di Salvatore Sfrecola
Ho letto con estremo interesse questo libro di Fabio Todero, “Terra irredenta, terra incognita – L’ora delle armi al confine orientale d’Italia 1914-1918” (Editori Laterza, Bari, 2023, pp. 258, € 22,00), uno studio che affronta aspetti spesso ignoti della storia della Venezia Giulia che nell’immaginario nazionale è la terra irredenta per antonomasia. Dottore di ricerca in italianistica, Ricercatore dell’Istituto regionale per la storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea del Friuli Venezia Giulia, Todero si occupa da tempo della Grande Guerra e delle sue memorie, di storia della Venezia Giulia e, in genere, di storia del confine orientale, temi sui quali ha organizzato convegni, curato mostre, progetti scientifici e volumi.
“Terra incognita”, “terres inconnues”, “Parts Unknown”, si legge in apertura dell’Introduzione, come parte del titolo, “termini che nella cartografia antica indicavano i territori ancora inesplorati e che la fantasia poteva popolare a proprio piacimento”. Terre lontane, quelle alle quali il libro è dedicato, e sconosciute alla maggior parte degli italiani, sicché all’inizio della guerra 1915-1918 decine di migliaia di connazionali, chiamati alle armi, partono verso la frontiera orientale ignorando perlopiù quale sia la loro destinazione soprattutto le finalità di quell’impegno tremendo che è la guerra. Un territorio dai molti nomi figli di culture diverse, a cominciare da “Litorale austriaco”, la denominazione che nel 1849 le autorità asburgiche assegnano alla provincia imperiale comprendente la contea di Gorizia e Gradisca, Trieste e il Margraviato d’Istria. Terre dove convivono varie etnie, ognuna delle quali ricerca diritti di partecipazione all’amministrazione del territorio con ambizioni assolutamente inconciliabili perché ogni etnia fa riferimento a una realtà storico-politica diversa. Per gli italiani di quelle terre è il Regno d’Italia, uno stato giovane ma che tuttavia ricollega le sue radici ad un glorioso passato nel quale politica, storia, arte e cultura, pur diversificati nei singoli territori, mirano, nel pensiero soprattutto delle élite, all’unità conquistata nel corso del Risorgimento.
Il volume si legge con piacere per l’ottimo italiano (non è mai scontato anche in testi scientificamente pregevoli) e per la varietà delle testimonianze e dei riferimenti a scritti di vario genere, memoriali, saggi, lettere, prevalentemente coevi agli eventi, ed accompagna il lettore alla scoperta della storia politica e culturale di quelle terre per secoli culla di una italianità sofferta che via via era divenuta ansia di adesione al Regno che l’Italia aveva unificato. A quel lembo di terra, del resto, guardavano molti, entusiasti dell’epopea risorgimentale che immaginavano con Trento, Trieste e l’Istria, di completare il processo di unificazione nazionale. Ma c’era anche chi, certamente i più, ne ignorava perfino la collocazione geografica. Eppure, la riunione di quelle terre all’Italia sarà l’impegno di milioni di italiani che nel corso della guerra hanno combattuto muovendo dalle trincee del Carso per scalare le vette delle Alpi Giulie. Per completare la missione risorgimentale intrapresa nel 1848 con la prima guerra d’indipendenza da una piccola élite di liberali e da una Casata guerriera, fiduciosi nel destino della Patria che sarebbe stata unita dopo secoli di divisioni e la presenza, qua e là lungo lo Stivale, di potenze straniere chiamate da principi dalla vista corta preoccupati esclusivamente di puntellare i loro traballanti troni.
Il libro ricostruisce a fondo la storia di queste terre caratterizzate da una società multietnica nella quale il tema del rapporto con l’Italia, anche solo sul piano culturale, in alcune realtà è stato difficile da gestire. Delineate le vicende storiche del confine orientale, Todero affronta anche il tema della mobilitazione di massa di italiani, sloveni e croati nelle file dell’esercito dell’Impero austro ungarico, un’armata nella quale, convivendo etnie diverse, le autorità temevano che su alcuni fronti non tutti fossero in condizione di combattere con lo stesso impegno degli austriaci.
