L’intollerabile intolleranza del Ministro Boschi
che richiama all’ordine il Sen. Chiti
di Salvatore Sfrecola
“Con la Costituzione non si scherza, quando la riforma arriverà alla Camera bisogna che ci guardiamo negli occhi e decidiamo se vogliamo far funzionare il sistema oppure no?”. Le parole di Pierluigi Bersani mentre inizia l’esame dei disegni di legge costituzionale per la riforma del Senato sono pesanti come pietre e richiamano l’attenzione sull’oggetto della riforma, la Costituzione, la legge delle leggi, quella che delinea la struttura ed il funzionamento dello Stato.
C’è voluto a mettere giù quei 139 articoli, tra il 1946 e il 1947, in un confronto spesso teso tra le forze politiche, talune delle quali di nuovo ingresso nella storia costituzionale dello Stato unitario, come il Partito Comunista Italiano e la Democrazia Cristiana. Eppure tutte ebbero la consapevolezza del ruolo che erano chiamate a svolgere, che consideravano caratterizzato da un che di sacrale. Ed impegnarono nei lavori dell’Assemblea costituente i loro uomini migliori, politici e giuristi di rango. Perché le costituzioni non sono leggi che si cambiano ad ogni legislatura, sono l’impronta dello Stato, durano decenni, a volta secoli. Basti pensare che il Regno Unito vanta ancora norme stabilite nella Magna Charta Libertatum, datata 1215.
Si comprende, dunque, il richiamo di Bersani alla serietà dell’impegno che i partiti si sono dati nel proporre, sia pure con riferimento a modelli diversi, la riforma del Senato, la Camera Alta, come si diceva un tempo, per superare il cosiddetto bicameralismo “perfetto” o “paritario”, come si definisce un sistema parlamentare nel quale le due camere hanno gli stessi poteri.
Proposte dei partiti, gli attori naturali della legislazione. Ma vi è anche un disegno di legge del Governo che ipotizza un’assemblea non elettiva espressione delle autonomie, soprattutto dei sindaci.
Non entro nel merito delle proposte, sulle quali ci sarà altra occasione di approfondimento, per soffermarmi sul clima che si è venuto a creare, preoccupante per lo spirito di intolleranza che sottende e che si è manifestato soprattutto nei rapporti tra il Ministro per le riforme, Maria Elena Boschi, che gestisce l’iniziativa governativa, e il Sen. Vannino Chiti, autorevole esponente del Partito Democratico, già Ministro e Presidente della Regione Toscana, autore, insieme ad altri colleghi, di una diversa e, per certi versi inconciliabile, ipotesi di riforma costituzionale.
“Anche noi vogliamo il superamento del bicameralismo paritario: solo la Camera avrà il rapporto fiduciario con il Governo e l’ultima parola sulla gran parte delle leggi”, precisa Chiti. “La differenza principale riguarda le modalità di elezione del Senato e le sue competenze: la proposta del governo è che i sindaci e i consiglieri regionali eleggano alcuni di loro anche senatori; che i Presidenti delle regioni e i sindaci delle città capoluogo di regione siano senatori di diritto. Noi proponiamo che i senatori siano eletti dai cittadini con una legge di tipo proporzionale e le preferenze, in concomitanza con le elezioni per i Consigli regionali”.
Il Ministro Boschi chiede di ritirare il disegno di legge. Ottiene un rifiuto. Il Sen. Chiti insiste. Anche perché il suo progetto ottiene l’attenzione del Movimento Cinque Stelle e di alcuni esponenti di Forza Italia.
“Ritengo – argomenta Chiti – che nella situazione italiana, nel 2014, che non è il 1996, con la crisi di fiducia tra cittadini e istituzioni e il desiderio, a cui dare una risposta, di partecipazione diretta, la soluzione preferibile per la riforma del Parlamento sia una forte riduzione del numero dei deputati e dei senatori e un Senato eletto a suffragio universale”. “È così – sottolinea – in altri paesi che hanno superato, come noi dobbiamo urgentemente fare, il bicameralismo paritario, basti prendere l’esempio della Spagna. In ogni caso confermo che se in Italia, come in Germania, si andasse verso un federalismo solidale, la soluzione rigorosa del Bundesrat, e cioè presenza dei soli governi regionali con voto unitario, sarebbe per me assolutamente accettabile”.
“È evidente a tutti – aggiunge Chiti – che la riforma del Senato proposta dal governo non ha niente a che vedere con il Bundesrat. Naturalmente dovrebbe essere sul modello tedesco anche la legge elettorale per la Camera dei Deputati. La Costituzione va vista nel suo insieme: esige equilibri tra le istituzioni e tra i poteri. Non si può avere per la Camera una legge ipermaggioritaria, come è l’Italicum, ricentralizzare molte competenze, come è nella proposta del governo del nuovo Titolo V, e indebolire le funzioni di garanzia oltre che di rappresentanza dei territori del Senato. Se le modifiche della Costituzione non hanno un raccordo unitario – conclude – non si realizza un aggiornamento coerente ma si rischia di impoverire la nostra democrazia”.
