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La lezione di Luigi Einaudi (1874-1961) – studioso, docente, Senatore del Regno e della Repubblica

del Prof. Aldo A. Mola

Se il Capo dello Stato si ridesta

Il 12 maggio 2018 il Capo dello Stato Sergio Mattarella rievocò Luigi Einaudi nel municipio di Dogliani nel 70° del suo insediamento a primo presidente effettivo delle Repubblica italiana. Disse che, con Alcide De Gasperi, egli ebbe il compito di “definire la grammatica della democrazia italiana appena nata”. Il presidente Mattarella ne evocò alcuni capisaldi, “a partire dall’esercizio del potere previsto dall’articolo 87 della Costituzione, che regola la presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa governativa”. Einaudi non esitò a rinviare alle Camere due leggi perché “comportavano aumenti di spesa senza copertura finanziaria, in violazione dell’articolo 81 della Costituzione”. Che cosa direbbe e farebbe oggi, per di più a cospetto del vorticoso incremento del debito pubblico?

Il Presidente Mattarella osservò che dopo le elezioni del 1953 e l’esaurimento del IX governo De Gasperi, per la designazione del nuovo presidente del Consiglio Einaudi non accolse l’indicazione propostagli dalla Democrazia cristiana e di sua iniziativa incaricò il biellese Giuseppe Pella, già apprezzato ministro del Tesoro, che formò un monocolore democristiano (rimasto in carica dal 17 agosto 1953 al 18 gennaio 1954) sostenuto dall’esterno da repubblicani (guidati da Randolfo Pacciardi), socialisti democratici (capitanati da Giuseppe Saragat) e dal Partito nazionale monarchico, con Amintore Fanfani ministro per l’Interno ed Ezio Vanoni alle Finanze. Quando si prospettò la sostituzione del ministro dell’Agricoltura, Simone Rocco, ai capigruppo democristiani Aldo Moro e Stanislao Ceschi, che gli proponevano un “candidato” diverso da quello voluto da Pella, per chiarezza e a futura memoria il 12 gennaio 1954 Einaudi lesse una “nota verbale” sulla corretta interpretazione del secondo comma dell’articolo 92 della Carta (“Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio, e su proposta di questo i Ministri”), motivata dal “dovere del presidente della Repubblica di evitare si pongano precedenti grazie ai quali accada o sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore, immuni da ogni incrinatura, le facoltà che la Costituzione gli attribuisce”. Il Presidente non è succubo dei partiti. E’ il Capo dello Stato, come lo era il Re a norma dello Statuto. Di lì l’avversione di Einaudi nei confronti del “governo di assemblea, che vuol dire tirannia del gruppo di maggioranza”. Ribadì la “terzietà” del Presidente.

Nella rievocazione del predecessore, Mattarella sottolineò il giudizio espresso da Einaudi sull’intervento di Vittorio Emanuele III nella crisi del luglio 1943. Mentre il Gran Consiglio del fascismo si era limitato a chiedere al sovrano di assumere e di esercitare i poteri riservatigli dallo Statuto (in specie dall’articolo 5: il comando delle forze armate), ma aveva ribadito la sua fiducia nel regime e nei suoi organi supremi, a cominciare dal Gran Consiglio medesimo, il re revocò Mussolini e nominò al suo posto il maresciallo Pietro Badoglio, che sciolse il partito nazionale fascista e tutto il suo apparato. Non fu una decisione improvvisata, ma il punto di arrivo di un percorso intrapreso da mesi, nella massima riservatezza, con la stretta collaborazione del ministro della Real Casa Pietro d’Acquarone e di alcuni generali di provata fiducia, quali Vittorio Ambrosio, capo di stato maggiore generale, e Giuseppe Castellano. Il re mostrò che “la prerogativa sovrana può e deve rimanere dormiente per lunghi decenni e risvegliarsi nei rarissimi momenti nei quali la voce unanime, anche se tacita del popolo (corsivo dell’autore), gli chiede di farsi innanzi a risolvere una situazione che gli eletti dal popolo da sé non sono capaci di affrontare o per stabilire l’osservanza della legge fondamentale, violata nella sostanza, anche se osservata nell’apparenza”. A quel modo Vittorio Emanuele provò che l’Italia non era una diarchia, come poi affermato da tanti “storici”. Malgrado invasioni di campo e prevaricazioni, come il conferimento a Mussolini e poi al Re del “primo maresciallato dell’Impero”, invenzione enfatica dei gerarchi più proni al duce, il potere della Corona era rimasto intatto.

Ma chi fu Einaudi?

