Dopo il confronto con Renzi sulla legge elettorale
e le riforme costituzionali
Il Cavaliere torna in sella
di Senator
Mal consigliato dai cosiddetti “falchi”, da Verdini a Fitto, dalla Santanché alla Biancofiore, Silvio Berlusconi aveva chiuso la sua esperienza parlamentare nella presente legislatura nel peggiore dei modi. Con un comizio dei più squalidi, dinanzi a poche centinaia di fan trasportati soprattutto dal meridione sotto le finestre della sua abitazione in via dei Prefetti, dinanzi a Palazzo Grazioli. Mentre in Senato si decideva sulla sua decadenza a seguito della sentenza della Cassazione.
È stata una caduta di stile, che non aveva caratterizzato l’uscita di scena del suo amico Bettino Craxi, il quale in una storica seduta della Camera dei deputati si era assunto tutte le responsabilità della politica malata e corrotta, illegalmente finanziata da imprenditori privati ed enti pubblici venuti meno al loro compito di bene amministrare le sostanze degli italiani.
Tutto improperi verso la parte politica che aveva accelerato la sua decadenza, tutto insulti alla magistratura il Cavaliere aveva dato agli italiani un’immagine molto diversa da quella del politico che nel 1994 era “sceso in campo” per salvare l’Italia dei moderati e dei liberali dal comunismo, anche se tutti sapevano che, in realtà, quella scelta “politica” mirava soprattutto a salvare le proprie aziende indebitate per circa cinquemila miliardi di lire, come scrivevano i giornali-
Quel “Presidente imprenditore”, nel quale avevano riposto fiducia milioni di italiani da sempre ostili alla sinistra, comunista o meno, ha poi governato o condizionato la politica per quasi venti anni nei quali la sua immagine si è progressivamente logorata, come dimostra la perdita di ben sei milioni di voti nelle elezioni di febbraio, fino a quella squallida esibizione in cui ha confuso problemi personali e politici, come, del resto, sempre aveva fatto in precedenza, spesso in modo più convincente.
Molti si affrettarono quel giorno a cantare il de profundis del leader della destra dimostrando di non comprendere che, in ogni caso, quell’ex parlamentare, espulso dal Senato, manteneva comunque il controllo di una parte consistente dell’elettorato, uno schieramento con il quale Matteo Renzi, realista interlocutore della politica, non avrebbe potuto fare a meno di confrontarsi se avesse voluto portare a compimento quel programma con il quale aveva prevalso nelle primarie del Partito Democratico riscuotendo consensi anche a destra.
Così è stato. E ieri nella sede del PD in via del Nazareno a Roma i due si sono incontrati. Significativo il modo. Berlusconi che va da Renzi e lo incontra nella sede nazionale del Partito in un colloquio di circa due ore per parlare di legge elettorale e di riforme costituzionali, un tempo che dimostra come gli esperti dei due partiti si fossero già sentiti ed avessero raggiunto una intesa di massima. In due ore, infatti, non si possono esaminare norme e regole del voto, né le materie costituzionali oggetto del colloquio sono di quelle per le quali basta un riassuntino per delinearne la portata. Perché la legge elettorale ha molteplici implicazioni sulla composizione del Parlamento e sulla governabilità del Paese, mentre la riforma del Senato e, soprattutto, la revisione della riforma del Titolo Quinto della Seconda Parte della Costituzione che dal 2001 pesano sulla vita istituzionale per i guasti nei rapporti stato regioni e tra le regioni di cui è testimonianza il rilevante contenzioso che grava sulla Corte costituzionale.
La larga condivisione della quale parlano oggi i giornali, sulla base delle dichiarazioni dei due protagonisti, non deve, tuttavia far ritenere che il più sia fatto, che non si nascondano insidie in prosieguo di tempo. Un po’ come accadde ai tempi della Bicamerale presieduta da Massimo D’Alema, quando sembrò che Berlusconi aderisse alla riforma delineata nelle varie relazioni. Allora mi chiedevo, ed ebbi ragione, perché mai Berlusconi avrebbe dovuto concedere al leader postcomunista la palma del successo nella riforma della Costituzione. Ed ebbi ragione perché all’ultimo il leader di Forza Italia si tirò indietro. E la Bicamerale produsse solo volumi di atti e documenti, come le altre Commissioni che l’avevano preceduta.