La vicenda del contrasto tra il Ministro ed il Senatore fa emergere un profilo, certo non nuovo, ma rilevante, dei rapporti tra la direzione dei gruppi parlamentari ed i singoli deputati e senatori e, in questo caso, tra senatori ed il governo presieduto dal Segretario del Partito. E pone problemi di indipendenza del singolo parlamentare anche nei confronti del partito di appartenenza secondo quello che può essere definito lo “statuto della libertà dei parlamentari” ai sensi dell’art. 67 della Costituzione. “Il parlamentare – ha precisato la Corte costituzionale nella sentenza n. 14 del 1964 – è libero di votare secondo gli indirizzi del suo partito ma è anche libero di sottrarsene; nessuna norma potrebbe legittimamente disporre che derivino conseguenze a carico del parlamentare per il fatto che egli abbia votato contro le direttive del partito”. Pertanto i regolamenti parlamentari garantiscono al singolo parlamentare il diritto di esprimere la propria opinione quando sia in dissenso con il gruppo di appartenenza.
Insomma è un problema di democrazia politica e parlamentare. Non rispettare la libertà di iniziativa legislativa di deputati e senatori incide su principi fondamentali dell’esercizio della rappresentanza politica, su quel libero mandato che parte della dottrina ritiene costituisca un vero e proprio diritto, il “potere di rappresentare la Nazione” (art. 67, Cost.).
Ma forse il Ministro Boschi, nell’impeto giovanile e nella fedeltà assoluta al leader del Partito e del Governo, non si è data carico di approfondire come conciliare l’appartenenza al partito ed il rispetto di una prerogativa costituzionale, che marca il confine tra la democrazia parlamentare ed altro.
24 aprile 2014
La riforma del Senato e la “svolta monarchica” di Eugenio Scalfari
Proposte per una camera veramente “alta”
di Salvatore Sfrecola
Alla riforma del Senato proposta dal Governo non hanno manifestato contrarietà solamente i “professoroni”, come Maria Elena Boschi, Ministro per le riforme costituzionali, ha qualificato, con una buona dose di supponenza, Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky e gli altri studiosi che hanno firmato un appello contro il complesso delle riforme istituzionali proposte da Matteo Renzi e sostenute (sembra) da Silvio Berlusconi, ritenute espressione di democrazia plebiscitaria basata su una centralizzazione dei poteri statali, unita al rafforzamento delle competenze del Presidente del Consiglio, la trasformazione del Senato e una legge elettorale con un premo di maggioranza molto consistente.
Così Nadia Urbinati, Gustavo Zagrebelsky, Stefano Rodotà, Lorenza Carlassare, Alessandro Pace, Roberta De Monticelli, Gaetano Azzariti, Elisabetta Rubini, Alberto Vannucci, Simona Peverelli, Salvatore Settis e Costanzo Firrato hanno preso carta e penna ed hanno manifestato le loro preoccupazioni per le conseguenze di un progetto a loro giudizio destinato a “stravolgere la nostra Costituzione da parte di un Parlamento esplicitamente delegittimato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 2014”.
Quei professori non sono i soli ad esprimere dubbi ed a formulare proposte alternative. A cominciare da Eugenio Scalfari, andato giù pesante con critiche mirate e un progetto di “Camera Alta” che a taluno è parso evocasse l’esperienza del Senato del Regno.
Nel fondo di domenica 6 aprile (In povertà sua lieta sciala da gran Signore) Scalfari ha scritto: “Matteo Renzi è per il cambiamento? Anche noi siamo per il cambiamento. Renzi è per le riforme? Anche noi siamo per le riforme. Renzi è per la prevalenza della politica sull’economia? Noi siamo per l’economia politica, forse è la stessa cosa detta con altre parole, ma forse no, dipende. Renzi è per gli annunci ai quali seguiranno i fatti? Noi siamo per i fatti e per i programmi che inquadrano i fatti già avvenuti nel quadro di un sistema. Infine, Renzi è per la riforma del Senato ed anche noi lo siamo, ma c’è riforma e riforma, cambiamento e cambiamento, innovazione e innovazione”. Aggiungendo “Il problema dunque è questo: dare alla parola Senato un nuovo ma sostanzioso significato. Oppure tanto vale abolirlo”.
Ed ecco la critica: “Il Senato delle autonomie non ha senso alcuno, c’è già la conferenza Stato-Regioni, che comprende anche i Comuni; è formata da tutti i governatori e da tutti i sindaci ed ha un comitato ristretto eletto dall’assemblea di tutti i suddetti. Non costa un centesimo se non il viaggio a Roma quando l’incontro col governo ha luogo. Il Senato delle autonomie sarebbe un inutile doppione”. E ricorda che, per i romani, Senatus populusque era l’unione del Senato e del Popolo dell’Urbe perché nell’evoluzione dell’istituzione, tra regno e repubblica, quell’assemblea aveva comunque mantenuto l’auctoritas e il consilium, con ruolo, rispettivamente, di approvazione della volontà manifestata dal populus nei comitia, in funzione del controllo di costituzionalità delle deliberazioni comiziali e di ausilio alle decisioni sovrane, attuando quella costituzione mista che il greco Polibio individuava proprio nella relazione finalistica tra auctoritas e consilum. Da segnalare che il Senato di Roma mantenne anche nell’impero un ruolo costituzionale fondamentale.
L’iniziativa di Renzi tende esplicitamente al superamento del bicameralismo “perfetto” o “paritario”, caratterizzato, come sappiamo, dall’esistenza di due assemblee titolari di analoghe attribuzioni, differenziate solamente nell’elettorato attivo (25 anni) e passivo (40 anni) e nella identificazione dei collegi elettorali, essendo il Senato eletto “a base regionale” (art. 57 Cost.). Troppo poco, si dice, per giustificare due Camere, la cui presenza allunga naturalmente i tempi della produzione legislativa, spesso con ripetute “navette” tra Montecitorio e Palazzo Madama, anche se l’esperienza, dall’entrata in vigore della Costituzione ad oggi, insegna che più volte la doppia lettura ha rimediato a svarioni giuridici e ad errori politici, spesso gravi. E ciò nonostante sono state approvate leggi dichiarate incostituzionali dalla Consulta.