È in quegli anni, tra gli italiani, un fervore di iniziative di uomini di cultura e d’azione, coraggiosi gli uni e gli altri. Sono personaggi dai nomi famosi, che abbiamo imparato a conoscere fin da bambini attraverso il sussidiario delle elementari, che molti di noi hanno sentito evocare nei racconti familiari, tramandati dai bisnonni che quella guerra avevano combattuto. Eroi che hanno impegnato anche la toponomastica nelle città e nei borghi, Oberdan, Battisti, Sauro, che avevano scelto di militare nell’armata del Re d’Italia lasciando quelle dell’imperatore, solo per fare qualche nome dei più noti tra i tanti che Todero richiama, impegnati nella rete irredentistica fino alla vigilia e durante la guerra. Il libro ci presenta uno sguardo d’insieme delle vicende belliche della regione sul coinvolgimento di ambienti, anche diversi per tradizione, per cultura, per professioni, dandoci conto in modo molto dettagliato, documentato e appassionato di come queste popolazioni vivevano l’appartenenza all’Austria alla vigilia dell’intervento dell’Italia nella guerra. Poi il libro affronta in un lungo capitolo il tema dei “soldati del Re”, come l’Italia abbia affrontato questo impegno gigantesco contro uno degli eserciti più forti del mondo, un impegno che lungo tre anni ha fornito un apporto determinante al complessivo andamento delle operazioni militari eppure a volte sottovalutato, perché non è dubbio che l’Italia con il suo esercito ha logorato le armate dell’Imperial Regio Governo con grandi sacrifici di uomini e mezzi. Anche nelle parole della “Canzone del Piave”, quando si parla dell’avanzata austriaca dopo Caporetto, c’è la consapevolezza per l’Austria della battaglia finale. Un esercito stremato e affamato cercava l’occasione per una vittoria che desse anche la possibilità di una vita migliore.
E così l’Italia ha vinto anche per gli altri Stati che hanno partecipato al grande conflitto per cui il senso della “vittoria mutilata”, di cui si è parlato spesso, non è soltanto riferita alla mancata acquisizione di terre che nel patto di Londra del 1915 si prevedeva sarebbero state assegnate in Italia, ma al fatto che non è stato riconosciuto completamente dalle potenze dell’Intesa e dagli Stati Uniti d’America, in persona del Presidente Wilson che ha dominato la Conferenza di pace di Parigi, il ruolo che l’Italia e il suo esercito hanno rivestito nella economia globale della guerra.
Questo è un fatto molto importante che in qualche modo emerge anche dal libro di Todero ricco di mille riferimenti a scritti e ad episodi, ognuno dei quali meriterebbe una adeguata menzione. Come le imprese dei giovani volontari formati nel liceo ginnasio comunale di Trieste, considerato una roccaforte dell’italianità di quella Città. Giovani e docenti che tendevano a concepire l’insegnamento e l’apprendimento in termini di espansione e difesa dell’italianità. “L’istruzione del resto – osserva Todero – era al centro della lotta nazionale in tutta l’area giuliana dove la decisione di aprire una scuola di lingua slovena o croata piuttosto che italiana diveniva oggetto di battaglie politiche ma anche di scontri”. A Trieste, nella primavera del 1914 si erano verificati alcuni incidenti tra studenti italiani e croati, mentre giovani italiani e sloveni furono protagonisti di autentici scontri di piazza nelle giornate del 1° e del 2 maggio. Naturalmente non solo a scuola ma anche in altri luoghi di socialità, come la Società Ginnastica Triestina e altre associazioni dedite al canottaggio e ciclistiche, ambienti individuati dalle autorità asburgiche come altrettanti luoghi da tenere sotto sorveglianza e non di rado da chiudere. Emblematiche in questo senso le traversie dell’Associazione Sportiva “Edera”, nata nel 1904 ad iniziativa di un gruppo di mazziniani e di un garibaldino in occasione dell’incontro di calcio contro l’Unione Sportiva Milanese. Quando la squadra italiana segnò un gol, dalle tribune esplose un grido “Viva l’Italia” che costò all’Edera il primo di una serie di provvedimenti di scioglimento.
