoli di S. Felice d’Ocre e di Poggio di Roio, allestite dal Corpo Italiano di Soccorso dell’Ordine di Malta (CISOM) nei pressi de L’Aquila.
     Anche in questo caso è una Croce occultata. Non ho mai visto in televisione inquadrare quelle tendopoli, come non ho mai ho visto le telecamere soffermarsi sulle uniformi dei volontari del Corpo, né ho sentito parlare dell’apporto che, subito dopo il sisma, è stato dato ai soccorsi, anche con un’unità cinofila.
     E’ ancora un tentativo di oscurare una delle più significative realtà del volontariato, solo perché quel simbolo, la Croce, dà fastidio a qualcuno. Eppure  fin dalle prime ore del mattino del 6 aprile, 67 volontari fra medici, infermieri e soccorritori specializzati del Corpo italiano di soccorso dell’Ordine di Malta erano accorsi sui luoghi del sisma. Con il ripristino delle strutture locali di assistenza sanitaria, i due presidi medici avanzati allestiti nei campi e che hanno svolto nei primissimi giorni più di 150 interventi sono stati ora sostituiti da postazioni di Pronto soccorso con ambulanze a disposizione. Su incarico della Protezione civile, il CISOM rimarrà responsabile della gestione dei due campi per tutta la durata dello stato di emergenza.
     Con la sua seconda visita, dopo quella del 23 aprile, il Gran Maestro, Frà Matthew Festing, intende manifestare la sua vicinanza ai terremotati e, sollecitando l’aiuto di tutti i membri dell’Ordine, ha assicurato alle autorità italiane la sua disponibilità ad alleviare per quanto possibile le necessità che si presenteranno nei prossimi mesi.
     Proprio domani inizierà nel campo di Poggio di Roio la collaborazione di due squadre del Malteser Hilfdienst e del Malteser Hospitaldienst, i Corpi di soccorso dell’Ordine di Malta in Germania e in Austria. Tale aiuto, che rafforzerà la cooperazione tra i Corpi di Soccorso dell’Ordine in Europa, partirà con alcuni volontari in turno per dieci giorni che affiancheranno gli italiani in servizio.
     Chissà se la stampa e la televisione di accorgeranno di questi silenziosi volontari dell’assistenza!
19 giugno 2009

Quando si cancellano le croci
L’idiozia di nascondere le origini e la storia
di Salvatore Sfrecola

     Niente più croci sulle tombe del cimitero di Lugo (Ravenna), aveva deliberato l’amministrazione comunale. Sulle lapidi, possono essere riportati solo “dati anagrafici e fotografia”. Il motivo? “Non turbare le diverse sensibilità religiose”.
     Un’idiozia bella e buona. Sono stato in tanti cimiteri, visito di tanto in tanto il cimitero militare francese di Roma, sulla collina di Monte Mario, a me cristiano, cattolico, romano non turbano, come non hanno mai turbato la stella di David o altri simboli religiosi di fedi diversa dalla mia. Perché gli altri dovrebbero turbarsi per la croce che è simbolo della mia fede? In Italia, che ha per capitale Roma “onde Cristo è romano”, per usare le parole di Padre Dante?
     Non si comprende, se non con il desideri di azzerare l’identità spirituale, storica e culturale del nostro popolo.
     La gente, a Lugo di Romagna, questo lo ha capito ed ha protestato. Con forza. Al punto da costringere il Sindaco a fare una poco gloriosa  marcia indietro.
     Sempre per non “offendere” i seguaci dell’Islam – leggo su Corrispondenza Romana  n. 1097, del 20 giugno – anche il Parroco del quartiere di Genova Legaccio, don Prospero Bonzani, ha organizzato un momento di preghiera tra cattolici e musulmani, invitando alla benedizione i cattolici a “non farsi il segno della Croce”. E’ quel sacerdote che a Natale aveva allestito un Presepe con una moschea, poi rimosso dopo l’intervento della Curia.
     Idiozie, incapacità di aver consapevolezza delle proprie radici, della propria storia, della propria cultura. Atteggiamenti che vanno combattuti con decisione, giorno dopo giorno, ovunque qualcuno cerchi di manomettere la storia e tenti di farci perdere la nostra identità. Perché chi dimentica il proprio passato non ha avvenire. Lo si è detto tanto e va ribadito con forza, sempre.
19 giugno 2009

Dove si sperpera il pubblico denaro
A Santa Marinella
un catamarano acquistato dal Comune
è abbandonato dal 2004
di Catone

     Un caso di cattivo uso del pubblico denaro si legge in una sentenza della Corte dei conti, la n. 1079, del 10 giugno 2009, della Sezione giurisdizionale per la Regione Lazio.
     E’ accaduto che il Comune di Santa Marinella abbia acquistato un catamarano  con fondo in vetro, contrassegnato sulla fiancata con la scritta “Città di Santa Marinella” attualmente in stato “di assoluto abbandono…,   ormeggiato nel porto di Santa Marinella, privo di custodia ?.. con il fondo di vetro a contatto con l’acqua marina completamente occluso dalla vegetazione marina (denti di cane, cozze e alghe), sbandato di lato, con all’interno dello scafo circa 10 – 15 cm di acqua stagnante, come si legge nella sentenza, “privo della maggior parte delle dotazioni di bordo (probabilmente asportate da ignoti)”.
     L’iniziativa dell’acquisto del mezzo era stata assunta dal Comune a seguito di un progetto denominato “PYRGI SOMMERSA” finalizzato a creare un servizio turistico culturale che, tramite una imbarcazione a fondo trasparente, potesse consentire, ai visitatori della zona archeologica sommersa di Pyrgi e del Castello di Santa Severa, la visione dei resti archeologici sottomarini sommersi.
     Tuttavia il natante, acquistato per 94.500,00 euro, dopo poche visite guidate, è risultato non idoneo al servizio, sia per le condizioni meteo marine, che per le stesse  caratteristiche strutturali dell’imbarcazione, anche perché il R.I.N.A. (Registro Italiano Navale) espressamente classifica il natante tra quelli destinati  alla navigazione – nazionale locale in acque tranquille a non più di un miglio dai porti in condizioni meteomarine favorevoli. Inoltre avrebbe dovuto essere governato da personale specializzato del quale il Comune di Santa Marinella non dispone.
     Il servizio, sospeso sul finire del mese di agosto 2004, non ha più funzionato
     La condanna al risarcimento del danno erariale, patrimoniale e all’immagine del Comune, è stata inflitta al dirigente del servizio che ha istruito la pratica il quale, si legge nella sentenza, ha posto in essere “una condotta che si è caratterizzata per una palese e grave inosservanza dei canoni della diligenza richiesta per il corretto e legittimo adempimento dei propri doveri d’ufficio,   sicché appare indubbia la sua caratterizzazione in termini di colpa grave”.
    E io pago!, diceva Totò a conclusione di denunce di spreco.
18 giugno 2009

