Chiacchiere e realtà
Le riforme costituzionali
non sono la panacea dei mali italiani
di Senator
Ricorre frequentemente nel dibattito politico il riferimento alle mancate riforme costituzionali come motivo della insufficiente crescita economica del Paese ed, in generale, della scarsa appetibilità dell’Italia per insediamenti industriali, soprattutto da parte di imprenditori stranieri.
Anche questa mattina, in una trasmissione di approfondimento de La7, Omnibus, il rappresentante del Partito Democratico, Ivan Scalfarotto, che è anche Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri (riforme costituzionali e rapporti con il Parlamento), ha ripreso l’argomento richiamando la necessità di una riforma del bicameralismo ai fini di rendere più celere l’attività legislativa.
In passato Berlusconi aveva insistito molto sul tema delle riforme costituzionali, sia con riferimento ai poteri del Presidente del Consiglio dei ministri, ad esempio con riguardo alla possibilità per il Premier di sostituire i ministri, sia con riguardo alla complessiva riforma del sistema di produzione legislativa. Ma aveva anche affermato che erano di ostacolo allo sviluppo dell’economia alcune regole. In particolare l’art. 41 della Costituzione secondo il quale “l’iniziativa economica privata è libera”, “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale”, il che sembra più che ovvio, ed afferma che “la legge determina i programmi e i controlli opportuni, perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. Il Cavaliere, cioè l’ex Cavaliere, riteneva la norma pregiudizievole per lo sviluppo dell’imprenditoria privata. Qualcuno deve avergli suggerito questa sciocchezza che lui ed altri del partito hanno continuato a sostenere.
Non c’è dubbio che vi sia del vero in alcune di queste affermazioni. Che, ad esempio, il bicameralismo cosiddetto perfetto o paritario o piucheperfetto, caratterizzato da due camere titolari delle stesse attribuzioni, meriti un approfondimento e una revisione che trova concordi molti ambienti politici e scientifici, anche se notevoli differenze si registrano quanto alla composizione della seconda Camera ed alle attribuzioni da riconoscergli.
Affermare, tuttavia, che l’Italia non cresce perché mancano queste riforme costituzionali non è vero. E’ una colossale sciocchezza. E lo dimostra il fatto che nella legislatura 2001 – 2006 ed in quella iniziata nel 2008, quando Forza Italia e poi il Popolo della libertà contavano una massiccia maggioranza in entrambe le Camere, l’attività legislativa è stata particolarmente lenta, con ricorso ripetuto all’uso dei decreti legge convertiti sempre sulla base di maxiemendamenti sui quali il governo poneva la fiducia. Una situazione che, a prescindere dall’espropriazione dei poteri propri dei parlamentari impediti di esercitare il ruolo fondamentale di proporre emendamenti ai disegni di legge in discussione, denota una difficoltà della maggioranza di operare in modo coeso, con la determinazione che dovrebbe provenire da una direzione politica maturata nel partito e poi nei gruppi parlamentari. È evidente che non hanno funzionato i gruppi parlamentari, altro che riforme costituzionali!
Evocarle costantemente in tutti i campi, come abbiamo visto, da quelli squisitamente pertinenti alla funzione di governo e legislativa o alle regole della economia di mercato, tende a sviare l’opinione pubblica e la sua attenzione dai problemi reali che sono altri, importanti ma certamente diversi da quelli che attengono alla funzione primaria di uno Stato, quella di darsi un assetto costituzionale che assicuri efficienza alle istituzioni previste nella carta fondamentale.
In realtà gli investitori stranieri, come anche gli italiani, ovviamente, evitano di impegnarsi in produzioni sul territorio dello Stato per una serie di problemi che tutti conoscono, tutti evocano, ma nessun governo e nessun Parlamento è riuscito a risolvere. Riguardano l’elevata tassazione sulle imprese, che ha spinto molti imprenditori italiani a trasferirsi all’estero, anche in Stati vicini, in Svizzera o in Austria. Questa situazione, in uno con l’elevato costo della manodopera e di alcuni fattori della produzione, rende le nostre merci meno competitive sul mercato interno e su quello internazionale. Perfino nel settore dell’agricoltura, dove un tempo primeggiavamo, subiamo la concorrenza straniera, per cui nei nostri supermercati troviamo i peperoncini rossi dell’Illinois ed il prezzemolo del Portogallo, oltre alla frutta proveniente dall’Africa del Nord.
Aggiungasi che in molte aree del Paese la presenza della malavita organizzata sconsiglia gli operatori economici dall’avviare attività di produzione o commercializzazione di beni. E questo non soltanto nelle regioni dove sappiamo da sempre di una presenza organizzata di Mafia, Camorra Ndragheta e Sacra Corona Unita, perché anche in altre aree a più elevato sviluppo industriale ed economico la cronaca ci dice di politici e amministratori collusi con forme di criminalità organizzata che determinano pressioni illecite perfino sui liberi professionisti.
