di Salvatore Sfrecola
In origine era Re Giorgio (Napolitano), come cominciò a chiamarlo Marco Travaglio per alcune “invasioni di campo” nelle vicende della politica, come nel caso delle manovre con cui avrebbe agevolato la caduta del Governo Berlusconi nel 2011. Ed oggi qualcuno parla di Re Sergio, a dire soprattutto di alcuni giornali apertamente schierati a fianco dell’attuale Governo i quali desumono, da alcuni interventi del Capo dello Stato, che con Mattarella la Repubblica si sarebbe trasformata in una Monarchia, “per di più neppure troppo costituzionale”, come ha scritto Maurizio Belpietro. Affermazione che deve far riflettere per l’autorevolezza del Direttore de La Verità, considerato che sembra far intendere che anche l’attuale il Presidente abbia, in qualche misura, debordato dai suoi compiti istituzionali.
La riflessione sulla figura del Capo dello Stato nell’ordinamento parlamentare disegnato dalla Costituzione e sui suoi poteri nasce da lontano, già dai primi anni della Repubblica ed ha riguardato le modalità di esercizio delle attribuzioni indicate nell’art. 87 della Costituzione, che riguardano gli atti “propri” della carica, e le attività che, invece, potremmo definire “libere”, come le esternazioni alle quali ci hanno abituati, sia pure con diversa intensità, praticamente tutti i presidenti, e hanno fatto e fanno discutere per l’evidente e rilevante significato “politico” che assumono, in quanto provenienti dal Capo dello Stato.
Vediamo di capirci meglio, considerato che l’Italia è dal 1948, data di entrata in vigore della Costituzione, una Repubblica parlamentare fondata sulla separazione dei poteri, cioè sulla distinzione delle funzioni, del Parlamento, espressione della sovranità popolare, del governo e della magistratura, nella quale al Capo dello Stato è assegnato il ruolo di rappresentante dell’“unità nazionale”, espressione dalla forte valenza simbolica che richiama la continuità storica della Nazione, pur non essendo il Presidente l’incarnazione e la personificazione dello Stato come nelle monarchie. Suo compito è quello di assicurare il corretto funzionamento delle istituzioni e della democrazia pluralistica, garante dell’equilibrio tra i poteri. Pertanto, emana e promulga atti, amministrativi e legislativi, ha il Comando delle Forze Armate e presiede il Consiglio Superiore della Magistratura, in funzione di garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza dell’ordine giudiziario, senza che “abbia a porsi come un corpo separato”, come ha spiegato la Corte costituzionale.
Esclusi i primi due Presidenti, il provvisorio, Enrico De Nicola, ed il primo, Luigi Einaudi, entrambi dichiaratamente monarchici e, pertanto, abituati a concepire il Capo dello Stato effettivamente super partes, perché assolutamente svincolato dal condizionamento dei partiti, tutti gli altri Presidenti, chi più chi meno, sono intervenuti nella vita politica e dei Governi. Tuttavia è con Einaudi che si ha il primo caso di “esecutivo del presidente”, con la scelta di Giuseppe Pella incaricato senza che fosse stato consultato il partito di appartenenza, la Democrazia Cristiana. E fu scontro “fra il presidente e il potere esecutivo, da un lato, e la democrazia dei partiti, dall’altro” che vide – sottolinea Marco Gervasoni (“Le armate del presidente”, Marsilio, 2015) “l’ovvia ma non scontata vittoria di quest’ultima. Una vittoria, osserva, che pregiudicò la possibile rielezione di Einaudi”. L’indipendenza non è apprezzata, i partiti desiderano una figura notarile, un presidente discreto, “tutto disposto a lasciar governare l’esecutivo e a far tessere alleanze ai partiti” (ancora Gervasoni).
Tutti gli inquilini del Quirinale, dunque, hanno dimostrato un certo protagonismo, convinti che il ruolo fortemente politico potesse dominare la scena anche nei confronti del partito di appartenenza e della coalizione che lo ha eletto. Da Giovanni Gronchi ad Antonio Segni, accusato addirittura di aver immaginato un colpo di Stato, a Giuseppe Saragat, Giovanni Leone, Sandro Pertini, Francesco Cossiga, Oscar Luigi Scalfaro, Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio Napolitano, tutti hanno in qualche misura cercato di condizionare le scelte del Presidente del consiglio incaricato, quanto alle nomina dei ministri. In corso di gestione del governo i Presidenti hanno detto la loro sui provvedimenti normativi e amministrativi portati alla loro firma, spesso messi a punto a seguito di una interlocuzione, non sempre facile, tra gli uffici della Presidenza del Consiglio e quelli del Quirinale.
C’è, poi, il capitolo delle iniziative politiche assunte dai presidenti al di fuori od a latere di intese con il partito di provenienza. Gronchi, ad esempio, fu ritenuto l’ispiratore del Governo Tambroni. Di Segni ho fatto cenno. Secondo alcuni l’interventismo si sarebbe accentuato a partire da Oscar Luigi Scalfaro il quale avrebbe consolidato con sue iniziative alcuni governi e favorito (“brigato” per) la caduta di altri, come quello di Silvio Berlusconi nel 1994, a seguito della defezione della Lega Nord. Sempre Scalfaro avrebbe ostacolato la nomina di Cesare Previti, avvocato di Berlusconi, a Ministro della Giustizia, intervento che francamente mi pare assolutamente condivisibile. Dopo Scalfaro, Cossiga è stato il “picconatore” dei partiti anche in contrasto con il Presidente del Consiglio, Giulio Andreotti. Ricordo una diretta televisiva dal Forum PA nel corso della quale Cossiga, tenendo in mano una copia della Costituzione, spiegava che in caso di contrasto con il Presidente del Consiglio “lui lascia ed io resto”. Lui e Pertini ritenevano doveroso farsi portavoce dei sentimenti popolari, in qualche modo stemperando le polemiche che montavano nella società civile. Come nel caso del terremoto dell’Irpinia, quando l’intervento di Pertini provocò le dimissioni del Ministro Rognoni. Ciampi era molto attento all’equilibrio dei conti. Lo incontrai da Presidente dell’Associazione Magistrati della Corte dei conti preoccupato più dell’efficienza dei controlli sulla gestione del bilancio che della giurisdizione contabile. Sempre secondo Belpietro Ciampi sarebbe intervenuto “mettendo becco tramite i suoi uffici in scelte che avrebbero dovuto essere di competenza dell’esecutivo”. Tuttavia, è con Napolitano che l’opera di trasformazione della Repubblica in presidenziale si sarebbe realizzata senza che sia stata attuata l’elezione diretta del Presidente della Repubblica.