Luigi Einaudi (Carrù, Cuneo, 24 marzo 1874 – Roma, 30 ottobre 1961) fu eletto primo presidente effettivo della repubblica italiana al quarto scrutinio l’11 maggio 1948, con 518 suffragi su 871 votanti. Prevalse su Vittorio Emanuele Orlando, candidato delle sinistre. Liberale e monarchico Einaudi non aveva studiato da capo dello Stato. Aveva studiato. Perso a dodici anni il padre, esattore delle imposte, crebbe a Dogliani con lo zio, Francesco Fracchia, avvocato bene affermato. Nel 1922 ne pubblicò gli Appunti per la storia politica ed amministrativa di Dogliani. Allievo nel collegio dei Padri Scolopi a Savona, nel 1888 Einaudi fu proclamato “Principe dell’Accademia” su indicazione dell’insigne geografo Arcangelo Ghisleri, massone al pari di tanti amici e frequentatori dei collegi casalanziani. Come la generalità della dirigenza politica e culturale del suo tempo, Einaudi fu cattolico praticante, ma senza ostentazione e rispettoso delle altre confessioni.

Per comprenderne la personalità giova percorrerne almeno idealmente le terre d’origine, le stesse di Giovanni Giolitti, Camillo Peano, Marco Saluzzo di Saluzzo e Marcello Soleri, come ha narrato suo nipote, Roberto Einaudi, in Radici montane.Il suo mondo era ispirato dai principi all’epoca comuni non solo alla classe dirigente diffusa (deputati, senatori, consiglieri provinciali, sindaci consiglieri comunali, “notabili”…) e condivisi da tutte le persone “perbene”, anche umili genere natae. Iloromottieranoaiuta te stesso” e “volere è potere”, divulgati dal naturalista Michele Lessona.

Laureato in giurisprudenza a Torino appena ventenne, dopo un breve impiego alla Cassa di Risparmio di Torino dal 1896 Luigi Einaudi collaborò con “La Stampa”, e insegnò all’Istituto Tecnico “Franco Andrea Bonelli” di Cuneo e al “Germano Sommeiller” di Torino, ove poi si diplomarono Vittorio Valetta e Giuseppe Pella. A giudizio di Francesco Forte, socialista e docente nella sua stessa cattedra di Scienze delle Finanze, in dialogo con studiosi di vaglia, come Achille Loria Einaudi divenne in breve tempo “il maggiore economista liberale del Novecento”. Aveva già alle spalle opere acute e prestigiose, come Un principe mercante. Studi sull’espansione coloniale italiana, sulla finanza nello Stato sabaudo e sulle imposte. A lungo collaboratore della rivista “Critica sociale” fondata dai socialisti Filippo Turati e Claudio Treves, operò nel laboratorio della “Riforma sociale” promossa dal pugliese Salvatore Cognetti de’ Martiis e nel 1908 ne assunse la direzione.. Collaboratore del “Corriere della Sera” (dal 1903) e dell’ “Economist” (dal 1922), Einaudi rimproverò a Giolitti di utilizzare il potere per garantirsi la “stabilità di governo” a beneficio anche di “clienti” e opportunisti. Docente straordinario di scienza delle finanze a Pisa nel 1902, lo stesso anno fu chiamato dall’Università di Torino.

Credeva nella “bellezza della lotta”, cui nel 1923 dedicò un saggio. Interventista nel 1914-1915, il 6 ottobre 1919 fu nominato senatore su proposta di Francesco Saverio Nitti, presidente del Consiglio. Nel 1922 appoggiò il governo di coalizione nazionale presieduto da Benito Mussolini, che sino alla notte fra il 29 e il 30 ottobre si propose di averlo ministro delle Finanze affinché potesse attuare i suoi principi: ridurre drasticamente la spesa pubblica “clientelare”, ripristinare il prestigio dello Stato, assicurare i servizi, azzerare mafie e camorre e tagliare le unghie agli opposti corporativismi, a cominciare da imprenditori “pescecani” e sindacati parassitici. Rimasto estraneo all’esecutivo ne commentò l’ondivaga condotta con articoli sempre più severi. Al fervore scientifico unì la passione civile per le libertà. Già direttore dell’Istituto di Economia “Ettore Bocconi” di Milano, pubblicò una raccolta di saggi per il giovane editore torinese Piero Gobetti, strenuo oppositore e vittima dell’incipiente regime di partito unico.