Altro elemento che è stato ripetutamente evocato come ragione della scarsa appetibiilità degli investimenti in Italia è la lentezza della giustizia civile che non assicura all’imprenditore una definizione rapida di eventuali controversie, sia in materia commerciale che di lavoro. E qui entra in gioco anche il ruolo del sindacato che troppo spesso ha tradito la sua funzione originaria di tutela del lavoratore dal punto di vista giuridico e delle condizioni di lavoro, comprese quelle attinenti alla sicurezza e alla salubrità dei luoghi in cui si svolgono le produzioni, per diventare una sorta di contraltare degli imprenditori nella definizione delle scelte di produzione e di localizzazione degli impianti.
In presenza di queste situazioni, note a tutti, alle quali non è certamente facile e rapido porre rimedio, ma che non richiedono assolutamente la revisione della Costituzione è evidente che insistere sugli aspetti istituzionali come condizionanti il rilancio del Paese significa sviare l’attenzione della gente dai problemi veri o comunque non avere le idee chiare su ciò che va fatto e come va fatto.
Questa scarsa percezione della realtà dei problemi e del modo con il quale affrontarli non è di questi ultimi anni ma è datata 1994, quando un imprenditore, certamente capace ma anche fortunato perché costantemente assistito dalla politica, è sceso in campo con una squadra nella quale prevalevano elementi di estrema modestia. Una situazione che si è riprodotta nei gruppi parlamentari e nella direzione del partito con le conseguenze che ho detto nonostante l’ampia consistenza delle forze delle quale prima Forza Italia e poi il Popolo della libertà disponeva in entrambi i rami del Parlamento.
Giunto al potere con quella che possiamo definire una congiura di palazzo Matteo Renzi, personalità certo brillante e di buoni propositi ma con scarsa esperienza di governo, perché non si può ritenere che abbia maturato conoscenze adeguate nella gestione di una città, famosa per la storia e l’arte, ma che non raggiunge gli abitanti di un quartiere di Roma, ha messo in campo bravi giovanotti e leggiadre ragazze, certamente a lui fedeli ma privi della necessaria esperienza. Un’esperienza che, è bene ribadire, non è connessa all’età ma a ciò che si è fatto nella vita e alla capacità propria di ognuno di trarre da studi e lavoro elementi tali da fornirgli una somma di conoscenze capaci di consentirgli di governare.
Solo sulla base di questa improvvisazione si spiega l’enunciazione di programmi fumosi, la indicazione di scadenze precisate con sequenza incalzante di mese in mese nei quali il governo avrebbe dovuto risolvere problemi gravi e annosi come la riforma tributaria o quella della pubblica amministrazione. Per cui il Presidente del consiglio si è dedicato a formulare, attraverso slogan e spot, le riforme che intenderebbe fare, che lui ritiene utili al Paese, senza che appaia valutata l’efficacia delle stesse come dovrebbe essere regola per ogni legislatore. Per simulare gli effetti di una riforma e verificare che essa sia veramente coerente con gli obiettivi che si intendono perseguire. Così, accanto ad una proposta di riforma del Senato, che appare pasticciata e degraderebbe questa, che è la più antica delle istituzioni parlamentari, ad una sorta di assemblea del condominio Italia, fatta di personaggi minori della politica locale, cioè di quelli che sono chiamati ad amministrare piccole cose, nelle regioni costose e pressoché inutili, se l’80% del bilancio è dedicato alla spesa sanitaria, o nei comuni, dove un sindaco è bravo quanto assicura un’adeguata regolamentazione della circolazione veicolare, cura la manutenzione delle strade e dei marciapiedi, il verde cittadino e l’ambiente.
Quanto alla riforma della pubblica amministrazione in generale, statale e degli enti locali, che questo giornale non trascura occasione per ricordare come sia il primo degli obiettivi di un buon governo, considerato che la politica si fa attraverso le leggi e i funzionari che quelle leggi sono chiamati ad amministrare, anche qui siamo sul generico e quando vengono enunciate ipotesi di riforma in parte attengono ad istituti esistenti, anche se inapplicati, in parte ripercorrono le strade già abbandonate proprio per essere stato sperimentato l’effetto negativo di quelle scelte. Soprattutto nella stagione delle leggi Bassanini delle quali fu esaltato il ruolo riformatore che si è rivelato la causa prima dell’aggravarsi dell’inefficienza dello Stato e della dilatazione dei suoi compiti. Orecchianti neppure originali!