I tassisti romani e l’aria (condizionata)
di Salvatore Sfrecola

     Stamane, ore 13,20 mi reco a Piazza Mazzini per prendere un taxi. Chiedo al tassista, come ormai sono abituato a fare, se usa l’aria condizionata. Il primo mi dice di no, il secondo che ha l’impianto rotto. Il terzo mi fa notare che stava con i finestrini abbassati, segno che aveva già messo in funzione l’impianto di climatizzazione.
     Nel corso del tragitto mi fa presente di non capire perché tanti suoi colleghi non vogliano usare l’impianto. Per pochi euro in più, mi dice, tanto costerebbe, a fine giornata, il maggior consumo di benzina. Replico che lascio sempre una mancia, anche un euro o più a chi mi consente di viaggiare comodamente in questa stagione torrida. Conviene con me ma è certamente un caso raro.
     Dopo quasi tre ore mi reco alla stazione taxi di piazza Barberini. Anche qui solo il quinto taxi, guidato, tra l’altro, da una gentile signora usa l’aria condizionata. Il primo mi ha detto che non la usa, il secondo che non è tenuto anche se lo chiedo, il terzo che gli fa male. Anche il quarto non la usa. Nessuno si è vergognato.
     Non so se il Sindaco Alemanno o qualcuno da lui delegato segue la gestione del servizio taxi. Nella mia esperienza è uno dei peggiori che ho conosciuto in Europa. E poiché non ne uso molto, se non sono tremendamente sfortunato, statisticamente parlando vuol dire che i tassisti a Roma fanno fatica ad entrare in Europa.
     Ho parlato di aria condizionata. Ma siccome non la usano, spesso gli autisti, che stanno in macchina, al caldo, per molte ore, sono maleodoranti.
     Aggiungo che a voler usare la climatizzazione dell’auto dovrebbero essere proprio i tassisti che passano ore sotto il sole cocente. La climatizzazione, con circuito dell’aria interna, inoltre, li metterebbe al riparo da affezioni polmonari, inevitabili per chi, girando con i finestrini aperti, respira tutto lo smog di questa città, inquinata dai motorini e dalle tante auto che non hanno il bollino blu.
     Da romano questa situazione mi indigna.
     Avevo delegato a Marco Aurelio, il mio arguto collega di penna, i commenti su quel che non va a Roma, dalla sporcizia al servizio taxi, appunto.  D’ora in poi scriverò anch’io per denunciare questa pessima gestione del servizio che, per colpa certamente di una minoranza, fa fare brutta figura ad una categoria nella quale operano tante ottime persone.
17 giugno 2009       

Emanuele Filiberto di Savoia:
l’ingombrante fardello della storia
di Salvatore Sfrecola

     Candidato UDC alle europee, non eletto nonostante l’appeal televisivo conquistato “Ballando con le stelle”, il Principe Emanuele Filiberto di Savoia cambia bandiera e, contro le indicazioni del suo partito, appoggia, nel ballottaggio per la Presidenza della Provincia di Torino, il candidato PdL, Claudia Porchietto.
     Per la verità il Principe che, nell’esordire sul piccolo schermo aveva detto “voglio dimostrare che so cominciare da zero. Che so lavorare duro”, non è nuovo a divagazioni politiche giacché, prima di essere accolto tra le braccia di Casini, che in televisione lo chiamava Filiberto, aveva a lungo frequentato Forza Italia, nella Capitale sponsorizzato da Roberto Mezzaroma, già parlamentare europeo DC, presidente di un Circolo molto attivo, ispirato da Dell’Utri.
     Per carità, la coerenza non si richiede ai politici o aspiranti tali, anche se è normalmente apprezzata dagli elettori, ma il Principe che vuole “cominciare da zero” e “lavorare duro” dovrebbe anche tener conto del suo cognome e della storia della sua famiglia. Che è parte essenziale della storia d’Italia e, tra luci ed ombre, che non mancano in nessuna dinastia regale o politica, ha contribuito in modo determinante all’unità d’Italia che ci apprestiamo a ricordare nel centocinquantesimo dell’istituzione del Regno.
     Il fatto è che quando si porta un nome illustre, della politica, della scienza, delle professioni, e ancor più quando quel nome è sui libri di storia indissolubilmente legato alle vicende che hanno dato lustro all’Italia nei secoli, è richiesta in chi se ne fregia un po’ di umiltà, per apparire fedele all’immagine costruita dai suoi antenati e fatta propria dalla gente. Il suo omonimo, Emanuele Filiberto è stato un grande generale,  a capo dell’esercito imperiale a San Quintino, saggio riformatore del Ducato di Savoia, Eugenio ha sfoderato la sciabola per difendere Vienna dai turchi.
     Un nome è anche una responsabilità, per chiunque. Tanto più grande se quel nome evoca la storia. E allora  fa bene il Principe a “cominciare da zero” ed a promettere di “lavorare duro”. Inizi subito, studiando un po’ di più anche la lingua del suo Paese con la quale ha qualche, comprensibile, difficoltà. Assuma un ruolo professionale, come si deve nelle classi più elevate. La facile pubblicità non si addice a un illustre erede di un nome che è certamente ingombrante. Ma solo per chi non ha spalle forti.
17 giugno 2009

La potente lobby dei gestori degli stabilimenti balneari
Quando lo Stato non valorizza i beni demaniali marittimi
di Salvatore Sfrecola

