di Salvatore Sfrecola
La “serrata” di questa mattina degli stabilimenti balneari (inopinatamente definita “sciopero”), di una parte perché non tutte le organizzazione dei gestori hanno aderito all’iniziativa (per il Codacons è stato un flop), mette in evidenza un dato purtroppo frequente in Italia, l’incapacità dei Governi di decidere per non scontentare lobby potenti. Di tutti i governi, di destra e di sinistra, che negli ultimi decenni non hanno avuto la capacità di districare il nodo delle concessioni balneari, cioè delle attività turistico-ricreative che si svolgono sull’arenile delle più belle spiagge d’Italia. E così il ritardo ha complicato l’annosa vicenda, facendo intravedere complicazioni non indifferenti nella gestione di un servizio che in Italia è strettamente legato al turismo interno ed internazionale, non solamente estivo perché anche d’inverno i ristoranti lungo le coste sono meta dei vacanzieri del fine settimana che cercano qualche ora di riposto in vista del mare nella prospettiva di un pescato ben cucinato.
Ma vediamo quali sono i termini della vicenda che interessa imprese, prevalentemente famigliari, che gestiscono, spesso da molti anni, un tratto di arenile sul quale, oltre alle cabine ed agli ombrelloni offrono servizi di bar e ristorazione e, non di rado, attività ricreative come discoteche.
Gli arenili sono parte del demanio marittimo e vengono concesse, dietro pagamento di un canone, a chi si offre di svolgere l’attività di gestione dell’area con oneri di pulizia della spiaggia e si tutela dei bagnanti, mediante l’impegno di addetti al “salvataggio”, come si legge sulle magliette dei bagnini. I canoni sono esageratamente irrisori. Lo Stato, secondo dati forniti dalla Corte dei conti, ricava da alcune migliaia di chilometri di coste circa cento milioni ogni anno, una cifra risibile. Nel 1992, la Procura Generale della Corte dei conti segnalò, come esempio di cattiva amministrazione, il caso di una baia concessa per attività di acquacultura ad un canone di 650.000 lire l’anno. Ne parlarono tutti i giornali. E questo è uno dei problemi in quanto evidenzia che una categoria di operatori economici utilizza un bene pubblico a condizioni di ingiusto vantaggio a danno dell’intera comunità nazionale che dalla gestione degli arenili potrebbe vedere assicurata al bilancio dello Stato una entrata significativa ai fini dell’equilibrio dei conti.
Va ancora detto che i gestori delle attività sugli arenili ricavano rilevanti entrate per i servizi che rendono con guadagni a fronte dei quali è opinione diffusa che non corrispondano un’adeguata imposta. Si è letto sui giornali che mediamente i gestori denunciano guadagni inferiori ai trentamila euro l’anno, evidentemente non giustificabili.
Questa categoria di imprenditori privilegiati dallo Stato (più esattamente dalla protezione di alcuni partiti politici) deve oggi fare i conti con la direttiva n. 2006/123/CE del Parlamento europeo, nota come Bolkestein, dal nome del suo presentatore, che si propone di eliminare le barriere allo sviluppo del settore dei servizi tra gli Stati membri, garantendone una crescita sostenibile che rafforzi ancora di più l’integrazione tra i cittadini della Comunità e migliori il tenore e la qualità della vita dei cittadini e lavoratori anche attraverso la semplificazione delle procedure amministrative. Il comparto “servizi” assicura il 70% dell’occupazione in Europa, e la liberalizzazione delle attività, a detta di numerosi economisti, aumenterebbe l’occupazione ed il PIL dell’Unione Europea.
La direttiva è stata recepita dall’Italia con il decreto legislativo n. 59/2010 ma ancora non ha trovato applicazione in quanto il Governo italiano ha prorogato più volte la sua entrata in vigore sulla spinta degli interessati, preoccupati che la disciplina della concorrenza, che la direttiva UE richiede, con la messa a concorso le spiagge, priverebbe moltissime imprese dell’unica fonte di guadagno. La tesi che ricorre su alcuni giornali, avallata da alcune forze politiche, è che la disciplina della concorrenza sarebbe un mezzo per “espropriare i legittimi concessionari al fine di svendere le spiagge ad investitori stranieri” i quali, s’immagina, potrebbero fare offerte più vantaggiose per lo Stato.