Cosa cambia oggi? È ancora possibile che Berlusconi, all’atto della realizzazione del progetto, si metta di traverso?
In teoria no. Perché oggi Berlusconi sembra aver timore delle elezioni, anche se, a volte, dice di volerle. Forza Italia è ancora in attesa di una leadership certa e condivisa per cui al Cavaliere può convenire di essere fedele alla parola data ieri per rinviare le elezioni al 2015, quando sarà riorganizzato il partito e consolidata la squadra.
A Renzi, invece, converrebbe andare al voto per il rinnovo delle Camere, insieme alle elezioni europee, una scadenza che il leader del PD deve guardare con qualche timore perché potrebbero avere un esito se non negativo non proprio esaltante, tale da offuscarne l’immagine.
Insomma un Berlusconi portato ad attendere per rafforzarsi ed un Renzi interessato a battere i tempi per sfruttare il suo successo alle primarie e l’indubbio appeal che riscuote oggi con il suo piglio decisionista.
Una partita a poker tra i due nella quale non tutte le carte sono nelle mani dei giocatori, tra chi bleffa e chi è pronto a calarle sul tavolo per vedere quelle che ha l’avversario. Una partita tutta da giocare, insomma.
Intanto il Cavaliere torna in sella, nel senso che riprende una veste istituzionale, quella che non avrebbe dovuto dismettere quel giorno di novembre mentre il Senato votava la sua decadenza. In quella occasione è prevalsa l’emotività. O forse era necessaria per tenere il suo elettorato. Che certo avrà apprezzato ieri il senso istituzionale del leader dell’opposizione disponibile a discutere di riforme per consolidare il bipartitismo.
19 gennaio 2014
Le esigenze di Renzi, le paure di Letta
Il partito, la maggioranza, il Governo
di Salvatore Sfrecola
Renzi che incalza il Governo presieduto da Enrico Letta, esponente di primo piano del Partito Democratico, sembra a qualcuno una anomalia.
Non è così, anche se, con l’eccezione di Bossi ed del suo partito “di lotta e di governo”, nella prima e nella seconda repubblica la dialettica partiti, maggioranza, governo era quasi inesistente. O, meglio, era solo sotterranea, come dimostra la presenza, in varie occasioni, di “franchi tiratori”, parlamentari che votavano, in occasione di voti segreti, contro il governo appoggiato dal partito di appartenenza.
È, infatti, normale, specialmente in un governo di coalizione, in presenza di una maggioranza variegata, che i partiti esprimano le loro istanze presentandole al governo non solo al momento della sua formazione ma anche successivamente. Anzi, di giorno in giorno, proprio perché è interesse di ogni partito, rispetto all’elettorato, far percepire che le proprie istanze sono accolte o, se questo non avviene, che la colpa è degli altri partiti che compongono la maggioranza che regge l’esecutivo.
Fa bene, dunque, Renzi, indipendentemente dal merito delle proposte e delle sollecitazioni che rivolge al Governo, a chiedere al Presidente del Consiglio, in particolare perché è personalità di spicco dello stesso partito, che la piattaforma programmatica che ha giustificato l’accordo tra le forze politiche sia realizzata nei modi e nei tempi funzionali a che il PD se ne possa vantare dinanzi all’elettorato, soprattutto perché è in vista una importante scadenza elettorale, il rinnovo dei parlamentari europei di spettanza del nostro Paese.
Renzi ha percepito il pericolo di questa competizione in assenza di risultati spendibili durante la campagna elettorale. Lo abbiamo scritto nei giorni scorsi. L’Europa, a torto o a ragione, non è molto amata ed è possibile un sensibile astensionismo ed un successo di quanti hanno criticato Bruxelles e l’euro. Una sconfitta rispetto alle aspettative di successo di Renzi sarebbe una grave lesione dell’immagine del leader democratico. Il Sindaco di Firenze se ne rende conto e sollecita il governo a dimostrare quanto meno un’inversione di tendenza rispetto all’immobilismo strisciante dei mesi scorsi. In sostanza vuole dimostrare che con lui alla guida del PD le cose cambiano, che alcune riforme che si possono fare immediatamente vengono realizzate e che il balletto delle lungaggini parlamentari vengono lasciate alle spalle. Che, cioè, è cambiato il passo e gli italiani possono aver fiducia in lui.