     In prossimità dell’estate, ogni anno, torna alla ribalta il problema dei canoni demaniali marittimi, cioè delle somme che i gestori degli stabilimenti balneari o delle attività economiche (bar, ristoranti, ecc.) debbono allo Stato per effetto della utilizzazione, a fini imprenditoriali, di tratti di arenili.
     I termini del problema sono i seguenti: lo Stato unico proprietario delle spiagge e del lido del mare, in quanto demanio necessario, può dare in concessione quei beni per uso turistico a fronte del pagamento di un canone, come si chiama l’affitto dei beni demaniali. Si tratta di somme spesso modeste, poche centinaia o migliaia di euro al massimo, poco più, come osserva oggi il Corriere della Sera, dell’importo di un abbonamento per una cabina di lusso.
     Lo Stato ha tentato più volte di aumentare i canoni, sempre ostacolato dalla potente lobby dei gestori i cui argomenti sono di vario genere, complice un atteggiamento tollerante dell’amministrazione pubblica, prima quella marittima, oggi degli enti locali. In questi ambienti si sostiene, infatti, e la tesi è ovviamente ripresa dai gestori, che coloro che svolgono attività imprenditoriale sulle spiagge in realtà svolgono una funzione pubblica in quanto tengono pulito l’arenile ed assicurano la tutela dei bagnanti con servizi di assistenza vari, a cominciare dai bagnini. Di più, qualcuno afferma che non si può attraverso il canone far pagare una tassa ai gestori.
     Occorre fare chiarezza in proposito.
     In primo luogo c’è una regola fondamentale. Lo Stato proprietario del bene lo concede in uso per finalità imprenditoriali e quindi deve trarne una utilità che va rapportata al valore del bene. E’ evidente, infatti, che una spiaggia al centro di una località turistica “in” non ha lo stesso valore imprenditoriale di una identica porzione di costa fuori del centro abitato. Ugualmente deve dirsi della conformazione della costa, se rocciosa o sabbiosa e, in questo caso, di quale dimensione.
     Detto questo e considerato che il valore del bene, in quanto destinato ad attività produttive, dovrebbe determinare la misura del canone, lo Stato non dovrebbe considerare altro, neppure l’attività di pulizia dell’arenile (che, peraltro, è configurata nel disciplinare come un onere del concessionario), che sarebbe compito dello Stato o dell’ente locale assicurare per la sicurezza dei bagnanti, ove la spiaggia fosse totalmente “libera”. Infatti la pulizia degli spazi per l’attività imprenditoriale turistico-ricreativa è esigenza che il gestore dovrebbe soddisfare anche se svolgesse l’attività in un locale chiuso o fornito di un giardino.
     Ma ammesso che si debba considerare in una certa misura l’utilità pubblica, a fini generali, dello stabilimento balneare questa dovrebbe essere misurata e considerata nella determinazione del canone.
     Da ultimo ho sentito ripetere più volte in ambienti di autorità che provvedono al rilascio delle concessioni demaniali marittime, che erano prima lo Stato, attraverso le Capitanerie di Porto, oggi gli enti locali, che attraverso il canone si farebbero pagare, di fatto, le imposte. Sciocchezza di proporzioni gigantesche, tanto, facevo notare a simili interlocutori, che se avessero affittato un loro immobile evidentemente ne avrebbero ricevuto un canone, mentre in caso di locazione ad imprenditori o professionisti questi avrebbero pagato le imposte per effetto dei guadagni conseguenti alla loro attività, Come i gestori degli stabilimenti balneari pagano le imposte sulla base dei guadagni che derivano dalla loro attività.
     Con queste fantasiose elucubrazioni mentali lo Stato perde denaro che sarebbe necessario per la comunità. Un caso da Corte dei conti che, infatti, è intervenuta per sanzionare l’omessa individuazione, da parte delle regioni, delle aree di maggior pregio e, pertanto, meritevoli di canoni più elevati, e per la complessiva gestione del patrimonio demaniale marittimo sul quale l’Agenzia del Demanio dovrebbe assumere determinazioni più confacenti alla tenuta degli inventari ed alla valorizzazione dei beni. Lobby permettendo, ovviamente.
16 giugno 2009

La decisione del Presidente della Camera di annullare l’incontro con Gheddafi
Fini ed il recupero della dignità nazionale
di Salvatore Sfrecola

     La decisione del Presidente della Camera, Gianfranco Fini, di annullare l’incontro con il “Colonnello” Gheddafi dopo aver atteso invano per oltre due ore che il leader libico si presentasse a Palazzo Montecitorio, ha restituito all’Italia un po’ di quella dignità che, per esigenze diplomatiche pure comprensibili, msa anche per sostanziale debolezza del governo, era stata accantonata nei giorni precedenti, per aver tollerato di tutto, dalla foto appuntata sulla giacca del dittatore al silenzio con il quale è stata accolta la consueta litania di improperi nei confronti della passata esperienza coloniale italiana. Un’esperienza non del tutto negativa, come ho già scritto su questo giornale quando mi sono augurato che qualcuno dei patres conscripti che avrebbero accolto il Dittatore di Tripoli nella Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani si sarebbe presentato con appuntata sulla giacca una foto delle tante opere pubbliche e sociali realizzate in Libia dall’Italia. Aggiungendo che ci sarebbe voluta più di una foto, un book, di quelli a soffietto, che un tempo andavano di moda, per ritrarre scuole, strade, ospedali, villaggi rurali, fabbriche che i governi vollero lungo il mezzo secolo nel quale la Libia fu la quarta sponda d’Italia.
     L’Italia si è scusata con il “Colonnello”. Certamente troppo, tanto da dargli il destro di rimarcare pesantemente le nostre “colpe” e quelle del nostro principale alleato, gli Stati Uniti d’America, una provocazione, come ha detto al Corriere della Sera l’ex ambasciatore USA a Roma, Ronald Spogli, che serve molto a Gheddafi sul piano interno, ma che potrebbe avere effetti negativi anche sui rapporti con i cittadini italiani, soprattutto imprenditori, che, in altra sede, il leader libico avrebbe invitato a tornare per investire. Infatti la propaganda antitaliana avrà certamente effetti negativi sulla popolazione locale che potrebbe riversarsi sui nostri imprenditori e lavoratori che si recassero ad operare laggiù.
     Ha fatto, dunque, bene Fini a restituire dignità al nostro rapporto con il presidente libico. La dignità non si svende nei rapporti interpersonali e meno che mai in quelli internazionali nei quali  l’arroganza tollerata può causare gravi squilibri nelle relazioni tra gli stati.
     D’altra parte Gheddafi non è nuovo a comportamenti non coerenti rispetto a precedenti promesse o accordi, in uno stillicidio di provocazioni, come quelle rappresentate dalla evidente inerzia delle autorità di Tripoli nei confronti dei clandestini che vengono avviati verso le coste italiane da mercanti di uomini che prima reclutano, poi imbarcano quei disperati, attività che non possono sfuggire ad una polizia anche se di modeste capacità di controllo del territorio.
     Gheddafi utilizza i profughi verso l’Italia per premere sul nostro governo ed ottenere ricche “riparazioni” ed aiuti finanziari che nessun  altro paese occidentale, con un passato coloniale, concederebbe.
      Purtroppo, nonostante la presa di posizione di Fini, la dignità dell’Italia nei confronti del predone del deserto sarà ancora messa alla prova e difficilmente salvaguardata.
14 giugno 2009

Il discorso di Napolitano al CSM
Quel monito ai giudici forse per prevenire
di Salvatore Sfrecola