Il dubbio che la scelta di due camere paritarie fosse utile al buon funzionamento della democrazia e all’esercizio della funzione legislativa l’avevano avuta anche alcuni dei costituenti. Ed anche negli anni successivi il bicameralismo è stato argomento di discussione tra gli studiosi ed i politici, come dimostrano, tra le altre, le riflessioni di Meuccio Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione (cosiddetta “dei 75”) consegnate in vari scritti negli anni successivi. Ricordando che “quanto ai poteri delle due Camera, quasi tutte le Costituzioni che le conservano, danno, nel dissenso, prevalenza ad una di esse” (La Costituzione italiana: lineamenti e problemi aperti, in Comitato nazionale per la celebrazione del primo decennale della promulgazione della Costituzione (a cura),Raccolta di scritti sulla Costituzione. Studi sulla Costituzione, Milano, Giuffré, 1958, III, 492).
Se ne è tornato a discutere con insistenza più di recente, fin dal primo governo Berlusconi (1994), con critiche ai tempi lunghi della produzione normativa tanto da giustificare il ripetuto ricorso alla decretazione d’urgenza, con provvedimenti approvati il più delle volte sulla base di maxiemendamenti sorretti da mozioni di fiducia, con l’effetto di limitazione del diritto di emendamento dei parlamentari, nonostante, come vedremo, maggioranze molto consistenti.
Oggi si dice che semplificare significava anche risparmiare, un verbo denso di suggestioni in un momento in cui si afferma l’esigenza di ridurre i costi della politica. Infatti oggi la riforma del Senato proposta dal Governo prevede meno senatori, non eletti da designati da enti locali, senza diritto ad una indennità. Anche se qualcuno ha osservato che comunque una diaria andrà senz’altro riconosciuta per viaggio, vitto e alloggio. Mentre su Twitter vi è chi ha osservato che i nuovi senatori non potrebbero fare a meno di una segreteria e, ovviamente, di una segretaria.
E qui, passando dalla critica alla proposta, Scalfari, in alternativa al progetto governativo, propone una Camera Alta, come si diceva un tempo, con un ruolo politico significativo. Politico nel senso più nobile e ampio, con un ruolo di garanzia di legalità efficienza e buona amministrazione, con un raccordo con la cultura, la scienza, e le istituzioni.
Infatti. “il Senato non dovrà più votare la fiducia al governo né approvare il bilancio dello Stato e la legislazione connessa, salvo che non si ravvisi una violazione costituzionale. Sulla costituzionalità di tutti gli atti del governo il Senato potrebbe, anzi dovrebbe esercitare la sua vigilanza allo stesso modo in cui l’esercita la Camera. Così pure potrebbe, anzi dovrebbe esercitare un accurato controllo sulla pubblica amministrazione, tanto più rigoroso in quanto la Camera esprime il governo e lo sostiene con la sua fiducia. Il Senato è dunque il ramo del Parlamento più consono al controllo della regolarità e dell’efficienza della pubblica amministrazione. Si dirà che una parte di questo controllo è affidato alla Corte dei Conti, ma quella è una magistratura che persegue irregolarità o addirittura reati di natura contabile”. Laddove il ruolo del Senato sarebbe politico.
“Infine il Senato potrebbe, anzi dovrebbe svolgere un ruolo culturale approfondendo temi scientifici, sanitari, ecologici, umanistici, che spesso sono affrontati dal governo e dalle Regioni senza preparazione e quindi compiendo errori che possono essere di grave nocumento per i governati. Per adempiere a questo compito il Senato dovrebbe esser composto da un certo numero di membri che rappresentino altrettante “eccellenze” e le mettano a tempo pieno a disposizione del paese. Non possono certo essere eletti, ma nominati dal capo dello Stato che potrà avvalersi di rose di nomi fornite da Accademie culturali, Università, scuole specializzate”.
Per aggiungere che “I temi per fare dell’attuale Senato non una scatoletta vuota ma una Camera Alta nel pieno senso della parola, sono questi e su di essi si può e anzi si deve svolgere un libero dibattito che porti ad una legge costituzionale idonea a costruire un’equilibrata architettura costituzionale”. Concludendo che “in una fase in cui si aumenta il potere decisionale del governo e soprattutto quello del premier, annullare completamente una delle due Camere configura una tendenzialità autoritaria estremamente rischiosa specie in tempi di partiti personalizzati. La premiership è cosa del tutto diversa dall’attuale presidenza del Consiglio. Diversa e probabilmente necessaria purché opportunamente bilanciata. I poteri e il rapporto tra di essi in Usa tra il Presidente degli Stati Uniti e il Congresso ne sono la prova, confortata da quella del Regno Unito britannico nel rapporto tra il premier e i Comuni. Congresso in America, Camera dei Lord in Gran Bretagna sono due esempi da non perder di vista in Italia e nella futura Europa nel giorno auspicabile in cui diventerà un vero Stato federale”.