Per onestà va anche ricordato che questa maggioranza, la quale si propone di riformare importanti istituzioni della Repubblica è la stessa che, per rincorrere la Lega e le sue ubriacature per la devoluzione, ha varato nel 2001 una riforma del Titolo V della Costituzione che ha determinato ulteriori problemi di funzionamento delle istituzioni dello Stato e anche delle regioni, con gravissima confusione di competenze che hanno azzoppato l’Italia ed hanno intasato la Corte costituzionale che praticamente lavora solo per dirimere controversie tra lo Stato e le regioni. Con queste premesse il giovanile ardore del Segretario del Partito Democratico e Presidente del consiglio dei ministri, guidato da giovani inesperti e comunque da chi ha scarsa conoscenza dei problemi dello Stato, avrebbe potuto utilmente indirizzarsi verso più concreti obiettivi che avrebbe potuto perseguire rapidamente intervenendo su alcune procedure ed alleggerendo quel fardello pesante e antistorico di lacci e lacciuoli che grava sui cittadini e sulle imprese in qualunque settore della vita economica e sociale.
È difficile che il giovane Presidente del consiglio riconosca i suoi errori di impostazione del programma e di approccio ai problemi. Anche se qualche resipiscenza si è notata, come nell’affermazione che non si possono fare riforme della pubblica amministrazione insultando i funzionari, come era sembrato nelle sue prime critiche nei confronti dell’apparato e degli uomini che lavorano negli uffici pubblici. Tuttavia la politica del “prendere o lasciare” a proposito delle riforme, a cominciare da quella del Senato, non depone bene per un Premier ambizioso di fare.
Riprendendo, per chiudere su questo suo atteggiamento ipercritico nei confronti dei pubblici dipendenti solo da poco attenuato, l’evidente l’errore di prospettiva. Lui è il capo dei funzionari pubblici e a lui spetta di governarne l’attività, di motivarne l’impegno per coinvolgerli nella riforma necessaria, che questo Paese attende da anni. La critica deve essere propositiva. È come se un generale denigrasse i suoi soldati dicendo che sono incapaci di combattere e poco coraggiosi, se non addirittura felloni, e poi pretendesse di vincere la battaglia. Ci sarebbe sicuramente qualcuno che gli direbbe “va a combattere da solo”.
L’Italia ha bisogno urgentemente di riforme serie, di norme efficaci, non di modifiche raffazzonate alle leggi e agli ordinamenti con la scusa, come si è sentito ripetere da qualche ministro, che dobbiamo fare subito, tanto se ci accorgiamo di aver sbagliato cambiamo. Non è questo lo spirito che deve animare il Presidente del Consiglio di questa importante stagione politica ed economica del nostro Paese. Lanci anche i suoi slogan per la campagna elettorale e per acquisire consenso all’interno del suo partito e tra la gente, ma metta i suoi esperti immediatamente al lavoro attraverso una efficace ricognizione del da farsi con interventi mirati ed efficaci, mettendo a confronto amministrazioni ed utenti in modo da comprendere le ragioni delle une e degli altri e non proceda a tentoni o peggio realizzando modifiche negative che aggraverebbero il disagio di un popolo volonteroso ma che non ne può più dell’inefficienza, come dimostra la campagna elettorale in atto, nella quale queste difficoltà emergono prepotentemente e incidono sulla distribuzione del consenso.
21 maggio 2014
Un commento al progetto Renzi-Madia – 2
Per fare sul serio, tra spot e buoni propositi
di Salvatore Sfrecola
Nell’impegno a fare “sul serio”, espressione di sicuro effetto mediatico in una realtà politico-amministrativa nella quale si ha l’impressione che si sia a lungo fatto finta di fare nonostante gli slogan che hanno accompagnato gli ultimi venti anni di storia, a cominciare dalla qualificazione di alcuni provvedimenti come “del fare” il Governo delinea un quadro d’insieme assolutamente condivisibile.
“L’Italia ha potenzialità incredibili”, è l’incipit di questa parte introduttiva. Se finalmente riusciamo a mettere in ordine le regole del gioco (dalla politica alla burocrazia, dal fisco alla giustizia) torniamo rapidamente fra i Paesi leader del mondo. Il tempo della globalizzazione ci lascia inquieti ma è in realtà una gigantesca opportunità per l’Italia e per il suo futuro. Non possiamo perdere questa occasione.
Vogliamo fare sul serio, dobbiamo fare sul serio.