     L’auspicio: “l’avvio di un’aperta, seria, non timorosa, riflessione critica da parte della magistratura su sé stessa, e la sua conseguente apertura alle necessarie autocorrezioni, siano il modo migliore per prevenire qualsiasi tentazione di sostanziale lesione dell’indipendenza della magistratura”. Il 9 giugno, dinanzi al Consiglio Superiore della Magistratura, il Presidente della Repubblica, che lo presiede, è voluto tornare sul tema degli equilibri costituzionali “come garanzia per il rispetto e l’affermazione dei principi fondamentali, per l’esercizio dei diritti e dei doveri, sanciti nella Carta, e come presidio di stabilità e di coesione per lo sviluppo della vita democratica”. Nel senso che, ai fini del rispetto degli equilibri propri di una moderna democrazia costituzionale,  “ogni istituzione rappresentativa, ogni potere e organo dello Stato può e deve svolgere il proprio ruolo”.
     Un invito “alla riflessione indirizzato in primo luogo al Parlamento, ma anche alla società civile, all’opinione pubblica, alle forze politiche”.
     In questo ambito e con queste finalità il Capo dello Stato, parlando all’Organo che concretamente deve assicurare l’indipendenza della Magistratura, ha certamente voluto esorcizzare il rischio di un conflitto tra giudici e classe politica di governo alla vigilia del dibattito parlamentare sul disegno di legge che modifica le regole delle intercettazioni telefoniche. Un testo sul quale si è riservato i necessari approfondimenti al momento opportuno.
     “Prenderò la decisione che mi compete”, ha detto il Presidente, ieri, a Napoli. Una frase che appare di una evidente ovvietà e proprio per questo rafforza l’impressione che Napolitano nutra dubbi sulla nuova normativa e tema la reazione del giudici, privati o fortemente limitati rispetto all’uso di uno strumento essenziale per molte indagini, dalla corruzione alla pedofilia, all’estorsione. Oggi, ad esempio, sul Corriere della Sera, Maria Cordova parla di una inchiesta sui pedofili che non sarebbe stato possibile portare a termine se non fosse stato fatto ampio uso di intercettazioni, spiegando che il più delle volte non sono sufficienti alcuni ascolti per avere un quadro completo che regga alla verifica del giudice.
     L’autorevolezza della Magistratura agli occhi del popolo, in nome del quale i giudici emettono le loro sentenze, sta nella sua efficienza e nella loro indipendenza, due valori tra loro strettamente interdipendenti. Per cui il Capo dello  Stato nutre “motivi di preoccupazione” per la “crisi di fiducia insorta nel paese per effetto di un funzionamento gravemente insoddisfacente, nel suo complesso, dell’amministrazione della giustizia e per effetto anche dell’incrinarsi dell’immagine e del prestigio della magistratura”. E se la garanzia di giustizia per i cittadini risente pesantemente di “inadeguatezze di norme e di strutture, cui da troppo tempo governi e Parlamento, nel succedersi delle legislature, non hanno posto rimedio in modo ordinato e coerente, dedicandovi anche le necessarie risorse”, Napolitano richiama l’attenzione dei giudici, in particolare dei pubblici ministeri, sull’esigenza di evitare “qualunque comportamento impropriamente protagonistico o chiaramente strumentale ad altri fini”. Insomma un richiamo all’antica, aurea regola secondo la quale chi indossa la toga deve essere, ma anche apparire, indipendente agli occhi della gente.
     Doveroso richiamo, quello del Presidente, perché non continui la perdita di autorevolezza della Magistratura, di tutte le magistrature, per la lunghezza dei tempi dei processi, e per atteggiamenti di alcuni che amano il protagonismo, non con i fatti, le grandi inchieste, le belle sentenze, ma con comportamenti che assumono connotazioni più proprie della politica che di pubblici dipendenti che la Costituzione dichiara solennemente essere “soggetti soltanto alla legge” (art. 101).
     Contemporaneamente la Magistratura non va privata degli strumenti necessari a perseguire i reati e il ristoro dei danni subiti dalle pubbliche amministrazioni. La sua autorevolezza ne sarebbe ulteriormente lesa e ugualmente quella della classe politica che adottasse misure restrittive delle funzioni giudicanti o requirenti.
     Se ne parla a proposito delle intercettazioni, gravemente limitate, si afferma da parte dei proponenti, per tutelare la privacy dei cittadini. In realtà i cittadini che non hanno scheletri negli armadi e non hanno frequentazioni malavitose non hanno nessun interesse a veder limitate le intercettazioni. Semmai vorrebbero che esse fossero sempre più idonee a colpire i criminali, anche quelli con il “colletto bianco”.
     Giusto, dunque, colpire gli abusi nella pubblicazione di conversazioni che nulla hanno a che fare con la individuazione della colpevolezza, ma per far questo non è necessario limitare le intercettazioni. Basta reprimono gli abusi. Invece si è voluto fare di ogni erba un fascio evidentemente per coprire interessi all’impunità. Non a caso il Presidente del Consiglio ha annunciato per la prima volta la normativa restrittiva ai suoi colleghi industriali accolto da un’autentica ovazione. Non applaudivano certo i concusssi, che avrebbero tutto l’interesse ad una protezione assicurata dalla sorveglianza delle Procure. Forse a spellarsi le mani erano aspiranti corruttori, quelli che cercano le scorciatoie per assicurarsi un appalto di lavori o di servizi. Quell’applauso è stata la cartina di tornasole che ha consentito alle persone perbene di capire quali sono gli effetti della limitazione delle intercettazioni.
12 giugno 2009   

Scusarsi per la storia?
Quella foto sulla giacca del dittatore
di Salvatore Sfrecola

     Il “Colonnello” Gheddafi si è presentato con appuntata sulla giacca una foto in  bianco e nero che ritrae  Omar el Mukhtar, l’eroe libico, il guerrigliero antiitaliano, catturato dai nostri soldati. Così mi sono chiesto se qualcuno dei patres conscripti che accoglieranno il Dittatore di Tripoli oggi nella Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani si presenterà con appuntata sulla giacca una foto delle tante opere pubbliche e sociali realizzate in Libia dall’Italia coloniale.
     Ci vorrebbe più di una foto, un book, come oggi si dice, di quelli a soffietto che un tempo andavano di moda per offrire ai turisti una panoramica del luogo visitato, per ritrarre scuole, strade, ospedali, villaggi rurali, fabbriche che i governi vollero lungo il mezzo secolo nel quale la Libia fu la quarta sponda d’Italia.
     L’Italia si è scusata con il “Colonnello” per il suo passato coloniale, fatto delle tante opere sociali di cui si è detto ma anche di qualche episodio cruento, come quelli che hanno accompagnato la repressione dei ribelli beduini dell’interno, una repressione culminata con il processo e la condanna a morte del “Leone del deserto”, l’eroe che Gheddafi esalta anche per cancellare dalla memoria del suo popolo il vero capo della resistenza antiitaliana, Idris I Sidi Muhammad Idris al-Mahdi al-Senussi, primo ed unico re di Libia. da lui detronizzato nel 1969. Quando cominciò la confisca dei beni della comunità italiana in un crescendo di angherie e soprusi dovuti alla ventata nazionalistica promossa dal “Colonnello” nel tentativo di creare una “identità nazionale” in un paese senza storia, una somma di tribù di pastori e di piccole comunità di predoni.
     L’Italia si è scusata. Le scuse vanno di moda da qualche tempo anche oltre Tevere dove i Papi si sono spesso scusati di più di qualche nefandezza dei colonizzatori cristiani assistiti da virtuosi cappellani di Santa Romana Chiesa.
     La storia va capita nella realtà dei tempi nei quali si sono svolti i fatti, ma le scuse di oggi sono un fatto politico che nulla ha a che fare con la storia, perché se questa fosse la regola sarebbe tutto uno scusarsi. A cominciare da chi ha mandato a morte Cristo per un “reato” religioso, ossia l’essersi proclamato figlio di Dio, per giungere ai tempi nostri che richiederebbero una litania di scuse delle quali moltissime dovrebbero provenire proprio dal mondo arabo, da quanti, a far data dalla morte di Maometto, hanno massacrato milioni di cristiani dal Medio Oriente all’Egitto, alla Libia, appunto. La quale era terra romana e dovrebbe chiedere scusa per il modo con il quale ne conserva le vestigia, incurante anche dei propri interessi turistici, pur di negare quelle radici che gli islamici nei secoli hanno sistematicamente  estirpato con il sangue.
     Né mi risulta che gli eredi dell’Unione Sovietica si siano scusati mai per i massacri che ne hanno accompagnato la nascita e l’affermazione di potenza, per non dire del sangue sparso in Ungheria e Cecoslovacchia e di quello che ha bagnato il muro di Berlino.
     Sono fatti consegnati alla storia ed alla valutazione degli storici. Fatti esecrabili, ma le scuse appartengono ad altra valutazione, di opportunità politica o di opportunismo, la cui utilità va valutata attentamente, ad evitare che appaia agli occhi di chi riceve le scuse un errore che manifesta debolezza per errori dei quali le istituzioni attuali e le persone che le incarnano non hanno alcuna responsabilità. Errore ancora più grande se le scuse vengono rivolte ad uno sfrontato dittatore il cui scopo è tenere l’Italia, meglio la classe politica italiana, sotto ricatto per spillare denaro del contribuente.
11 giugno 2009