È sembrato che Scalfari si sia ispirato, senza citarla, all’esperienza del Senato del Regno d’Italia. Lo hanno notato anche alcuni interventi su Twitter, i quali hanno perfino suggerito, in tono scherzoso, che il quotidiano fondato da Scalfari cambiasse nome, da La Repubblica a La Monarchia.
Dove, dunque, le somiglianze con la Camera Alta come delineata dall’art. 33 dello Statuto Albertino? Composto di “membri nominati a vita dal Re, in numero non limitato, aventi l’età di quarant’anni compiuti”, i senatori venivano scelti tra: 1° Gli Arcivescovi e Vescovi dello Stato; 2° Il Presidente della Camera dei Deputati; 3° I Deputati dopo tre legislature, o sei anni di esercizio; 4° I Ministri di Stato; 5° I Ministri Segretari di Stato; 6° Gli Ambasciatori; 7° Gli Inviati straordinarii, dopo tre anni di tali funzioni; 8° I Primi Presidenti e Presidenti del Magistrato di Cassazione e della Camera dei Conti; 9° I Primi Presidenti dei Magistrati d’appello; 10° L’Avvocato Generale presso il Magistrato di Cassazione, ed il Procuratore Generale, dopo cinque anni di funzioni; 11° I Presidenti di Classe dei Magistrati di appello, dopo tre anni di funzioni; 12° I Consiglieri del Magistrato di Cassazione e della Camera dei Conti, dopo cinque anni di funzioni; 13° Gli Avvocati Generali o Fiscali Generali presso i Magistrati d’appello, dopo cinque anni di funzioni; 14° Gli Uffiziali Generali di terra e di mare; Tuttavia i Maggiori Generali e i Contr’Ammiragli dovranno avere da cinque anni quel grado in attività; 15° I Consiglieri di Stato, dopo cinque anni di funzioni; 16° I Membri dei Consigli di Divisione, dopo tre elezioni alla loro presidenza; 17° Gli Intendenti Generali, dopo sette anni di esercizio; 18° I membri della Regia Accademia delle Scienze, dopo sette anni di nomina; 19° I Membri ordinarii del Consiglio superiore d’Istruzione pubblica, dopo sette anni di esercizio; 20° Coloro che con servizii o meriti eminenti avranno illustrata la Patria; 21° Le persone, che da tre anni pagano tre mila lire d’imposizione diretta in ragione de’ loro beni, o della loro industria”.
Sulla base di queste indicazioni statutarie nel tempo furono nominati senatori personalità eminenti della cultura, delle arti e delle scienze, da Alessandro Manzoni a Giuseppe Verdi a Giosuè Carducci, Maffeo Pantaleoni, Benedetto Croce, Giovanni Gentile, Luigi Einaudi, matematici come Ulisse Dini, Francesco Brioschi, Luigi Cremona Giuseppe Colombo, sul cui manuale, ricorda Giovanni Vittorio Pallottino (Cultura e scienza nel Senato di ieri, in Nuova Storia Contemporanea, la rivista diretta da Francesco Perfetti), hanno studiato generazioni di ingegneri. Poi fisici come Antonio Pacinotti, Augusto Righi, Guglielmo Marconi, Galileo Ferraris, Eugenio Morelli, Carlo Forlanini, Antonio Cardarelli, nomi di rilievo internazionale a tutti noti.
Il tema della utilità di “introdurre nella Camera alta una componente di esperti e competenti” lo hanno ripreso ieri Carlo Melzi d’Eril e Giulio Enea Vigevani su La Domenica (Per un Senato previdente, a pagina 37) de Il Sole-24 Ore che suggeriscono l’integrazione di quell’assemblea con personalità che per la loro esperienza e preparazione “potrebbero, quando propongono modifiche alle leggi approvate dalla Camera, far presente i risultati della riflessione della scienza e della cultura”. Ugualmente Stefano Merlini sulla stessa pagina (Le garanzie da reintrodurre) giudica “inaccettabile” la proposta governativa, in quanto “la condivisibile abolizione del “bicameralismo perfetto” per ciò che riguarda sia la fiducia al governo che la approvazione delle leggi di indirizzo politico derivanti dalla fiducia non può coincidere con la brutale cancellazione della componente elettiva del Senato stesso, anche perché la presenza di una significativa quota di senatori eletti dediti in maniera esclusiva all’esercizio delle loro funzioni appare indispensabile per il mantenimento di un alto livello qualitativo dell’organo e per la stessa configurabilità del principio della responsabilità politiva degli eletti nei confronti dei loro elettori”.
Perché i Costituenti vollero il bicameralismo, e lo vollero “perfetto” nonostante del ruolo delle due camere si sia discusso a lungo in Italia anche al tempo del Regno? I Costituenti – ha scritto in proposito su BlitzQuotidiano Michele Marchesiello, già magistrato ordinario, esperienze internazionali anche come docente, una vasta attività pubblicistica – vollero trovare un ragionevole equilibrio tra visioni e “miti” contrastanti: in particolare tra quello “roussoviano” della sovranità popolare come unica fonte della legge e quello “romantico” della rappresentanza corporativa degli interessi. Il primo difeso dalla sinistra, il secondo propugnato dalla componente “conservatrice”. In base al primo mito – sottolinea – , non poteva esservi che una sola camera, secondo il detto di Saint Simon, per cui “la maggioranza deve imporre le sue leggi” e “la verità è quella che esce dalla maggioranza, quindi dall’unica camera (o dalle due camere, purché provengano dalla stessa sorgente)”. In base al secondo mito, definito da Luigi Einaudi come un ‘ritorno romantico al medioevo’, l’individuo si realizza compiutamente solo nel ceto o nel gruppo professionale cui affida la difesa dei propri interessi”.