Niente di strato, dunque, nella polemica neppure troppo sotterranea tra Renzi e Letta, il primo interessato a rivendicare al suo partito i meriti di quel qualcosa di nuovo che gli italiani attendono da tempo, il secondo temporeggiatore, dedito alla mediazione, sulla scia dell’illustre zio che aveva fatto di Palazzo Chigi la stanza di compensazione delle istanze politiche e degli interessi, all’interno della maggioranza e dei partiti. Non che la mediazione non sia pregevole capacità politica, ma se fa segnare il passo al governo evidentemente contenta pochi e scontenta i più. Questo Renzi non può accettarlo e, nell’interesse dello stesso Letta, chiede a gran voce che il governo faccia alcune cose che sono nel programma della maggioranza ed altre che il partito chiede. E che le faccia presto e bene.
17 gennaio 2014
Domenico Fisichella al Circolo Rex
Dittatura e Monarchia -L’Italia tra le due guerre
È il titolo della conferenza che il Sen. Prof. Domenico Fisichella terrà domenica 26 gennaio alle ore 10,45 presso il Circolo Rex, a Roma, in via Marsala 42. Ed è anche il titolo del prossimo libro del noto studioso di scienza della politica, dottrina dello Stato e Storia delle dottrine politiche, in libreria fin dai prossimi giorni.
Con questo lavoro Fisichella, parlamentare, è stato per vari anni Vice Presidente del Senato, e Ministro per i beni culturali e ambientali, approfondisce, sulla base di una copiosa documentazione, il periodo tra il 1922 ed il 1946, un tratto rilevante della nostra storia nazionale oggetto troppo spesso di interpretazioni “politiche” degli avvenimenti e dei protagonisti.
Il volume segue due essenziali contributi del Prof. Fisichella alla comprensione della storia d’Italia più recente, “Il miracolo del Risorgimento” (2010) e “Dal Risorgimento al Fascismo 1861 – 1922” (2012), (entrambi dell’Editore Carocci), che hanno riscosso grande interesse tra gli studiosi e gli uomini di cultura. Con “Dittatura e Monarchia – L’ Italia tra le due guerre” Fisichella completa una lunga riflessione su un percorso storico, a tratti drammatico che ancora gli italiani vivono tra cronaca e storia, spesso con le passioni della politica.
La Lega protesta contro il TAR del Piemonte
Senso dello Stato ZERO
di Salvatore Sfrecola
Protesta della Lega, ieri, a Torino dopo la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale del Piemonte che ha dichiarato illegittima la proclamazione dei risultati delle elezioni del Presidente e del Consiglio regionale del 2010.
Forti i toni, come di consueto (“un attacco alla democrazia”. Minacciosi e barricadieri anche da parte del Segretario Nazionale neoeletto Matteo Salvini (“chi tocca la Lega abbia paura”). Il linguaggio che piace a molti seguaci del Carroccio che la dice molto del senso dello Stato dei dirigenti di quel movimento.
Perché, se è facile criticare i tempi nei quali si sono svolti i processi “da repubblica delle banane”, ha scritto Bruino Mardegan su Twitter, sarebbe necessario distinguere il fatto dalla procedura.
Questa sconta la complessità della vicenda che ha coinvolto questioni penali ed amministrative di competenza di giudici diversi per cui il TAR, che avrebbe dovuto pronunciarsi sulla legittimità della proclamazione degli eletti, non ha potuto farlo fino a quando il giudice competente non ha affermato che le firme con le quali è stata presentata una lista erano false.
Vogliamo dire che l’ordinamento avrebbe potuto e dovuto prevedere che un unico giudice si pronunciasse su tutti gli aspetti della vicenda? Anche su quelli pregiudiziali, dunque, sulla falsità delle 17 autenticazioni di altrettante candidature nella lista Pensionati per Cota, così come è stato stabilito in sede penale dalla Cassazione, contestualmente alla condanna dell’ex consigliere regionale Michele Giovine a 2 anni e 8 mesi per falso. Perché se le firme sono irregolari ne discende la illegittimità della proclamazione. Infatti, i voti dei Pensionati di centrodestra furono decisivi a maggio 2010 per il successo di Roberto Cota.
Sarebbe certamente auspicabile una tale revisione normativa che avrebbe consentito in tempi più brevi di adottare la decisione finale.