All’indomani dell’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti (10 giugno 1924) per mano di una squadraccia fascista, Einaudi deplorò pubblicamente “il silenzio degli industriali”. L’anno seguente sottoscrisse la risposta degli intellettuali non fascisti, scritta da Benedetto croce al “Manifesto degli intellettuali fascisti”, mentre Luigi Luzzatti presiedette l’ “Unione intellettuale italiana”, prevalentemente di non fascisti (1925). Le sue opere erano ormai note anche oltre Atlantico. Come Giovanni Agnelli e Attilio Cabiati, nel 1918 aveva giustapposto alla Lega (poi Società) delle Nazioni, propugnata da Wilson, presidente degli Stati Uniti d’America, che ne fece inserire lo statuto in premessa ai Trattati di pace del 1919-1920, la molto più realistica e urgente Federazione europea. Solo questa poteva scongiurare il pericolo che dal collasso degli Imperi Centrali nascessero devastanti nazionalismi, mentre la Russia era preda della guerra civile. Einaudi tornò a scriverne in Dei diversi significati del concetto di liberismo economico e dei suoi rapporti con quello di liberalismo, in controcanto con il “giolittiano” Benedetto Croce, autore della Storia d’Italia (1928). Sarebbe però improprio asserire che Einaudi fosse un “liberista assoluto”. Tra le sue massime spicca “l’uomo libero vuole che lo Stato intervenga”. Il suo era “liberalismo senza aggettivi”. Come ha ricordato Tito Lucrezio Rizzo nel profilo di Einaudi pubblicato in Parla il Capo dello Stato (ed. Herald), egli ammonì “la scienza economica è subordinata alla legge morale”. Furono subito esemplari due sue opere degli Anni Trenta: La condotta economica e gli effetti sociali della guerra (1933) e Teoria della moneta immaginaria nel tempo da Carlomagno alla rivoluzione francese (1936).

Dopol’arresto e la breve detenzione deifigliGiulio e Roberto (il terzo, Mario, era migrato negli Stati Uniti d’America, docente universitario) e la forzata chiusura della “Riforma sociale”, Einaudi fondò la prestigiosa “Rivista di storia economica”, pubblicata dalla casa editrice di suo figlio Giulio e protratta sino al 1943. Nel dicembre 1938 fu tra i dieci senatori che votarono contro la legge “per la difesa della stirpe” e si pronunciò contro l’antisemitismo e l’incipiente vassallaggio ideologico-diplomatico-militare del governo Mussolini nei confronti della Germania di Adolf Hitler. Tenuto, come tutti i pubblici impiegati, inclusi i docenti universitari, a dichiarare la propria “stirpe” rispose che la sua gente era da sempre “ligure” con apporti di altre genti. A pochi chilometri da Carrù, Salmour ricorda la sua origine: “Forum Sarmatorum”, mentre Bene Vagienna rimanda alla IX Regio augustea, estesa dal mare al corso del Po.

Dopo molte edizioni dei fondamentali Principii di scienza della finanza, Einaudi condensò decenni di studi in Miti e paradossi della giustizia tributaria (1938). Come ha scritto Ruggiero Romano nell’introduzione ai suoi Scritti economici, storici e civili (ed. Mondadori), egli fu “il più grande demitizzatore” italiano del Novecento, non solo di teorie e pregiudizi economicistici, ma anche con riferimento alla vita sociale: “abolizione delle maiuscole, dei ‘titoli’ vanesii, dei formalismi pomposi”.

Nel dopoguerra

 Al crollo del regime mussoliniano (25 luglio 1943) Einaudi fu nominato rettoredell’UniversitàdiTorino, mentre Filippo Burzio assunse la direzione della “Stampa”. Con la resa dell’8 settembre 1943, quando Mussolini instaurò la Repubblica sociale italiana, succuba dei tedeschi, avvertito che era ricercato Einaudi scampò ad arresto e deportazione riparando in Svizzera. Vi svolse corsi e pubblicò, tra altro, I problemi economici della Federazione europea.

Sullafinedel 1944 fu chiamato a Roma dagli Anglo-americani di concerto con il governo presieduto da Ivanoe Bonomi. Il 4 gennaio 1945, d’intesa con il ministro del Tesoro Marcello Soleri, fu nominato governatore della Banca d’Italia in successione a Vincenzo Azzolini, arrestato per presunta collusione con gli occupanti germanici. Quale direttore generale volle Donato Menichella, che non conosceva di persona ma la cui formidabile competenza sulle relazioni tra banca e industria molto apprezzava. Lo attese un compito immane. Aveva pubblicato Lineamenti di una politica economica liberale. Il governo era vigilato dalla Commissione Alleata di Controllo. L’amministrazione locale era a sua volta subordinata a governatori militari. L’Italia meridionale era inondata dalle Am-Lire. La moneta circolante era quasi venti volte superiore a quella d’anteguerra. L’inflazione galoppava. Il prodotto interno in molte regioni era dimezzato. In tante plaghe la popolazione era alla fame. I sei partiti del Comitato Centrale di Liberazione Nazionale, presenti nel governo (liberali, democristiani, democratici del lavoro, partito d’azione, socialisti, comunisti), erano divisi nell’immediato e ancor più nelle prospettive ultime. Il 27 luglio 1943 Pietro Badoglio aveva sciolto la Camera; l’alto commissario per l’epurazione aveva privato quasi tutti i senatori del rango e dei diritti politici e civili. In assenza del Parlamento, Einaudi dovette valersi di cariche e poteri straordinari per svolgere la propria opera.