“Sarebbe stato quindi ragionevole – secondo questo punto di vista – che nella Camera la fonte della rappresentanza fosse la sovranità popolare di cui ognuno è detentore parcellare, mentre nel Senato la rappresentanza dovesse essere l’espressione di quell’appartenenza “sociale”, determinata in pratica dal lavoro e dalla partecipazione alla produzione”.
È un po’ il modello tenuto presente dall’Assemblea Costituente nell’istituzione del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (C.N.E.L.), che oggi il governo intende sopprimere, nel quale sono presenti lavoratori e “produttori”, in una società che richiede l’adozione di norme spesso ad alto contenuto tecnico specialistico per disciplinare situazioni complesse che non sono nella conoscenza dei rappresentanti del popolo per cui questi ricorrono all’ausilio degli uffici parlamentari o ministeriali, quando non alle lobby interessate alle stesse norme.
La proposta di Scalfari, sulla quale si può certamente discutere quanto al metodo di scelta delle categorie ed alle attribuzioni legislative e non della seconda camera, ha indubbiamente il merito di considerare l’esigenza di un contemperamento di rappresentanza popolare e di esperienza tecnica.
Quanto alla inefficienza del bicameralismo sotto il profilo del rallentamento della produzione legislativa, l’esperienza ci dice che maggioranze poderose, le più consistenti della storia della Repubblica, non sono riuscite molte volte ad assicurare un iter legislativo celere. In questo senso le responsabilità – pur nella condivisione della necessità di andare oltre il bicameralismo “perfetto” – sono altrove, in primo luogo nella incapacità dei partiti di assumere un atteggiamento condiviso e di difenderlo, nelle commissioni e in aula, e dei gruppi parlamentari di essere coerenti rispetto alle scelte fatte. Per incapacità, per influenza delle lobby, per impreparazione del parlamentari rispetto alle problematiche tecniche oggetto dello specifico provvedimento normativo? C’è indubbiamente un po’ di tutto questo.
Peraltro, la strada per rendere efficiente la produzione legislativa, dal punto di vista qualitativo e dei tempi, è quella indicata dal Governo? I dubbi sono molti ed attengono alla preoccupazione, manifestata dai “professori” e non solo, per il grave squilibrio che si verrebbe a determinare, con la sostanziale eliminazione del Senato, nel bilanciamento tra i poteri dello Stato a tutto vantaggio di un esecutivo dinamico. Considerato che l’efficienza richiede una scelta meditata preceduta da adeguata conoscenza della materia sulla quale intervenire e da una prefigurazione degli effetti, da quella simulazione che i buoni legislatori sanno fare da sempre per verificare la bontà delle scelte.
Un metodo che deve essere la regola di qualunque intervento normativo. Se, poi, parliamo di Costituzione, cioè della legge fondamentale dello Stato, quella che ne assicura il buon funzionamento, serve il massimo della cautela. E sentir dire “se dovessimo accorgerci di aver sbagliato rimedieremo” fa un certo senso in chi crede nelle istituzioni.
14 aprile 2014
L’opinione: La legge 40, i ricorrenti e i giudici
di Salvatore Sfrecola
Il dibattito sulla legge 40, tra opinioni di medici e giuristi, cattolici e laici, ha dato luogo a convegni, ricorsi ai giudici e sentenze, da ultimo a quella della Corte costituzionale che ha ritenuto non conforme alla legge fondamentale della Repubblica il divieto di inseminazione eterologa.
Non conosciamo le motivazioni della sentenza, ma già le polemiche affollano giornali e dibattiti televisivi.
Non possiamo trascurare un tema che certamente attiene a valori etici e giuridici ed alla concezione della famiglia “come società naturale fondata sul matrimonio”.
Si legge nell’art. 29 della Costituzione la quale riconosce altresì il ruolo fondamentale della procreazione e dell’educazione dei figli, anche se nati “fuori dal matrimonio” (art. 30).
Pertanto la Repubblica “agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose” (art. 31).
Questa normativa ha trovato applicazione nelle leggi ordinarie non sempre in modo equilibrato. Ad esempio la legislazione tributaria, in alcune situazioni , ha favorito le separazioni fittizie dei coniugi per evitare aggravi fiscali o per ottenere altri vantaggi. Ad esempio la donna che appare formalmente “nubile” ha la precedenza quando chiede l’iscrizione al nido del figlio. Altre situazioni dimostrano l’incongruenza della legislazione statale. Anche la legge 40 probabilmente ha subito gli effetti della fretta e rischia (ma ci riserviamo di tornare sul tema una volta conosciute le motivazioni della sentenza) di creare nuovi problemi applicativi.
C’è, poi, il tema dei diritti, inspiegabilmente riferiti solo alla coppia. Si legge, infatti, che i figli non avrebbero il diritto di sapere chi è il genitore naturale.-Insomma c’è confusione, molta confusione.
Sono da sempre convinto che sia stato un errore non regolamentare certe situazioni di fatto in modo che ai diritti facessero da contraltare i doveri, sempre, qualunque sia la condizione giuridica della coppia.
Tanti problemi, come si vede, che è stato un errore lasciare incancrenire nel tempo.