Il voto europeo ed amministrativo
Bassa affluenza alle urne
disagio nella società, deficit di democrazia
di Senator

     Ieri sera, alla chiusura dei seggi, aveva votato il 17 per cento circa degli aventi diritto al voto. Meno di quanti, alla stessa ora, avevano votato nelle elezioni precedenti. Il calo dell’affluenza, più marcato nel voto per il Parlamento Europeo, è stato comunque significativo anche per il rinnovo di consigli provinciali e comunali.
     Molti italiani, in sostanza, non hanno esercitato quello che la Costituzione, all’art. 48, definisce un “dovere civico”. Un diritto fondamentale nella democrazia che è anche un  dovere, un tempo addirittura sanzionato con l’iscrizione sul certificato penale della dicitura “non ha votato”, un diritto naturale dell’uomo non limitabile da parte dello Stato, considerato che i diritti di partecipazione politica, attraverso i quali l’individuo contribuisce alla formazione della volontà politica statale, sono diritti inviolabili, tanto che la dottrina ritiene che la norma costituzionale non possa essere soggetta ad una revisione sostanziale.
     Un diritto, ho appena detto, che è anche un dovere, con il cui esercizio il cittadino esprime una scelta in favore di un partito e di uno o più (in questo caso fino a tre) candidati. Come ogni diritto, tuttavia, è possibile non esercitarlo, dacché è scelta politica votare o meno, come quella di scegliere questo o quel partito. Considerato che il profilo del “dovere civico” costituisce niente di più che un richiamo morale per tutti i membri della comunità. Ricordo, in proposito, un aureo libretto di Mario Vinciguerra, Il voto obbligatorio nel paese dei balocchi, nel quale rivendicava il suo diritto a non votare. Tanto che si era denunciato invano per ottenere sul certificato penale l’apposizione della dicitura “non ha votato”, niente più che una sanzione morale, l’indicazione del mancato adempimento di un dovere.
     Passando dal diritto alla politica, trattandosi di un diritto che attiene alla partecipazione del cittadino alla vita della comunità, la scelta di non votare, pur certamente criticabile perché in tal modo si attribuiscono ad altri scelte che cono proprie di ciascuno di noi, va considerata una decisione da rispettare, in quanto deve ritenersi maturata sulla base di valutazioni che l’elettore è andato elaborando nel tempo e nella prossimità della consultazione elettorale rispetto allo scenario politico presente ed a quello ipotizzabile come conseguenza del voto.
     L’astensione non va, dunque, demonizzata ma compresa e valutata come segnale di un disagio politico indotto dall’andamento della vita politica, un disagio che una classe politica responsabile deve ritenere fonte e conseguenza di un deficit di democrazia, di un distacco dalla politica intesa, come dovrebbe essere, quale luogo nel quale si elaborano programmi per lo sviluppo economico e sociale della comunità.
     Il cittadino non vota per vari motivi. Semplificando, perché ritiene che “tanto rimane tutto come prima”, oppure perché vuol mandare un messaggio a chi governa e del quale non condivide le scelte senza passare, tuttavia, a dare il proprio voto all’opposizione. Oppure, ancora, perché non ha fiducia né di chi governa né di chi è all’opposizione.
     L’una e l’altra motivazione vanno respinte ma non possono essere trascurate.
     Se tutto rimane come prima o sembra che rimanga come prima vuol dire, in presenza di un vasto assenteismo, che il cittadino, i cittadini, non identificano nella vita politica strumenti di ricambio. Ad esempio perché le oligarchie di partito fanno quadrato intorno ad una classe dirigente impermeabile alle istanze o a parte delle istanze della comunità attraverso la presentazione di candidature che non esprimano una varietà di orientamenti pur all’interno di una stessa formazione politica. In sostanza non facilitano la scelta.
     Con tutti i difetti che sono stati denunciati nella Prima Repubblica, ad esempio, i grandi partiti presentavano una varietà di candidature e di esperienze all’interno dell’area di riferimento. Nel caso della Democrazia Cristiana, ad esempio, del mondo cattolico e delle organizzazioni che si ispiravano all’insegnamento della dottrina sociale della Chiesa, in tal modo mettendo in condizione l’elettore di operare scelte che avrebbero influito sulla composizione dei gruppi parlamentari e, in  fin dei conti, delle scelte politiche del partito. In sostanza la dirigenza del partito si limitava a posporre nella lista i rappresentanti delle minoranze che, tuttavia, ove avessero avuto il necessario consenso sarebbero stati eletti ugualmente.
     La disaffezione alla vita politica che l’assenteismo denuncia ha origini messe in risalto dalla stampa negli ultimi anni. In primo luogo, abbiamo una classe politica che ha voluto eliminare le preferenze nelle elezioni politiche per il rinnovo del Parlamento nazionale, negando il primo e fondamentale diritto politico dei cittadini, quello di scegliere i propri rappresentanti. Una lesione gravissima di un diritto inviolabile giustificata più volte dal Presidente del Consiglio e da altri esponenti della maggioranza. Una sistema elettorale ripudiato perfino dal suo autore, che allontana l’Italia dai paesi dove la democrazia ha un significato forte.
     Ad allontanare la gente dalla politica è, inoltre, l’assoluta povertà di idee che caratterizza il confronto politico, tra un leader, sicuramente di valore ma orientato ad assumere un atteggiamento autocratico, spesso critico delle istituzioni, dal Parlamento alla Magistratura, ed un’opposizione che non riesce ad assumere l’autorevolezza che in un sistema democratico caratterizza la parte politica che si propone come alternativa di governo.
     Ha detto bene, dunque, Emma Marcegaglia, Presidente della Confindustria, quando ieri ha richiamato i contendenti ad un po’ di dignità: “adesso, che è finita questa campagna elettorale, è finita anche la ricreazione e vogliamo che la politica torni ad occuparsi dei problemi veri”. Un’analisi impietosa da parte di chi rappresenta la parte più significativa dell’economia italiana, quella alla quale si affidano le speranze di maggior lavoro, quindi di maggiori disponibilità di risorse per le famiglie, di maggiori entrate tributarie per lo Stato e per gli enti locali sulla strada del federalismo fiscale.
     Speriamo veramente che con le elezioni, qualunque sia il risultato per il Parlamento europeo e per gli amministratori locali, i partiti capiscano che è venuto dalla comunità un segnale non equivoco di un forte disagio, effetto di un deficit di democrazia che va colmato presto con una visione strategica del modello di sviluppo economico e sociale della intera comunità che evidentemente va cambiato.
7 giugno 2009