Poi la guerra e le sue sofferenze sul Carso. “L’altopiano alle spalle di Trieste, è come un destino”, ricorda Todero con le parole di Alberto Spaini, per dire del particolare legame che univa i triestini al Carso. “l’altopiano i cui ultimi lembi sovrastano la città, un territorio da loro ben conosciuto e amato”, aggiunge l’A. in apertura del capitolo sulla guerra che proprio lì ha visto centinaia di migliaia di uomini contendersi a volte qualche decina di metri con gran dispendio di energie lasciando sul terreno tanti giovani combattenti. È un capitolo di testimonianze importanti, di ricordi struggenti che descrivono in modo straordinario gli eventi che tra quelle rocce si sono consumati. Sono scritti di tanti, da Scipio Slataper a Mario Puccini, a Carlo Pastorino che descrive “uno scenario davvero infernale” in un terreno cosparso dei corpi dei caduti tra le voragini scavate dalle bombe, tra la pioggia e la bora.
Naturalmente nella tragedia c’era chi sapeva proporre un ritratto diverso del paesaggio carsico, come Silvio D’Amico che ammirava la “pianura bellissima distesa al sole freddoloso, addolcita dalle curve soavi dell’Isonzo celeste e del Vippacco, con Gorizia bianca sparpagliata e santuari e conventi e villaggi e, dietro, colline verdognole a semicerchio, e più in là, sfumate in fondo, le alpi rose”. Una visione idilliaca che non erano in condizione di apprezzare quanti avevano provato che “nelle trincee poco profonde, si sta da cani. Immondizia, pozzanghere puzzolenti, nuvoli neri di mosche sciamano sugli escrementi”. E, poi, scrive Mario Puccini, “stracci, gavette frantumate, fiaschi rotti, scatolette vuote di carne in conserva… brandelli di ferro rugginoso, caricatori di ottone, cartucce qua e là; e, incastrate tra i sacchi di terra – che vomitano un fango rosso come il sangue – casse di fucili schiodate, elmetti sforacchiati, scudi da trincea”. Ecco, le trincee in una guerra di posizione lunga anni. Tanti ricordi sull’onda delle diverse sensibilità e delle specifiche esperienze che Todero sa richiamare per dar conto al lettore che non ha letto d’altro o che non ha sentito dire delle condizioni nelle quali si è svolto, per un tempo che ad ognuno è sembrato interminabile, l’impegno in divisa.
Segue il capitolo della guerra sulle Alpi Giulie “così lontane e irraggiungibili”, Monte Canino, Monte Nero, nomi ricorrenti nei versi dei più noti componimenti musicali ispirati dai fatti, un teatro di guerra oscurato, nell’opinione pubblica, dalle operazioni sul Carso. Anche qui Todero descrive, attraverso testimonianze coinvolgenti, ambienti, condizioni di vita e operative nella storia e nella realtà della guerra, quando gli “alpinisti” sono sostituiti dagli “alpini”, combattenti nelle difficili condizioni di un clima ostile ma tuttavia riuscirono a conquistare il Monte Nero “forse la più eletta e la più pura gloria che vantano”, ne scrisse Mario Bassi, corrispondente de La Stampa. Ancora una testimonianza che stimola il lettore a rincorrere le pagine tutte irte di notizie preziose.