Detto questo, tuttavia, la risposta di chi ha perduto la causa rispetto al ruolo della magistratura non avrebbe mai dovuto manifestarsi nei termini che abbiamo letto sui giornali e sentito in televisione. Dichiarazioni che dimostrano assoluta mancanza di senso dello Stato. La giustizia, infatti, è l’espressione più alta della funzione pubblica fin dai primi ordinamenti come affermazione del diritto. Ubi societas ibi ius, dicevano i romani, per i quali le regole ed i giudici chiamati ad applicarle avevano lo scopo di assicurare la pace sociale. Ne cives ad arma ruant, dicevano sempre sulle sponde del Tevere e da lì nel mondo si è irradiata la civiltà che nel diritto trova il motivo della sopravvivenza delle società, anche di quelle criminali che, come ben sappiamo, giudicano secondo le loro regole e applicano le sanzioni crudeli che i loro “tribunali” irrogano.
Non si può, dunque, ammettere che un partito rappresentato in Parlamento insulti i giudici anche solo immaginando che dietro la sentenza ci possa essere una congiura contro il partito di governo.
Inoltre nessuno ha ancora letto la sentenza. In proposito il professor Vittorio Barosio, luminare del diritto amministrativo ha affermato, come ha raccolto Lo Spiffero, il vivace giornale on-line diretto da Bruno Babando: “La decisione del Tar è giusta. L’avevo prevista perché il Consiglio di Stato, nel 2012, si è pronunciato molto chiaramente sull’equivalenza del giudicato penale per falso in materia elettorale e quello civile sullo stesso tema. Il giudicato penale c’è, fissato da tre gradi di giudizio. Non si poteva non prenderne atto”. Il professor Barosio ritiene che nelle motivazioni della sentenza si sviluppi anche la prova di resistenza, che è stata l’ultima trincea, secondo la quale va accertato se, detratte le firme false, ve ne sarebbe stato comunque un numero sufficiente a rendere valida la lista.
In ogni caso, come preannunciato, il Presidente Cota potrà ricorrere al Consiglio di Stato in appello.
Queste sono le regole del diritto e del processo e non c’è dubbio che in un ordinamento democratico e liberale chi si candida a governare, lo Stato o la Regione o il più piccolo dei comuni, deve rispettare le regole che il Parlamento si è dato ed evitare di gettare discredito sulle istituzioni, ciò che è causa di gravi turbative nella società. È in questo discredito che si alimenta il malessere e la ribellione alle regole, a cominciare da quella evasione fiscale che proprio la Lega tante volte ha giustificato, quando non sollecitato.
In proposito si legge che lo stesso Salvini avrebbe stracciato il biglietto dell’autostrada che sconta le nuove tariffe entrate in vigore all’inizio dell’anno. Non è questo il modo di partecipare alla vita politica. Se si ritengono le tariffe illegittime c’è un giudice da qualche parte in Italia che le può annullare.
La Lega alza il tono, dice qualcuno, anche perché avrebbe perso consensi. Perché non sempre ha dimostrato di saper amministrare bene, ed anche alcuni dei suoi uomini sono incorsi in vicende giudiziarie disonorevoli.
I “duri e puri” hanno dimostrato di non avere senso della comunità, cioè quella capacità di rispettare le istituzioni e le regole che gli organi rappresentativi dell’elettorato si sono date e che vanno seguite fin quando, nelle forme previste, vengono modificate. Ne cives ad arma ruant, appunto!
12 gennaio 2014
L’incognita europea
(elezioni e semestre di presidenza italiana)
di Salvatore Sfrecola
Se ne parla poco e comunque sullo sfondo del dibattito politico, ma le elezioni europee e il successivo semestre di presidenza italiana dell’Unione europea sono un passaggio molto delicato e, per certi versi, insidioso.
In primo luogo il neosegretario del Partito Democratico, Matteo Renzi, si troverà a misurarsi in una campagna elettorale nella quale certamente prevarranno toni critici nei confronti dell’Europa e dell’euro, quando non apertamente ostili alle regole dell’Unione e della moneta unica, alle quali molta gente istintivamente ricollega le difficoltà del Paese, dell’economia e delle famiglie.