Nominato membro della Consulta Nazionale (agosto 1945), poco prima del referendum istituzionale del 2-3 giugno 1946 il 24 maggio Einaudi pubblicò in “L’Opinione” di Torino l’articolo “Perché voterò per la monarchia”: in nome della continuità dello Stato. Per lui l’istituto monarchico non è “una persona” ma “un sistema”.

Candidato all’Assemblea Costituente nel Blocco Nazionale della Libertà. fu tra gli undici deputati eletti nel collegio unico nazionale.Contemporaneamente venne eletto nei due collegi della I Circoscrizione Elettorale (Piemonte). Optò per il Collegio unico nazionale. In Piemonte gli subentrarono Bruno Villabruna e Vittorio Badini Confalonieri.

Al rientro dal viaggio negli Stati Uniti d’America, il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, democristiano, lo volle vicepresidente e ministro del Bilancio. Con apposito decreto fu confermato governatore della Banca d’Italia e poté tessere la tela quotidiana della Ricostruzione. Consapevole delle drammatiche difficoltà nelle quali versava il Paese, anziché vagheggiare progetti vasti ma irrealizzabili puntò a interventi “a pezzi e bocconi”, come narrato dal suo fido segretario particolare, Antonio d’Aroma. Doveva ristrutturare un edificio occupato da persone che non potevano esserne allontanate, la “romana burocrazia nostra sovrana”. Per attuare il risanamento monetario a suo avviso non esistevano “mezzi taumaturgici”. Dopo il prestito nazionale promosso da Soleri, che gli dedicò gli ultimi febbricitanti mesi di vita con patriottismo esemplare, Einaudi lasciò che il trascorrere del tempo facesse decantare propositi azzardati e pericolosi, a cominciare dal “cambio della lira”, che avrebbe provocato la fuga dei pochi capitali disponibili e scoraggiato investimenti dall’estero. Come da lui previsto, in un paio d’ anni le speculazioni si esaurirono e l’inflazione si ridusse a indici accettabili con la ripresa, favorita dai giganteschi prestiti senza oneri da parte degli USA nell’ambito del Piano Marshall.

Contrario a imposte straordinarie, contrarissimo a tasse sul patrimonio, che avrebbero colpito media e piccola proprietà (se ne era occupato nel magistrale saggio del 1920 su Il problema delle abitazioni), Einaudi mirò a rinvigorire la classe media, la scuola (senza settarismi: pubblica o privata, purché seria) e la dedizione dei pubblici dipendenti, militari e civili, che servivano lo Stato in tutte le sue articolazioni nel ricordo delle sofferenze vissute nelle due grandi guerre e a prezzo di tante vite. Monarchico libero da feticismi, poté presto salutare il plebiscito del “quarto partito”: i risparmiatori, spina dorsale della Nuova Italia. Nella sua immane opera ebbe collaboratori Giuseppe Pella e l’insigne economista Gustavo Del Vecchio.

Alla Costituente Einaudi pronunciò discorsi appassionati e taglienti. Componente della Commissione dei Settantacinque che approntò la bozza della Carta, ottenne l’approvazione dell’articolo 81, che recita: “Con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese. Ogni altra legge che importi nuove e maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte”. Nominato membro di diritto del Senato della Repubblica (22 aprile 1948), che immise nella Camera Alta gli antichi patres immuni da addebiti di filofascismo, all’indomani delle elezioni del 17-18 aprile 1948 prese parte all’inaugurazione della prima legislatura, chiamata a eleggere il Capo dello Stato.

In forza dell’articolo 83 della Costituzione il Parlamento si radunò per eleggere il primo presidente effettivo della Repubblica italiana. Candidato della Democrazia cristiana, partito di maggioranza relativa, era Carlo Sforza, Collare della Santissima Annunziata, senatore del regno, ambasciatore, ministro degli Esteri, fervido repubblicano: una candidatura condivisa anche da partiti “moderati”. Aveva la certezza di essere eletto. Quando, su incarico di De Gasperi, all’alba dell’11 maggio gli si recò in visita, Giulio Andreotti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, intravvide il discorso che aveva preparato per l’insediamento. Ma Andreotti era latore di un messaggio urgente: la Dc aveva rinunciato a insistere sul suo nome. Chi aveva scelto? Ne ha scritto magistralmente Riccardo Faucci nella biografia di Einaudi edita dalla Utet.

(pubblicato da Il Giornale del Piemonte e della Liguria del 20 ottobre 2024)

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