Il sesto capitolo ha per tema “la guerra totale”, intesa come la nuova guerra i cui effetti, diversamente da quelle combattute nell’800, interessarono non soltanto “i combattenti e le aree che ne furono direttamente investite, ma colpirono l’intera società giuliana incidendo in forme ora più ora meno significative sulla vita della società civile”, anche attraverso l’obbligatorio trasferimento di persone da zone di importanza strategica. Todero mette in risalto non solamente questa “novità” della guerra, che caratterizzerà ancora di più il successivo conflitto mondiale, ma anche le conseguenze della massiccia mobilitazione di uomini per un impegno che, diversamente da quelli del secolo precedente, sarebbe durato a lungo con conseguenze sulla vita delle popolazioni nelle città e nelle campagne e, in generale, sui contesti lavorativi. È l’economia di guerra che in Austria assume anche forme di irrigidimento della politica interna nel timore di conflittualità tra le diverse nazionalità che componevano l’Impero, con devoluzione all’autorità militare di compiti tradizionalmente propri dell’amministrazione della giustizia.
Come in Italia, anche in Austria gli uomini al fronte furono sostituiti dalle donne, nelle professioni, nei servizi, nei campi. Puntuale e molto interessante la descrizione dell’organizzazione della società che a guerra finita non sarà più la stessa.
Il capitolo terminale, “Uscire dalla guerra, disegnare i confini”, si apre nel ricordo del 3 novembre 1918 quando “molte triestine e molti triestini, assiepati sulle rive cittadine in attesa che le navi italiane raggiungessero la città, accolsero l’arrivo della squadra navale della regia marina”. Todero ci trasmette il clima di quelle ore quando ”un impasto di trepidazione, ansia, speranza e silenzi poteva finalmente sciogliersi. La città che con Trento – dove le avanguardie dell’esercito italiano sarebbero entrate il giorno successivo – era stata il simbolo e la meta del conflitto era finalmente raggiunta. Finalmente! è anche il titolo di una cartolina illustrata di Leopoldo Metlicovitz, cartellonista e pittore, maestro di Marcello Dudovich, entrambi triestini: vi si vede un’Italia turrita, vestita di bianco la spada della mano destra, che accoglie con un gesto solenne Trieste, dalla veste rosso-alabardata e Trento, l’abito verde orlato degli esempi di altre località del Trentino”.
Tanta gioia ma anche tanto dolore nella città dove l’epidemia di “spagnola” ha colpito ovunque, nelle famiglie, tra i soldati, tra i prigionieri. Importanti le pagine sul Governatorato militare della Venezia Giulia affidato al generale Carlo Petitti di Roreto, un nobile piemontese che aveva, tra l’altro, comandato il Corpo di spedizione italiano in Macedonia distinguendosi – osserva Todero – “per le sue capacità di mediazione politica con i serbi”. Il generale dovette affrontare non pochi problemi organizzativi e anche di ordine pubblico, in relazione alla presenza di prigionieri italiani provenienti dall’Austria in un contesto come abbiamo visto difficile, mentre premevano interessi del Regno dei servi in un confine non ancora definito. In contrasto anche con il governo di Roma, Petitti di Roreto dovete cercare di mediare con fermezza ma anche vietare “l’esposizione di bandiere o coccarde che non fossero italiane o alleate, manifestazioni cortei e tutto ciò che potesse pregiudicare l’autorità delle truppe italiane di occupazione”. Anche con l’autorità religiosa slovena ci furono dei problemi quando alcune decine di studenti italiani “esaltati da una manifestazione cui aveva partecipato il generale Diaz fecero irruzione in curia e diedero alle fiamme libri e documenti in tedesco”.
Todero mette in risalto come non tutti gli abitanti della regione Giulia apprezzavano l’abbraccio dell’Italia e rivolgevano piuttosto la loro attenzione al neonato Regno dei Serbi in un contesto nel quale “l’endemica difficoltà delle autorità italiane di comprendere le tante peculiarità di un territorio di frontiera, il forte nazionalismo diffuso nei quadri dirigenti civili e militari, la sensazione che un nuovo conflitto per il controllo dell’alto Adriatico potesse scoppiare da un momento all’altro, come anche i sospetti – peraltro ricambiati – con cui si guardava il nuovo vicino non resero le cose più facili. Infine, mentre a guerra in corso si era già diffuso il mito dannunziano della “vittoria mutilata”, a ingarbugliare ulteriormente la matassa intervenne la questione adriatica ovvero la campagna di propaganda alimentata dalla galassia nazionalista, ma largamente sostenuta dall’opinione pubblica, a favore della Dalmazia e di Fiume italiane”.