Cominciamo, dunque, a parlare della famiglia e del matrimonio, erroneamente ritenuta materia di carattere religioso, più esattamente cattolico, sicché le opposte schiere hanno predisposto barricate che rendono difficile individuare soluzioni ragionevoli che perseguano il fine costituzionale di agevolare la costituzione delle famiglie e la procreazione ed educazione dei figli. Che è anche interesse dello Stato. Ci perviene un primo contributo della dottoressa Dina Nerozzi, neuropsicologa, che esprime una sua valutazione anche del ruolo del giudici troppo spesso chiamati a pronunciare sentenze in una materia nella quale la legislazione è carente e confusa.
Demolizione Legge 40: dov’è il cuore del problema?
di Dina Nerozzi
La Legge 40 che aveva in animo di regolamentare quello che era definito, prima della sua introduzione, come un far west nel campo della procreazione medicalmente assistita, è stata smantellata a colpi di sentenze della magistratura.
Purtroppo non si tratta di un fatto isolato, ormai abbiamo ben compreso chi detta le regole in Italia, e non solo, come avvertiva già nel 2003 Robert Bork, giudice della Corte d’Appello del distretto di Columbia, con il suo “Coercing virtue: the Worlwide Rule of Judges”.
In ogni dittatura la magistratura esula dal suo ruolo istituzionale, di attento esecutore delle leggi, e diviene attiva politicamente, imponendo quelle regole che la politica non ha la forza di imporre perché priva del consenso popolare.
Il quesito cui la Consulta ha dato seguito, era stato posto dal tribunale di Firenze, cui si erano rivolti un uomo e una donna che consideravano il divieto di fecondazione eterologa una discriminazione nei confronti delle coppie sterili. Il tribunale interpellato, ritenendo che tale divieto fosse in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione che sancisce l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, poneva il quesito alla Corte Costituzionale.
Sull’onda della vittoria appena conseguita con la demolizione della legge 40, il tribunale di Grosseto non ha voluto perdere tempo e ha deciso di fare un ulteriore passo sulla via del progresso ordinando di trascrivere nei registri di stato civile il “matrimonio” tra due uomini, facendo così saltare un altro paletto del Diritto Naturale. A detta del giudice estensore dell’ordinanza “nel codice civile non è individuabile alcun riferimento al sesso in relazione alle condizioni necessarie al matrimonio”.
Mentre la ragione collettiva sembra assopita, per riprendere in mano le redini di questa follia bisogna capire esattamente quando è iniziato il glorioso processo che ha deciso di mettere in soffitta le leggi della natura, ormai superata dalla tecnologia umana, e da lì bisogna riprendere il cammino. Tutto il resto è semplicemente inutile.
La deriva è iniziata nel 1948 quando l’OMS, sotto la direzione del suo primo direttore generale Brock Chisholm, ha cambiato la definizione di salute: dalla pragmatica definizione di “Assenza di Malattia e Disabilità” a “Stato di completo Benessere, fisico, psichico e sociale e non semplice mancanza di malattia”. Una definizione utopica che aveva il compito di aprire la strada al nuovo mondo progressista.
Con la nuova definizione di salute lo Stato ha promesso qualcosa che non è umanamente raggiungibile e dunque diventa, di fatto, un falsario. Quello che uno Stato può fare è cercare di garantire le cure basilari ai suoi cittadini, ma non può garantire la salute come un diritto. Per quello bisogna rivolgersi a un altro indirizzo, che sta sopra le nostre teste.
La nuova definizione era però la chiave indispensabile per aprire le porte ai “diritti sessuali e riproduttivi”, vale a dire contraccezione, aborto e riproduzione medicalmente assistita per tutti quelli che lo desiderano, e a spese del SSN.
La riforma della legge 40 attuata dalla Consulta significa una sola cosa: l’assenza di un figlio è da paragonarsi a una malattia e lo Stato deve provvedere a sanare questa situazione discriminatoria utilizzando tutti i mezzi messi a disposizione dalla tecnologia. Punto.
A questo punto sorge la domanda poco romantica: chi paga? Se è un diritto deve contribuire la comunità intera. Uno Stato alle soglie della bancarotta, che fa fatica a garantire le cure per i malati di cancro, ma che è così sensibile da voler donare un figlio a chi non può averlo. Una volta un figlio era considerato un dono della natura, o, a detta di qualcun altro, un dono di Dio. Adesso è diventato un dono del SSN. Un dono che però qualcuno deve pagare, dato che lo Stato non ha risorse proprie, ma le deve chiedere ai cittadini con le tasse.
Prima di assistere allo spettacolo di un SSN che sarà costretto, per mancanza di fondi, a ridurre le cure essenziali ai malati veri, che dovranno vedersela da soli, diamoci da fare per far ritornare il bene della ragione nella politica sanitaria. E’ necessario ritornare alla definizione pragmatica di salute: “Assenza di Malattia e Disabilità”. Non esiste altra strada.
12 aprile 2014
Stabat Mater di Pergolesi a Santa Maria dell’Orto
Per gli appassionati di musica classica segnaliamo il programma della Stagione concertistica 2014 dell’Associazione Musicale Giacomo Carissimi.
Il primo concerto avrà luogo il 12 aprile, alle ore 19, nella Chiesa di Santa Maria dell’Orto in Trastevere (via Anicia 10) con Stabat Mater di G. B. Pergolesi.
Seguiranno Napoli prima e dopo il 17 maggio e Arpa Celtica il 24 maggio.