L’Europa che dobbiamo amare
di Salvatore Sfrecola

     L’Europa non si fa amare, si legge e si sente dire spesso. Si occupa di tutto, soprattutto delle minutaglie, ma è assente sui grandi temi politici e sociali.
      Non è del tutto vero, anche se effettivamente spesso il cittadino e l’imprenditore incontra vincoli e limiti europei nella vita di tutti i giorni e ne trae la convinzione che l’Europa sia soprattutto un impaccio. Secondo Giuliano Amato, Vicepresidente della Convenzione europea che nel 2004 varò il Trattato costituzionale poi naufragato nei referendum di Francia ed Olanda, l’Europa “si è giocata il consenso di buona parte dei suoi cittadini, perché da una parte ha promesso più di quanto poi non si sia messa in grado ci mantenere e perché d’altra parte ha deciso più di quanto non abbia chiarito, spiegato e fatto accettare dagli stessi cittadini”.
     Tuttavia l’Europa va avanti, a piccoli passi, secondo la teoria di uno dei Padri fondatori, il Ministro degli esteri francese Robert Schuman, verso l’unificazione politica, che sarà tanto più vicina quanto più il processo costituente saprà salvaguardare le specificità degli Stati membri, la loro storia, la loro cultura. Partendo dalle radici spirituali delle quali va assunta la consapevolezza, radici comuni a tutti i popoli e si basano sul pensiero greco, sul diritto di Roma e sull’insegnamento di Cristo.
     Dovrà essere chiaro che l’Europa è una realtà storica con una sua precisa delimitazione geografica, il Continente che sappiamo identificare sul mappamondo con i suoi confini, l’Oceano Atlantico, il Mar del Nord, il Mar Mediterraneo e gli Urali. Niente Turchia, dunque, un paese asiatico, alleato e certamente legato all’Unione da accordi commerciali privilegiati, ma fuori dell’Europa. Perché fuori è geograficamente, fuori culturalmente, fuori spiritualmente, come ha ben messo in evidenza Roberto de Mattei in un bel libro che sta riscuotendo grande successo (La Turchia in Europa – beneficio o catastrofe?, SugarcoEdizioni, pp. 147, ? 15). Fuori, come dice la storia che ha visto i turchi costantemente all’attacco delle nazioni del vecchio Continente.
     L’Europa che auspichiamo dovrà essere protagonista forte nella realtà internazionale, non solo dal punto di vista economico, con il livello delle sue produzioni in tutti i campi, ma politico e militare. L’Europa, dovrà avere una politica estera, interloquire sui grandi temi della pace e del commercio, dell’ambiente, dell’energia, della fame nel mondo.
     Oggi non c’è Mister Europa, colui che abbia la legittimazione politica di un ruolo essenziale per una grande comunità dalla storia antica e illustre. E siccome molte operazioni di pace si fanno mediante l’invio di truppe in funzione di interposizione tra opposti contendenti  e di garanzia dei regimi democratici, sarebbe bene che  l’Europa avesse un suo esercito, un’idea che ha anticipato lo stesso Mercato comune, quando la Comunità Europea di Difesa (CED), agli inizi degli anni ’50, sorse e morì nello spazio di pochissimo tempo, per la contrarietà della Francia, che pure ne era stata la promotrice, nel clima delle preoccupazioni per l’aggressività dell’Unione Sovietica e per le tensioni nell’estremo oriente alla vigilia dell’invasione della Corea del Sud.
     Poi c’è l’Europa dei diritti e delle regole. E qui sono stati fatti numerosi passi falsi con risoluzioni del Parlamento europeo che hanno fatto emergere più di qualche nota stonata che ha inciso su valori, come quello della famiglia, una realtà nelle società di tutti i tempi che l’agguerrita lobby degli omosessuali cerca invano di mortificare con farneticanti iniziative “di genere”.
     Meglio sulle regole, a partire da quelle della libertà economica, il diritto di concorrenza, il diritto di stabilimento. Regole che sono anche principi, a partire dalla sussidiarietà per arrivare al principio di proporzionalità, a quello di leale collaborazione tra le istituzioni. Principi che interessano più da presso il cittadino.
     Bisogna credere nell’Europa, come i nostri antenati nell’800 credettero nell’Italia, nella quale oggi noi continuiamo a credere nella prospettiva di un’Europa che sia espressione di una comune cultura e spiritualità che solo gente dalla vista corta può negare.
6 giugno 2009

Elezioni europee
L’incubo dell’astensione
di Senator

     La temono tutti, anche quelli che non lo danno a vedere. L’astensione di larghe fasce di elettori è nell’aria da tempo, da quando il dibattito preelettorale si è indirizzato verso i temi dei rapporti del Presidente del Consiglio con Noemi Letizia e delle sue vacanze sarde con contorno di giullari e ballerine e l’uso di aerei di Stato. Tutto a posto sul piano giuridico (le regole se le è disegnate lo stesso Berlusconi quando è tornato a Palazzo Chigi), ma è certo che se quelle vicende hanno scatenato l’opposizione, non poco disagio hanno provocato tra gli elettori del Partito delle Libertà, soprattutto tra gli ex aennini già in fibrillazione per quello che ritengono il tradimento di Fini.
     Ad onta delle affermazioni di facciata, anche Berlusconi ed i suoi uomini sono consapevoli che qualcosa non va e che, complice il week end (per loro fortuna con un tempo non clemente in molte zone d’Italia) e lo scarso interesse che ha sempre circondato le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo, potrebbero essere in molti a disertare le urne, anche per dare un segnale alla classe politica.
     Poiché si tratta di un segnale tutto sommato indolore, ai fini della politica interna, gli italiani, a disagio per la crisi economica che sta facendo perdere posti di lavoro (smentita dal Premier dopo le affermazioni del Governatore della Banca d’Italia), potrebbero approfittarne per mandare un messaggio a chi governa ed a chi fa opposizione. Un messaggio essere scritto non solo con il linguaggio dell’astensione, ma anche con un voto alla Lega, a destra, ed all’estrema, a sinistra.
     Il successo della Lega è dato per certo. Non solo al Nord, sua tradizionale roccaforte, dove può giovarsi del successo di molte amministrazioni locali nella lotta all’immigrazione clandestina, ma anche al Centro e financo al Sud, dove si scorgono fermenti localistici che certamente vogliono rispondere all’invadenza becera della Lega che anche quando ha ragione riesce ad ottenerla nel modo più sgradevole.
     C’è, poi, l’incognita del Movimento per le autonomie che potrebbe giovarsi dell’assenteismo per aggiungere il quattro per cento.
     Insomma, come ha osservato Renato Mannheimer sul Corriere della Sera di ieri, l’astensione è un incubo veramente bipartisan.
6 giugno 2009