Todero, con dovizia di particolari, ci parla delle vicende di Fiume, della difficile gestione della definizione del futuro della città che era fuori del Trattato di Londra ma che il sentimento degli italiani della città e dell’intero Paese voleva fosse definito con l’appartenenza all’Italia. Racconta dell’intervento di una delegazione di italiani presso il Comandante della regia Marina l’Ammiraglio Thaon di Revel che, d’intesa con il capo del governo, Orlando, concordò l’invio di alcune unità navali nel Quarnaro. Segue la complessa vicenda dell’impresa dannunziana, quando la “debolezza dello Stato liberale e la disponibilità di un’istituzione come l’esercito o di numerose sue componenti all’avventurismo politico”, scrive Todero, fanno intravedere un clima violento che ritroveremo nei mesi successivi nel Paese. È una violenza generalizzata favorita dal clima del dopoguerra protagonisti persone che, anche con idee diverse, avevano assistito o partecipato agli eventi crudeli del conflitto. In qualche modo trasportando la violenza dal piano militare a quello politico. In questo senso la guerra e le sue conseguenze sono veramente lo spartiacque tra il mondo di prima il successivo. C’è poi tutto il ricordo, sempre sorretto da importantissime testimonianze, del “ritorno dei morti” l’ossequio commosso ai caduti, al “Milite Ignoto”, le celebrazioni a Trieste ed a Capodistria degli eroi della guerra.
Tutto questo sullo sfondo degli eventi connessi alla definizione dei confini ostacolati dalle congiunture internazionali sia dalla dottrina di Wilson che dalla presenza del Regno dei serbi. Il tema è noto e trattato. Ma le pagine che a Fiume dedica Todaro sono di estremo interesse nel mettere in risalto il ruolo dei Legionari dannunziani “con le loro uniformi, le loro cerimonie, le loro coreografie, a fornire il primo esempio di un’autentica milizia paramilitare del dopoguerra in Italia, la capacità di tenere in scacco le truppe regolari per oltre un anno, anche per la connivenza di non pochi settori dell’esercito”. Una constatazione che deve far riflettere in relazione ad eventi che si svolgeranno in Italia a breve.
Il libro si chiude con considerazioni sul passato, con riferimento a quello che sarebbe stato per il confine orientale dopo la Seconda Guerra Mondiale. In questo crogiuolo di etnie alcune in particolare violente che avevano sempre con grande difficoltà convissuto nell’area “alla fine del secondo conflitto mondiale, che tante altre vite ingoiò e costò nuovi dolori alle popolazioni civili con il suo carico di violenza, con le drammatiche vicende che qui ne seguirono, di quella terra ora non più “incognita” non erano rimasti all’Italia che pochi chilometri quadrati”. Conclusione dolorosa per chi ha creduto nella italianità di quei territori lungo una storia di secoli.
Aggiungo che la lettura di questo libro, come i lettori constateranno da questa mia recensione, mi ha molto appassionato, sia quando mi hai ricordato cose già lette, sia quando mi sono trovato difronte a testimonianze che non conoscevo e che hanno arricchito la comprensione di fatti e di personaggi. Un libro straordinario del quale merita di essere ricordata la frase finale dei ringraziamenti con i quali il volume si chiude: “Da studioso di storia non posso che pormi delle domande ed ora più che mai mi pare che studiare, cercare di capire e di leggere nel passato i segni del presente e, in questo, le tracce del passato abbia un senso. Ciò che l’Europa – ma anche tante altre realtà geografiche mondiali – sta attraversando mi sembra infatti dimostrare inequivocabilmente come conoscere i legami che uniscono ciò che è a ciò che è stato, se non consente di evitare di ripercorrere le strade del male – sarebbe davvero troppo facile! – ci renda tutti più responsabili delle scelte che compiamo”.