Un partito europeista e destinato di lì a due mesi a “governare” l’Unione sarà impegnato a chiedere il voto per “più Europa” a maggio per assumere con consapevolezza la leaderschip del Consiglio dei ministri dell’Unione due mesi dopo, con l’impegno di mantenere le promesse che non potranno che essere quelle di un ruolo di Bruxelles che sia capace di governare, insieme al rigore dei conti e alla saldezza dei bilanci, anche la crescita che ovunque in Europa, sia pure con diversa intensità, è un’esigenza dei popoli e delle imprese.
I temi europei ancora non emergono nel confronto tra i partiti e nelle iniziative del Governo e di Renzi impegnato nello stimolare il Presidente del Consiglio ad attuare politiche capaci di cogliere i deboli segnali positivi che segnalano alcune statistiche, per avviare una ripresa dell’economia che dia spazio ai consumi. Ciò che esige più risorse per le imprese e le famiglie, unica condizione perché il mercato interno riprenda e con esso la produzione e l’occupazione. Il percorso è ricco di ostacoli, considerata la scarsezza delle risorse e la naturale lentezza della ripresa, nella quale i vari fattori prima segnalati, maggiore denaro nelle tasche dei cittadini, più incentivi alla produzione e, quindi, all’occupazione, in parte si sovrappongono, in parte si condizionano. Ad esempio maggiori risorse per le famiglie si possono ottenere attraverso sgravi fiscali o maggiore occupazione. Ma ognuno comprende facilmente che l’effetto di misure anche immediatamente attuate ed efficaci non può intervenire prima di maggio e non è facile far intendere che si tratti di un beneficio che sconta politiche in una prospettiva europea.
Non resta, quindi, che convincere gli italiani che il Governo ha scelto la strada giusta, che ha cambiato passo, che i partiti hanno abbandonato le stanche litanie della prima repubblica, alla ricerca perenne della mediazione su tutto, anche sulle cose più banali. Un segnale immediato può essere costituito dalla semplificazione dei procedimenti, dalla riduzione degli adempimenti inutili o non necessari che costano ai cittadini ed alle imprese, in modo che gli uni e le altre vedano nello Stato e negli enti pubblici un amico, una risorsa, non un peso ed un costo.
Sarà possibile nel breve tempo che Letta e Renzi hanno a disposizione?
Non è certamente facile operare nei 100 giorni che mancano alla scadenza elettorale adottare misure concrete e percepibili. La classe governativa è in gran parte modesta, incapace di dialogare con quella amministrativa istintivamente restia alle novità. Capi di Gabinetto e Capi degli Uffici legislativi in molti casi non dialogano con la struttura amministrativa. Si tratta di personaggi professionalmente preparati ma abituati a gestire l’esistente, spesso senza adeguata sensibilità politica e, quindi, incapaci di suggerire o di comprendere il senso dell’innovazione. La burocrazia, poi, pensa di perdere potere, quel potere che i dirigenti dello Stato e degli enti pubblici si sono ritagliato con la complicità dei sindacati. Non a caso molti sindacalisti oggi ricoprono importanti ruoli nelle pubbliche amministrazioni, spesso senza aver mai esercitato le funzioni propedeutiche alla funzione assunta.
Insomma, la situazione è tale che Renzi deve temere le elezioni europee, perché un flop del suo partito ne sbiadirebbe l’immagine e la sua capacità di condizionare il Governo. Un danno grande anche per il semestre italiano di guida dell’Unione europea perché gli governi degli stati membri ci pesano, sanno dell’autorità del Governo e dei partiti che lo compongono.
In queste condizioni al Segretario del Partito Democratico ed allo stesso Letta potrebbe convenire sciogliere le Camere ed accedere alla tesi di Berlusconi dell’election day. Per motivi diversi, destra e sinistra hanno interesse a scontrarsi in un confronto a tutto campo dove possano far valere i valori che incarnano o, meglio, che professano, e richiamare tutti al senso di appartenenza ancora rilevante in Italia.