Le riforme istituzionali e lo sguardo corto dei sindaci
di Salvatore Sfrecola
Si è molto enfatizzato negli ultimi anni il ruolo dei sindaci, giungendo alla conclusione che fosse, in primo luogo, da assumere ad esempio di una da tutti auspicata riforma elettorale il sistema in vigore per le elezioni comunali nelle quali centrale è la figura del candidato “primo cittadino”. Si aggiungeva che il sindaco ha esperienza concreta dell’amministrazione dovendo programmare iniziative ed adottare atti di immediato impatto sulla cittadinanza e, pertanto, verificabili negli effetti. L’ho detto anch’io più volte criticando certa ritrosia dei politici italiani dal misurarsi con la gestione, al contrario di quanto avviene in altri paesi, in particolare in Francia, dove politici di primo piano, spesso conservando il ruolo di ministri, hanno amministrato realtà importanti, da Parigi a Lione, da Marsiglia a Tolone e via enumerando. Perfino un Presidente del Consiglio di lungo corso, Jacques Chirac, ha governato per anni la capitale della Repubblica.
Forti di questi esempi abbiamo visto con favore le iniziative di Renzi, il suo impegno a Firenze e le prospettive che andava indicando agli italiani. Uguale attenzione è stata riservata alla scelta della collaborazione di Graziano Delrio, incaricato di Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio, il cuore della macchina Governo, per la sua esperienza di sindaco di Reggio Emilia e di Presidente dell’A.N.C.I, (l’Associazione dei comuni d’Italia).
Sbagliavamo, e lo stiamo sperimentando giorno dopo giorno: il Direttore generale del Comune di Reggio Emilia diventa Segretario generale della Presidenza del Consiglio e il Comandante della Polizia Municipale di Firenze assume le vesti di Capo del Dipartimento degli Affari Giuridici e Legislativi a Palazzo Chigi, erede di Sorrentino, Potenza, Zucchelli, tanto per fare nomi con i quali si sono confrontate generazioni di amministrativisti.
Non siamo in Francia, infatti. Siamo nell’Italia dei campanili, grande risorsa storica, culturale ed economica di questo nostro Paese, ma che ha difficoltà a guardare oltre il confine municipale, a pensare in grande, con riguardo alla provincia, figuriamoci all’intero Paese. Accade, così, che le idee che si formano nelle realtà municipali siano rapportate alle esigenze della strada da asfaltare, del traffico da regolare, della fontanella da riattivare. Quel che si chiede al Sindaco, naturalmente, cosa che non ha capito, ad esempio, il Sindaco di Roma Alemanno che, preso dalla politica nazionale, non si è occupato di quel che interessa i romani che, infatti, lo hanno congedato in malo modo.
Chiusi nella dimensione municipale i sindaci hanno in uggia il patto di stabilità interno, che impedisce loro di spendere per investimenti anche quando hanno risorse accantonate, ed hanno ragione, ma sono anche ostili ai controlli, in primo luogo quelli della Corte dei conti previsti nel decreto legge n. 174 del 2012, una scelta di Governo e Parlamento, confortata da una recente sentenza della Corte costituzionale, resa necessaria dalla cattiva amministrazione di Regioni e Comuni disinvolti nella utilizzazione di fondi pubblici, spesso fonte di sprechi e comunque condizionata da una vasta corruzione, spesso annidata nei grandi elettori dei politici locali. Perché, è bene dirlo, la corruzione si annida anche nei piccoli appalti di lavori e forniture, come dimostra quotidianamente la cronaca giudiziaria.
Così, invece di auspicarli per dar conto alla cittadinanza, in piena trasparenza, della loro buona gestione, sotto il profilo della legalità e dell’efficienza, i sindaci, dopo aver eliminato i controlli interni, criticano quelli esterni, nonostante la garanzia della loro (dei controlli) indipendenza. E così Piero Fassino, Sindaco di Torino, nella sua veste di Presidente dell’A.N.C.I. ha avuto da ridire su quel che fanno le Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti le cui verifiche sarebbero troppo pervasive mettendo a rischio l’autonomia degli enti, l’esercizio della loro discrezionalità. Fassino ha esperienza e senso dello Stato ma, nella veste di capo dei sindaci, ha dovuto cedere alla demagogia municipale.
Si vede in questo la vista corta dei sindaci. D’altra parte, quale esperienza nazionale può avere il sindaco di una piccola pur nobilissima città (Firenze), culla dell’arte? Avrà fatto certamente buone letture ma l’esperienza è altra cosa. E Delrio, sindaco di Reggio Emilia, una splendida e civile città l’amministrazione della quale non può essere certamente una palestra per amministrare l’Italia? Est modus in rebus!
Ne consegue che mentre di ipotesi di riforma dello Stato e della forma di Governo sono piene di biblioteche, si preannunciano sforbiciamenti che trovano l’unica origine nel desideri di offrire alla pancia dei cittadini vittime sacrificali. Ad essi si dice che i Tribunali Amministrativi Regionali sono di impaccio alle attività amministrative con le loro misure cautelari (che forse non sarebbero necessarie se le amministrazioni locali rispettassero le leggi), che forse anche il Consiglio di Stato sarebbe da ridimensionare se non abolire. Ed è iscritto all’o.d.g. del Parlamento un disegno di legge di revisione costituzionale che propone un Senato, la più antica e nobile istituzione della politica, assolutamente inutile e la si gabella con finalità di risparmi (ipotetici) basati sulla eliminazione della elezione diretta e dell’indennità. E mi chiedo se, quando i sindaci verranno a Palazzo Madama per discutere delle frattaglie dei paesoni che rappresentano avranno o no una diaria per spese di viaggio, vitto e alloggio. E quanto se ne avvantaggeranno i comuni amministrati dal fatto che il loro sindaco passerà qualche giorno la settimana a Roma per indossare il laticlavio.