Italia multietnica o multiculturale? Andiamoci piano
di Erasmus

     Il Presidente del Consiglio ha detto no ad un’Italia multietnica e qualcuno lo ha accusato di razzismo. Altri hanno corretto “Forse aveva in mente un’Italia multiculturale, dove ogni comunità pensa agli affari suoi, fatti salvi diritti e doveri di base. Stile Regno Unito, per intenderci”. Così Beppe Severgnini su Magazine in edicola oggi, aggiungendo che “se quattro milioni di nuovi arrivati se ne andassero domani, si fermerebbero ospedali, fabbriche, stalle, negozi, ristoranti, trasporti. Anzi, si fermerebbe tutto perché molti di noi dovrebbero rinunziare al lavoro  per accudire figli piccoli o genitori anziani”.
     Come sempre c’è un pezzo di verità in tutte queste affermazioni e considerazioni ma lo sviluppo del ragionamento è frenato dal desiderio di essere politically correct che paga sempre, almeno nei tempi brevi, soprattutto per i giornalisti.
     Vediamo di capirci qualcosa, anche sulla base del buonsenso.
     Il prefisso “multi” è, secondo il Dizionario della lingua italiana di Devoto Oli il primo elemento di parole composte nelle quali significa “notevole quantità numerica”, mentre “pluri”, sempre secondo la tessa fonte, indica una entità in misura superiore al normale o in misura superiore a uno.
    “Multi” o “pluri” che sia, l’espressione indica nel linguaggio comune, ripreso dalla stampa, che l’Italia, la società italiana sarebbe caratterizzata da una pluralità di etnie e/o di culture. Naturalmente se io, italiano, di stirpe italiana, di cultura italiana mi reco presso una tribù di pigmei e vi soggiorno, nessuno direbbe che la tribù è diventata multietnica  o multiculturale. Nè lo diventerebbe se con me soggiornassero nella terra dei pigmei altri cento europei.
     L’esempio, banale se volete, serve a spiegare che la multietnicità o la multiculturità non è solo un fatto numerico ma una condizione per la quale la comunità si riconosce nella varietà delle etnie e delle culture, cioè assume che tutte queste espressioni della personalità siano parte della comunità stessa, cioè che la sua identità non è più rappresentata da una sola etnia e/o cultura.
     C’è innanzitutto un dato numerico, come spiegato nell’esempio della mia intrusione nel mondo dei pigmei e c’è un dato culturale, perché la società nella quale fanno irruzioni altre etnie e/o culture le accoglie confrontandosi con esse o le considera parte della propria identità, cioè la modifica considerandola espressione di una parte della comunità, caratteristica di essa.
     E’ quel che accade in Italia, che è espressione di una molteplicità di espressioni culturali che ripetono la propria origine dalla storia e dalla tradizione delle nostre regioni. Con la particolarità che il calabrese e il piemontese, il romano e il trentino, pur consapevoli delle tradizioni e dell’esperienza storica della propria regione, comprese le forme dialettali della cultura e dell’arte, ritengono di essere italiani, cioè di appartenere alla comunità che nei secoli ha costruito, al di là delle contrapposizioni politiche e dinastiche, una base unitaria avendo l’ambizione di esprimere un’idea di Nazione. Almeno da Federico II in poi l’Italia è nel cuore e nella mente di molti abitanti del “bel Paese” un’espressione forte della personalità di ciascuno e del sentire della comunità.
     Su questa Italia multiculturale, nel senso che ho detto, di un’espressione variegata di storie locali irrompono oggi etnie varie e culture, talvolta ricche anch’esse di storia, come nel caso degli immigrati dall’Est europeo, a volte tribali, molto modeste e lontane dalla nostra storia.
     S’integrano, nel senso che riconosceranno l’Italia come la loro “nuova” patria? E’ giusto che lo facciano o rimarranno queste comunità delle enclave che vivono ed operano in Italia, nel rispetto delle nostre leggi, ma con la nostalgia del Volga o del Danubio o della savana? Questo è il problema. Perché una comunità che conservi il collegamento con la terra d’origine coltivando nostalgia e sperando di tornare o che solo coltivi una doppia appartenenza non fa della nostra una comunità multetinica o multiculturale. Si tratta solo di turisti se non per svago per lavoro.
     Dice Severgnini che dobbiamo favorire l’acquisto della cittadinanza italiana. Bene, ma è necessaria l’integrazione culturale, che non significa omologazione. Lo è stato da sempre per gli aspetti religiosi. In un Paese la cui spiritualità è nella stragrande maggioranza ispirata alla fede cattolica, nessuno considererebbe estranei gli italiani che professano culti cristiani o la religione ebraica. Ma fondamentale è la consapevolezza dell’appartenenza alla comunità italiana.
     L’esempio degli Stati Uniti è proprio nel senso di queste mie sintetiche riflessioni. A parte la circostanza, non marginale, che quel grande Paese nasce come multietinico e multiculturale e non lo diviene, chiunque ne diviene cittadino solleva alta la bandiera a stelle e strisce e va a morire in Irak.
4 giugno 2009

Confusione di idee e demagogia spicciola
Per Bossi i giudici devono essere eletti dal popolo
di Iudex

     Da Merate, dove si trovava per un comizio elettorale, Umberto Bossi attacca i magistrati. “Sono una brutta razza”, sentenzia. E rivolto alla gente dice: ‘vi auguro di non dover avere a che fare con i magistrati”, confermando la volontà “di fare eleggere i magistrati da parte del popolo”. Poi la spiegazione: ”con le nostre riforme avremo finalmente i magistrati lombardi, non più solo magistrati che vengono dal Sud, potremo finalmente parlare con i magistrati anche in dialetto e saremo capiti”.
     E’ l’idea dello Stato che ha il leader della Lega Nord alla vigilia della Festa Nazionale che si celebra oggi  ed in vista della quale il Presidente della Repubblica, nel suo messaggio agli italiani, ha richiamato il valore dell’unità d’intenti dinanzi alla crisi economica, alle difficoltà del momento anche per le popolazioni colpite dal terremoto.
     “Basta guardare alla realtà senza paraocchi, ha detto Napolitano, per vedere che c’è bisogno – come ho detto e non mi stanco di ripetere – di più coesione nel paese, dinanzi alla crisi e alle tensioni che scuotono il mondo; e dunque anche in vista dell’importante, grande incontro internazionale che si terrà il mese prossimo a L’Aquila e che costituirà per l’Italia un impegno e un’occasione di straordinario rilievo.
     E specie per prendere finalmente la strada delle riforme necessarie al paese e al suo sviluppo c’è bisogno di più coesione sociale e nazionale : nel rispetto dei diversi ruoli istituzionali; nel libero e civile confronto tra le diverse opinioni”.
     Il Presidente ricorda i tanti “segni di unità” espressi nel ricordo delle vittime del terrorismo e della mafia, magistrati e rappresentanti delle Forze dell’ordine, segni “tanto più importanti quanto più sono aspre le contrapposizioni politiche e istituzionali, soprattutto in periodo elettorale”.
     Dunque, nel giorno della Festa dell’unità nazionale Bossi vuole giudici regionali, forse paesani, non per essere distribuiti sul territorio in modo funzionale alla gestione del “servizio giustizia” ma omologati al territorio, che parlino il dialetto per farsi capire ed essere capiti. E, pertanto, eletti dal popolo. Immaginiamo per un attimo gli argomenti della campagna elettorale per ottenere il consenso della gente. I temi della politica, nei rapporti con il fisco, in aree sensibili alla contestazione del diritto alla riscossione delle imposte, con gli immigrati, regolari o meno, con i “terroni”. E poi la gestione dei beni paesaggistici che sono patrimonio della comunità ma contrastano con gli interessi dei singoli, desiderino di aprire la fabbrichetta glissando sulle costose regole della sicurezza degli impianti e dei lavoratori.
     Interverranno sulla “dispersione scolastica” che abbassa gravemente il livello di istruzione nelle regioni del Nord Est, con conseguenze sulla capacità di essere cittadini consapevoli e professionisti preparati alle sfide del lavoro?
     Che farebbero questi giudici “politici”? E l’unità dell’ordinamento, che non è solo della normativa ma della sua applicazione?
     Per fortuna c’è una Costituzione. E la modifica che chiede Bossi non troverà altri consensi.
2 giugno 2009