C’è, poi, l’incognita Grillo. Il Movimento 5 Stelle non ha fatto il flop che molti si aspettavano e si auguravano, non si è dimostrato una semplice fiammata di protesta. Qualche errore lo hanno commesso, ma i parlamentari grillini possono portare a loro vanto una serie di stoccate tirate alla maggioranza ed al governo stanati, come si dice, su alcune iniziative dubbie ed impopolari. Ed hanno saputo dare voce a quell’antieuropeismo strisciante di cui si è detto. È improbabile che il Movimento perda voti. Anzi potrebbe recuperarne tra gli astenuti e gli incerti, riscuotendo adesioni a destra ed a sinistra, tra quanti possono essere stati indotti dall’esperienza di questo ultimo anno che è meglio dar voce ad una protesta che ha dimostrato di saper influire sulle scelte parlamentari anziché rimanere in silenzio a guardare lo sfascio del Paese. Quello sfascio del quale nelle grandi città non ci siamo compiutamente resi conto ma che sta segnando la nostra gente da nord a sud con disagi pesanti che incidono non sul superfluo ma sull’essenziale, a cominciare dall’alimentazione che tutti gli indicatori dicono è ovunque ridimensionata. Forse farà bene ad una popolazione della quale si denuncia il sovrappeso, ma se vogliamo essere seri è il primo segnale delle gravi difficoltà della gente. Difficoltà replicata nei saldi che proclamano sconti perfino dell’80 per cento. Dalle vetrine di negozi deserti.
Tra tutti quanti soffrono è la classe media che più si sente abbandonata, gli artigiani ed i professionisti, come i professori dei quali è stato ricordato, in occasione della ritenuta di 150 euro, poi abbandonata, la esiguità degli stipendi. Una autentica vergogna, dacché la cultura è la forza dei popoli e delle nazioni, perché è nelle scuole che si formano i futuri cittadini ed i futuri professionisti e chi insegna merita il massimo di considerazione perché per insegnare è necessario studiare giorno per giorno. Con quali soldi quegli insegnanti a poco più di mille euro al mese possono comprare i libri della loro disciplina, dopo aver mantenuto la famiglia?
Tanti i problemi, dunque. Renzi ha destato fiducia a destra ed a sinistra perché tutti attendevano un vero decisionista dopo anni di parolai, abituati solo a fare proclami. Ma come è montata la fiducia ugualmente questa si consuma rapidamente alle prime delusioni.
Questo l’Italia non può permetterselo.
11 gennaio 2014
La Destra alla ricerca dell’anti Renzi
di Senator
Una cosa è certa. Tra le tante capacità politiche del Cavaliere non c’è e non c’è mai stata quella di saper scegliere gli uomini, e le donne, da mettere in campo in ruoli di Partito e di Governo. Lo ha dimostrato nel corso dell’ultimo ventennio, scegliendo personaggi che, il più delle volte, nel giro di qualche giorno riconosceva privi del “quid”. E questi facevano di tutto per dimostrare che effettivamente il “quid” non l’avevano.
Oggi, alla ricerca di un’immagine da contrapporre a Matteo Renzi sembra che Silvio Berlusconi abbia pensato a Giovanni Toti, in atto direttore del TG4, giornalista di belle speranze ma privo assolutamente del carisma necessario per farne un antagonista della vita politica, con possibilità di successo, del giovane Segretario del Partito Democratico.
Lontano dall’immagine che il Sindaco di Firenze ha voluto affermare, idee chiare, decisionismo, battuta pronta, tipicamente toscana, Giovanni Toti appare come un onesto portavoce del proprietario della TV nella quale lavora. Non riscuoterebbe mai un applauso a scena aperta in un comizio, né sarebbe capace di galvanizzare le stanche e deluse schiere della destra, già assottigliate di ben sei milioni di elettori.
Berlusconi non deve ricercare una controfigura di Renzi. Non deve, in particolare, cedere al giovanilismo quale valore in sé privo di contenuti, di esperienza politica e di professionalità.
Il leader della Destra da presentare alle elezioni prossime, a cominciare da quelle europee, difficilissime, deve avere una personalità forte, con una esperienza politica ed una professionalità indiscussa, capace di rassicurare gli elettori che sia capace di tenere testa a Renzi, di contrastarlo dove si ritiene che sbagli, ma anche di cogliere nelle proposte condivisibili del Segretario del PD l’occasione di attribuire all’iniziativa un valore aggiunto proprio del pensiero liberale. Insomma deve saper girare a proprio favore le cose buone che il centrosinistra può suggerire o realizzare.