Il tema del “dialogo” tra gli uffici della Presidenza della Repubblica e quelli della Presidenza del Consiglio dei ministri è molto delicato. Ed è fisiologico e più volte è valso a definire in modo corretto atti, in particolare decreti-legge, di immediata efficacia, o i decreti di nomina delle alte cariche dello Stato. La firma del Presidente esprime una forma di controllo di legalità e, in alcuni casi, di opportunità, come nel caso delle nomine.
Il Presidente non è un passacarte, con la firma assume una responsabilità, che attesta della legittimità dell’atto. Accadeva anche ai tempi del Re Vittorio Emanuele III che, appena assunte le funzioni, ebbe un aspro contrasto con il Presidente del consiglio, Giuseppe Saracco. C’erano sulla scrivania del Sovrano carte che Umberto I non aveva fatto in tempo a firmare, ma che, secondo il nuovo Re, erano in contrasto con lo Statuto. Il vecchio Senatore Saracco aveva replicato alquanto piccato che la valutazione di costituzionalità o incostituzionalità non era di competenza del Re, il quale avrebbe dovuto limitarsi a firmare, come sempre era avvenuto. Lapidaria la risposta di Re Vittorio: “già, ma d’ora in avanti il re firmerà solo gli errori suoi, non quelli degli altri”.
L’impressione, da un osservatore imparziale, è che Mattarella abbia esercitato questo ruolo con molto garbo, riconducendo nell’alveo del giuridicamente corretto provvedimenti concepiti e scritti in “politichese”, almeno a quanto si è potuto desumere dalle cronache giornalistiche. Chi ritiene che il Presidente in questi casi sia andato oltre, che abbia “esondato dal ruolo”, come si è letto, molto probabilmente sbaglia.
Diverso è per Mattarella, come per altri presidenti. il giudizio sugli interventi “liberi”, non collegati ad atti necessari. Il Capo dello Stato praticamente parla tutti i giorni, in occasione di ricorrenze varie, del ricevimento di personalità o di categorie professionali e sportive, del ricordo di episodi storici, occasioni nelle quali manifesta le sue opinioni sulle regole della democrazia e sui principi della Costituzione, opinioni che, per la visibilità propria del ruolo, hanno un risvolto rilevante, come segnala la stampa. Alcuni interventi sono definiti di “moral suasion”, inviti a correggere o a rivedere determinati comportamenti che non possono non incidere sulla vita politica. Aspetto delicato perché, a differenza dei “veri” Re, la sua posizione di terzietà è solamente formale in quanto il Presidente è espressione di una maggioranza politica. E fa politica non solamente nelle occasioni appena ricordate, ma anche quando conferisce onorificenze, invia messaggi di saluto, quando interviene (o non interviene) in alcune cerimonie, anche solo quando si limita a qualche battuta che il “quirinalista” di turno a lui vicino si premura di sottolineare. Come quando richiama i “valori” che hanno ispirato la Costituzione “antifascista”, soprattutto in occasione di ricorrenze nazionali o di cerimonie che riguardano eventi storici dolorosi che hanno coinvolto il regime fascista e la guerra. Un dato proprio della “cultura politica” del Presidente e della maggioranza che lo ha eletto alla quale presta naturalmente attenzione, perché ne ha fatto parte per anni come esponente di primo piano con responsabilità politiche rilevanti.
Sarebbe ipocrita pensare che un uomo politico di spessore e di lunga esperienza dimentichi, in ragione dell’elezione a Capo dello Stato, la cultura che gli è propria. Il Presidente non è un Re e l’Italia non è diventata una Monarchia perché alcuni degli inquilini del Quirinale hanno “messo becco” nelle vicende della politica. La differenza sostanziale sta nella regola di assunzione della carica, elettiva nella Repubblica, ereditaria nella Monarchia che fa del Sovrano un Capo di Stato effettivamente super partes che i partiti sanno non essere loro favorevole o contrario. E rappresenta effettivamente “l’unità nazionale”, anche perché appartenente ad un Casato che ha accompagnato la formazione dello Stato nazionale, come i Savoia in Italia o i Borbone in Spagna. Non è poco. E quando i cittadini votano sanno che, vinca la Destra o la Sinistra, non è in discussione la forma di stato e quindi l’equilibrio tra i poteri che oggi, invece, in Italia è in discussione, legittimamente, dalle proposte di un “premierato” che modifica i rapporti tra Governo e Parlamento, alla separazione della carriera dei giudici e dei pubblici ministeri che fa intravedere la sottoposizione del requirente al potere politico. Del resto, l’insofferenza per le funzioni di garanzia dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (A.N.A.C.) e di controllo e giurisdizionali della Corte dei conti ne sono una prova evidente.