Nel degrado della politica
Al voto turandoci il naso
di Senator

     Fu Indro Montanelli, in un celebre editoriale di una trentina di anni fa, ad invitare i suoi lettori del Giornale a “turarsi il naso” e votare Democrazia Cristiana contro il pericolo di una possibile affermazione, alle elezioni politiche, del PCI di Enrico Berlinguer. Il grande giornalista racchiudeva in quell’espressione una sua valutazione politica che individuava nel grande partito cattolico di massa, pur con tutti i suoi difetti, un baluardo con un Partito Comunista legato a quell’Unione sovietica che aveva invaso in tempi diversi Ungheria e Cecoslovacchia.
     Da allora le cose sono cambiate e molto. Un uomo di quel partito che Montanelli invitava a tenere a distanza è Capo dello Stato ed esercita con molto equilibrio il suo mandato, rinnovando ogni giorno l’invito alle forze politiche a corrispondere, mettendo da parte i contrasti ideologici, alle esigenze della gente in una stagione di grave crisi economica, difficile da affrontare.
     Tuttavia dobbiamo riproporre l’invito a “turarsi il naso”, stavolta non per scegliere il partito ma le persone, per cercare di inviare in Europa uomini e donne capaci di esercitare quel ruolo non facile di componente di un Parlamento che non fa leggi, ma che comunque conta, perché controlla la Commissione ed adotta risoluzioni che possono influire sulla vita dei popoli.
     Ci dobbiamo turare il naso perché, d’istinto, saremmo portati a disertare le urne tanto ci ha disgustato la polemica di queste ultime settimane nelle quali non si è parlato di politica ma di vizi e vizietti, veri, presunti o presumibili, tra accuse e smentite, mentre i contendenti hanno esibito il peggio delle argomentazioni possibili, con il concorso di cortigiani spregevoli desiderosi solo di compiacere il personaggio di riferimento.
     Uno spettacolo indecente che probabilmente contribuirà ad alimentare quell’assenteismo che è ricorrente nelle elezioni europee. Passate le quali non verrà meno il disgusto di questo spettacolo inverecondo al quale stiamo assistendo giorno dopo giorno. Si dovrebbe parlare di basso impero se non fossimo certi, per un po’ di studi storici, che molte delle personalità con compiti politici nelle istituzioni di quell’impero conservavano una qualche dignità.
     Nella situazione attuale i cittadini, comunque schierati, che ogni giorno lottano per sbarcare il lunario, vogliono che la politica torni luogo di confronto di idee, se non di ideali, perseguiti da persone oneste, che abbiano il senso delle istituzioni. E’ pretendere troppo?
1 giugno 2009

Elezioni europee
Un sondaggio per la politica?
di Salvatore Sfrecola

     Per Angelo Panebianco, che ne ha fatto oggetto del suo editoriale (Per chi suona la fanfara) a pagina 13 di Magazine del 28 maggio 2009, le elezioni del 6 e 7 giugno costituiscono un sondaggio del tutto inattendibile. A suo giudizio, infatti, “quali che saranno gli esiti delle prossime elezioni europee, di una cosa si può essere certi: essi non corrisponderanno ai risultati delle elezioni politiche che si terranno in Italia alla fine della presente legislatura”. Con la conseguenza che sarebbe sbagliato per vincitori e vinti trarne delle conclusioni valide sul piano interno e degli equilibri nei partiti e tra i partiti.
     Sono parzialmente d’accordo con Panebianco, attento ed acuto osservatore delle cose politiche. Le elezioni europee costituiscono un sondaggio, certo, ma non del tutto inattendibile, perché mettono in evidenza sensazioni ed orientamenti dell’opinione pubblica in questo determinato momento, in relazione alla situazione politica ed economica del Paese ed alle iniziative, apprezzate o meno, del governo e dell’opposizione.
     Anzi, è proprio l’ampia libertà di voto riconducibile al distacco con il quale l’elettore italiano guarda al Parlamento europeo ed alle istituzioni della Comunità, che il sondaggio assume una certa attendibilità in ordine agli orientamenti dell’elettorato sulle vicende di casa nostra. Un sondaggio, dunque, del quale i partiti devono tenere conto, che certamente non va messo in relazione al possibile esito delle elezioni di fine legislatura, ancora lontane, ma al sentire del momento attuale, che una classe politica attenta e consapevole non può e non deve trascurare. Le elezioni europee del 1999, ad esempio, che diedero un rilevante successo a Forza Italia ed ai suoi alleati, dimostrarono che il vento stava cambiando e che quei partiti potevano guardare alle elezioni politiche della primavera del 2001 con una certa speranza di bissare il risultato. Così le interpretò Berlusconi.
     Un sondaggio, dunque,  solo la registrazione del sentire dell’opinione pubblica in questo momento nel quale la crisi economica morde ai fianchi famiglie e imprese, le istituzioni annaspano, nonostante il dibattito permanente sulla loro riforma, e nella vita politica irrompe la “questione morale”, che potrebbe rivelare nel segreto dell’urna un disagio degli italiani, palpabile al contatto personale.
     Per il Premier, che usa i sondaggi come alcuni l’oroscopo, i voti che usciranno dalle urne il 6 e 7 giugno non potranno essere indifferenti, anche con la tara dell’assenteismo, che si immagina rilevante, per una certa disaffezione dalla politica e dalla specifica elezione. Perché quell’assenteismo potrebbe riportare sulla scena alcuni partiti, di destra e di sinistra, spazzati via dal voto del 2008 ma che potrebbero avvantaggiarsi dalla scarsa affluenza alle urne per raggiungere quel quattro per cento che era stato prudentemente voluto dai maggiori per tenerli fuori anche da Bruxelles. Se torneranno in Europa è certo che faranno sentire la loro voce anche in Italia, soprattutto a sinistra, dove potrebbero condizionare le vicende future del Partito Democratico squassato dalla precarietà degli equilibri interni tra laici (leggi comunisti di ritorno) e cattolici.
1 giugno 2009

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