Parliamo di una personalità che non si faccia coinvolgere nelle battute toscane del Sindaco di Firenze, che alla lunga possono stancare, un po’ come le barzellette del Cavaliere. Parliamo di uno statista, che guardi alle future generazioni, come diceva De Gasperi, e non solo alle prossime elezioni, trasmettendo certezze e sicurezza, un uomo al quale qualche capello bianco sulle basette darebbe certamente quella dimensione reale, umana della politica e della società che non è fatta solo di ventenni, trentenni e quarantenni ma che deve saper parlare a tutte le fasce di età trasmettendo valori e fiducia nella certezza che non vi siano discriminazioni per ragioni anagrafiche, ma che sia capita una politica di collaborazione tra le generazioni nella prospettiva di un risveglio dal punto di vista economico e sociale.
Rassicurare e galvanizzare le stanche truppe del centrodestra si può, anzi si deve, nella prospettiva di un bipolarismo che ormai è entrato nel cuore e nella mente degli italiani e che caratterizza tutte le grandi democrazie europee. Con un leader che abbia capacità di comunicazione ma che la gente senta come uomo di governo capace di incarnare le esigenze di un grande popolo che solo l’inerzia degli ultimi venti anni ha ridotto a lottare per le ultime posizioni nell’Europa della cultura e dell’economia. Un leader che non può essere uno stanco signore che ha fatto il suo tempo, che vuol sopravvivere a se stesso con slogan datati come la sua immagine che vorrebbe immutabile e, invece, mostra impietosamente il tempo, ancor più perché lo si vorrebbe fermare con pratiche varie che ne sottolineano l’inadeguatezza psicologica alle esigenze del momento che viviamo.
9 gennaio 2014
Uno Stato allo sbando
Confusione e inefficienza
di Salvatore Sfrecola
Il 2013 consegna al nuovo anno una situazione imbarazzante di confusione istituzionale il cui effetto è l’inefficienza del sistema politico-amministrativo nel suo complesso. Ancor più grande e grave perché, a fronte dell’attuale crisi economica che è crisi delle persone e delle imprese, da parte di chi governa non c’è una risposta in termini di occupazione e di sviluppo.
Così i politici di tutti i partiti si rifugiano nella prospettiva, variamente configurata, di riforme costituzionali che dovrebbero consentire di perseguire politiche pubbliche idonee alla ripresa dell’economia. L’illusione va avanti da tempo. I lettori ricorderanno la battaglia condotta da Berlusconi ed i suoi uomini per la modifica dell’art. 41 della Costituzione che afferma la libertà dell’iniziativa economica privata, pur precisando che non possa svolgersi “in contrasto con l’utilità sociale” (comma 2) e rinviando ad una legge ordinaria la determinazione di programmi e controlli “perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali” (comma 3). In che modo la norma abbia avuto effetti negativi sull’economia nessuno lo ha capito. Eppure siamo stati impegnati per settimane a discutere di questa ipotetica riforma e a parlare degli effetti che ne sarebbero derivati secondo il Cavaliere. Era una bufala di proporzioni gigantesche, pari solo all’ignoranza giuridica e storica di chi l’aveva suggerita al leader dell’allora Popolo della Libertà. Con quella norma l’Italia del dopoguerra aveva raggiunto il “miracolo economico”, poi affondato dai successivi governanti.
Oggi si evoca soprattutto la necessità di eliminare il bicameralismo “perfetto” (Camera e Senato con identici poteri) e rafforzare i poteri del Governo.
Sennonché le bugie, come sempre, hanno le gambe corte. Non che non sia necessario e utile differenziare i ruoli delle due Camere, non che non siano auspicabili più snelli procedimenti per rendere operativi in tempi ristretti i programmi del governo. Ma l’inefficienza non è tanto nelle istituzioni quanto nella politica se maggioranze di proporzioni tali di cui non si rinvenivano precedenti nella storia della Repubblica nel 2001-2006 e nel 2008-2011 non sono riuscite a portare avanti politiche idonee a frenare la fase di recessione e restituire impulso all’economia.
Non è stata neppure tentata la più importante delle riforme, quella che ogni governo dovrebbe avere a cuore e perseguire di giorno in giorno. Mi riferisco alla riforma della Pubblica Amministrazione della quale vanno aggiornati organizzazione e procedimenti.