Viste le ragioni dello Stato e dei contribuenti e quelle dei gestori è evidente che il ritardo nel decidere ha complicato le cose, considerato che sono intervenute sentenze dei giudici amministrativi, in particolare del Consiglio di Stato, che hanno accertato l’illegittimità delle concessioni prorogate. I Giudici di Palazzo Spada in Adunanza Plenaria (nn. 17 e 18 del 9 novembre 2021) hanno ritenuto immediatamente applicabile la direttiva europea. Ancora il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 3940 del 30 aprile 2024, ha dichiarato illegittima la proroga a fine 2025 delle concessioni balneari già scadute il 31 dicembre 2023 sicché i Comuni dovranno dare immediatamente corso alle procedure di gara per assegnarle in un contesto realmente concorrenziale. Ad avviso dei Giudici di Palazzo Spada, le proroghe automatiche e generalizzate sono contrarie alle regole di concorrenza europee secondo cui, in caso di “scarsità della risorsa naturale”, le gare devono essere fatte. La decisione richiama i principi della Corte di Giustizia UE (sent. del 20 aprile 2023) e si basa sull’esigenza di rendere più agevole l’accesso al settore da parte di nuovi operatori nonché di garantire ai cittadini una gestione del patrimonio nazionale costiero e una correlata offerta di servizi pubblici più efficiente e di migliore qualità e sicurezza, con conseguente beneficio della crescita economica e, soprattutto, della ripresa degli investimenti.
Il Governo Draghi con la legge n. 118/2022 – fatta salva, in alcuni casi e per ragioni obiettive, la “proroga tecnica” fino al 31 dicembre 2024 – aveva previsto decreti attuativi per ri-disciplinare la materia. Nulla di tutto questo ha fatto l’attuale Governo che, invece, con decreto-legge “milleproroghe” ha spostato la proroga delle balneari al 31 dicembre 2024 e fissato al successivo 31 dicembre 2025 il limite ultimo di quella “tecnica”.
Di fronte all’ultima pronuncia del Consiglio di Stato il Governo annaspa, tra il silenzio di alcuni e le rumorose proteste di Matteo Salvini contro “questa Europa” modello Ursula von der Leyen. Forse pensava che a Bruxelles avrebbero accettato l’improvviso incremento delle spiagge italiane da 8.000 km a 11.000, avendo il Governo incluso aree non accessibili e non soggette a concessioni quali aviosuperfici, porti commerciali, aree industriali e aree marine protette, scogliere a picco sul mare e non raggiunte da una strada.
Invece di non decidere sarebbe stato bene affrontare il tema e stabilire regole per le gare che tenessero conto del valore degli investimenti effettuati dai gestori in modo da disciplinare l’applicazione della direttiva per assicurare una effettiva par-condicio dei partecipanti alle gare. Una caso tutto sommato semplice che l’ingordigia degli uni (i balneari) e l’insipienza degli altri (i partiti che li proteggono) non avesse fatto incancrenire i problemi alla faccia del cittadino-contribuente per il quale il bene pubblico destinato ad uso commerciale deve rendere un’entrata adeguata al suo valore di mercato perché è un bene di tutti e l’utile che deriva dalla sua utilizzazione deve giovare a tutti consentendo al bilancio dello Stato di disporre di risorse per altri servizi di interesse comune o per la riduzione delle imposte. Canoni irrisori ed evasione fiscale sono, infatti, un torto grave, un’ingiustizia intollerabile ai danni dei cittadini onesti. La politica scelga la strada della giustizia agli occhi del cittadino e se verrà meno qualche voto di chi non comprende le ragioni dell’equità sociale ne conquisterà altri, e di più, dalle persone oneste.