Poveri comuni, povera Italia! In mano a creature!
Quel che è peggio in questa situazione è la pusillanimità e il servilismo di quanti, arruolati dalla squadra di Governo, non hanno il coraggio di dire che le riforme sono altra cosa, che non basta cambiare perché il nuovo sia bene, che il terreno era stato ampiamente arato e scegliere per fare presto e bene non sarebbe stato difficile.
6 aprile 2014
Se Berlusconi fa saltare il tavolo
di Senator
Ricordo, ai tempi ai tempi della Bicamerale, la Commissione per le riforme istituzionali presieduta da Massimo D’Alema, che aveva prodotto nel corso di alcuni mesi di lavoro una serie di relazioni nelle quali veniva profondamente modificato il sistema istituzionale, la forma di Stato e di governo, l’ordinamento della magistratura.
Per lungo tempo le proposte che emergevano in commissione furono avallate dalla maggior parte delle forze politiche di centrodestra e di centrosinistra. Si parlava di una entente cordiale tra D’Alema e Berlusconi e sembrava certa una conclusione condivisa dei lavori, quando improvvisamente Berlusconi fece fallire l’iniziativa.
Devo dire che mentre alla vigilia di quell’evento la maggior parte degli osservatori era convinta che ormai l’accordo fosse solido e avrebbe portato alla presentazione di un disegno di legge di riforma costituzionale nel senso delineato nelle relazioni che la Commissione aveva elaborato, io, che ne facevo parte, avevo da tempo maturato la convinzione, mai pubblicamente espressa ma percepibile nell’atteggiamento di molti, che non sarebbe stato interesse di Berlusconi dare a D’Alema la corona del riformatore della Costituzione.
Anche oggi, nel momento in cui il governo e il partito del Presidente del consiglio accelerano sulle riforme, devo convenire con alcuni illustri costituzionalisti, assai poco meditate non comprendo quale utilità possa venire a Berlusconi ed al centrodestra da un successo di Renzi le cui intuizioni consegnate in alcuni titoli di agenda, dalla riforma dell’amministrazione a quella del fisco alla semplificazione istituzionale trovano nelle proposte del governo soluzioni fortemente criticabili sul piano tecnico e anche della effettività dei risultati che si possono attendere.
In queste condizioni, pur essendo evidente che gli annunci hanno ancora una volta una qualche suggestione, la riduzione dei costi della politica, l’accelerazione dei pagamenti delle P.A., una manciata di euro in più in busta paga, comincia a farsi strada la convinzione che, passando dalle parole ai fatti, molte idee si sgretolano, molte aspettative rimangono deluse, e che dietro le parole ci sia poco, a volte anzi niente con la conseguenza che comincia ad emergere una qualche delusione rispetto alle promesse di Renzi. Una importante carta elettorale per Berlusconi.
In sostanza c’è da chiedersi se Berlusconi ha interesse a comparire come coautore di riforme di scarso impatto sulla gente (al di là degli 85 euro il cui effetto lo stesso premier ha immediatamente minimizzato quando ha fatto l’esempio della maestra che con quella somma compra un libro di più o porta una volta i figli a mangiare una pizza).
Una domanda alla quale si deve dare una risposta negativa. Perché il leader di Forza Italia non ha interesse a condividere con Renzi riforme che, ove avessero effetti positivi, il Presidente del consiglio se le intesterebbe, anche quelle sollecitate o volute dal Cavaliere, perché potrebbe dire che comunque è stato lui l’iniziatore della riforme e lui che ha coinvolto Berlusconi. Nessun vantaggio per Forza Italia, perché sui mass media non appare un Berlusconi che incalza il Presidente del consiglio il quale, semmai, è colui che lo trascina.
Molto meglio per Berlusconi puntare su alcune situazioni in cui le promesse non sono state mantenute o spiegare, come nel caso della riforma del Senato, che riforma in effetti non è. Che senso ha un’assemblea di sindaci e di presidenti delle regioni con i loro piccoli e grandi problemi sempre comunque visti nell’ottica municipale o poco più lunga, mai comunque in una visione nazionale, come dimostra il fallimento della riforma del 2001 del titolo V della Costituzione che non pochi problemi ha portato alla governabilità dell’Italia tanto che proprio la sinistra, che quella riforma aveva voluto, è oggi in prima fila tra quanti intendono modificarla.
In queste condizioni Berlusconi ha interesse a far saltare il tavolo, non tanto per un gretto egoismo di partito, ma perché non è condivisibile da parte di un’ampia fascia dell’elettorato moderato lo spirito col quale si stanno portando avanti le riforme: se sbagliate le cambiamo. Come se si trattasse di una leggina qualunque e non di intervenire sulla Costituzione, la legge delle leggi per definizione destinata a durare nel tempo.
Un modo di ragionare che dimostra i limiti dello spirito innovatore, quello del “Sindaco d’Italia”, che era sembrata una buona idea prima di accorgerci che il Sindaco, in realtà, guarda ai confini del contado e non più oltre. Infatti non siamo in Francia dove l’esperienza municipale da sempre guarda alla grande politica nazionale. Questa è l’Italia dei campanili, con tutti i vantaggi e i limiti di questo approccio ai problemi.
5 aprile 2014