Invece niente di tutto questo. Anzi, ogni volta che i governi, di destra e di sinistra, si sono proposti modifiche dell’assetto dei ministeri e degli enti territoriali e del loro funzionamento la crisi degli apparati si è aggravata e le presunte semplificazioni si sono rivelate gravissime complicazioni.
Il fatto è che manca (o comunque non conta) negli ambienti politici gente che conosca l’apparato, il suo funzionamento in rapporto alle leggi che ne disciplinano la struttura e i procedimenti. Come pure la storia delle Pubbliche amministrazioni e dei suoi funzionari.
Incredibile davvero, in quanto la prima preoccupazione di ogni governo in rapporto agli obiettivi di politica economica e sociale che costituiscono l’indirizzo politico della maggioranza dovrebbe essere quella di disporre di leggi che consentano di perseguire quelle finalità e di uomini che con quelle leggi siano in condizione di bene operare.
Invece negli anni si sono appesantite le strutture amministrative, periodicamente caricate di nuovi adempimenti spesso inutili quando non costituenti duplicazioni di altri. Contemporaneamente si è sistematicamente demolito il corpo dei funzionari delle Pubbliche amministrazioni, il nucleo fondamentale degli apparati di governo. Con impegno degno di migliore causa, complici i sindacati del pubblico impiego, le strutture amministrative sono state moltiplicate secondo il tradizionale metodo del divide et impera e contemporaneamente depotenziate, in particolare facendo assurgere a funzioni dirigenziali quelle che un tempo erano assegnate a funzionari direttivi, nel linguaggio delle imprese private i quadri.
I dirigenti sono aumentati, anche assunti dall’esterno per soddisfare esigenze clientelari, senza cultura amministrativa e senza esperienza, spesso arroganti, con la conseguenza di non sapersi inserire virtuosamente nell’apparato. È una situazione verificabile in tutti i settori dove sopravvivono uffici dirigenziali costituiti da pochi elementi, strutture che un tempo costituivano semplici “sezioni” di apparati più ampi.
Questa follia organizzativa si riscontra, ed è più evidente in ragione dei gradi che indicano le funzioni, negli apparati militari che mai hanno conosciuto tanti generali di divisione o di corpo d’armata in ruoli solo pochi anni fa ricoperti da ufficiali con meno stelle. La conseguenza è lo svilimento dei ruoli, e l’inefficienza conseguente alla continua turnazione resa necessaria dallo svolgimento di funzioni proprio in vista della successiva promozione. Tutto questo destabilizza gli uffici diretti in via assolutamente precaria spesso per un anno o poco più da personaggi che già pensano al nuovo incarico.
Questa situazione è conseguenza della modestia del personale politico che non si vuol confrontare con funzionari dei vari livelli preparati e buoni conoscitori dell’apparato. Così ministri ed amministratori locali preferiscono avere di fronte un dirigente con scarsi poteri, del tutto supino ai voleri del politico di turno al quale deve la nomina, la determinazione di una parte del trattamento economico (c.d. indennità “di risultato”), il conferimento di incarichi esterni e, soprattutto, dal quale attende la conferma, con buona pace dell’indipendenza del pubblico dipendente “al servizio esclusivo della Nazione” (art. 98, comma 1, Cost.), in realtà al servizio del politico e della politica, divenendo in qualche modo uomo “di area”, in barba alla Nazione.
Questo quadro deprimente, che è l’immagine stessa dell’inefficienza di un Paese che pure vanta una storia antica e brillante nelle pubbliche amministrazioni nel corso dei secoli. Per non dire dell’Amministrazione romana che ha consentito alla Res Publica e poi all’Impero di dominare il mondo per secoli attraverso un’organizzazione civile, militare e fiscale di straordinaria efficienza. Uguale efficienza si rinviene nelle amministrazioni delle grandi democrazie occidentali eredi di grandi imperi, dalla Francia alla Spagna, dal Regno Unito alla Germania. Solo l’Italia vivacchia tra procedure di una complessità assurda gestite da una burocrazia inefficiente e demotivata e prassi istituzionali che non consentono l’ammodernamento degli apparati.
È sufficiente seguire l’attività delle Camere e dei consigli regionali, provinciali e comunali per rendersi conto di quanto scarso sia il senso dello Stato e delle esigenze della comunità, enfatizzate solo in campagna elettorale ed abbandonate il giorno dopo per far posto alla politica delle chiacchiere.
7 gennaio 2014