Il Governo ha scelto di dare segnali concreti. Questioni ferme da decenni si stanno finalmente dipanando. Il superamento del bicameralismo perfetto, la semplificazione del Titolo V della Costituzione e i rapporti tra Stato e Regioni, l’abolizione degli enti inutili, la previsione del ballottaggio per assicurare un vincitore certo alle elezioni, l’investimento sull’edilizia scolastica e sul dissesto idrogeologico, il nuovo piano di spesa dei fondi europei, la restituzione di 80 euro netti mensili a chi guadagna poco, la vendita delle auto blu, i primi provvedimenti per il rilancio del lavoro, la riduzione dell’IRAP per le imprese. Sono tutti tasselli di un mosaico molto chiaro: vogliamo ricostruire un’Italia più semplice e più giusta. Dove ci siano meno politici e più occupazione giovanile, meno burocratese e più trasparenza. In tutti i campi, in tutti i sensi.
Fare sul serio richiede dunque un investimento straordinario sulla Pubblica Amministrazione. Diverso dal passato, nel metodo e nel merito.
Nel metodo: non si fanno le riforme della Pubblica Amministrazione insultando i lavoratori pubblici. Che nel pubblico ci siano anche i fannulloni è fatto noto. Meno nota è la presenza di tantissime persone di qualità che fino ad oggi non sono mai state coinvolte nei processi di riforma. Persone orgogliose di servire la comunità e che fanno bene il pr oprio lavoro.
Compito di chi governa non è lamentarsi, ma cambiare le cose. Per questo noi, anziché cullarci nella facile denuncia, sfidiamo in positivo le lavoratrici e i lavoratori volenterosi. Siete protagonisti della riforma della Pubblica Amministrazione”.
Partiamo da quest’ultima affermazione. Non sarò stato il primo ma certamente l’ho detto e ripetuto più volte. La pubblica amministrazione, nei suoi dirigenti e nei suoi funzionari doveva essere da tempo protagonista della riforma. Perché se è vero, come ho sempre sostenuto, che all’interno degli apparati pubblici vi sono professionalità di straordinario valore, dotate anche di sensibilità politica, nel senso della capacità dei funzionari di percepire le esigenze della società in rapporto alla domanda di servizi e di sviluppo che proviene dai cittadini e dalle imprese, la riforma avrebbe dovuto trovare la propria genesi proprio all’interno della Pubblica Amministrazione. Chi, infatti, se non i funzionari avrebbe potuto suggerire al potere politico la revisione degli ordinamenti e delle procedure per rendere efficiente l’amministrazione, strumento essenziale per perseguire le finalità individuate nell’indirizzo politico amministrativo quanto alle politiche pubbliche? Sarebbe stato un normale scatto d’orgoglio professionale per chi “è al servizio esclusivo della Nazione” (art. 98 Cost.) farsi protagonista della riforma. Invece abbiamo dovuto constatare una persistente difficoltà di immaginare il nuovo, nonostante il confronto con le burocrazie degli altri stati dell’Unione suggerisse nuovi modelli di efficienza.
Ma anche qui non si può addossare tutta la responsabilità ai funzionari. Perché il potere politico nulla ha fatto per coinvolgere l’apparato in ipotesi di riforma. Anzi, quando governo e parlamento hanno messo mano ad iniziative riformatrici le conseguenze sono state devastanti, dalle leggi Bassanini, che hanno disarticolato l’Amministrazione e il sistema delle garanzie di legalità, alla riforma del Titolo V della Costituzione, votata a cuor leggero per fare, alla vigilia delle elezioni del 2001, concorrenza alla Lega che reclamava la devoluzione, con la conseguenza di complicare il sistema della attribuzioni, fare delle regioni il legislatore generale (di tutto ciò che è giuridicamente rilevante) e togliere allo Stato competenze naturalmente di carattere nazionale, come il turismo, il nostro petrolio, e paralizzare la Corte costituzionale che dal 2001 lavora prevalentemente per dirimere controversie tra le regioni e lo Stato. Riforme tutte ripudiate da chi le aveva promosse e votate, in particolare quella costituzionale, approvata con pochi voti di maggioranza da ua Sinistra pasticciona, quando la legge fondamentale dello Stato meriterebbe la più ampia condivisione.
Su altre riforme promesse del Governo è lecito nutrire notevoli perplessità. A cominciare dalla riforma del Senato. Per superare il bicameralismo perfetto, riforma ampiamente e da tempo auspicata, la proposta, affrettata e di tono minore, pressoché inutile, svilisce il ruolo della più antica assemblea parlamentare, accompagnata da un “prendere o lasciare”, incompatibile con il carattere costituzionale di una normativa naturalmente destinata a durare negli anni.
Proseguiamo nella lettura del testo del Governo.
“Nel merito: abbiamo maturato alcune idee concrete. Prima di portarle in Parlamento le offriamo per un mese alla discussione dei soggetti sociali protagonisti e di chiunque avrà suggerimenti, critiche, proposte e alternative. Abbiamo le idee e siamo pronti a intervenire. Ma non siamo arroganti e quindi ci confronteremo volentieri, dando certezza dei tempi”.
L’idea è apparentemente espressione di una apertura al dialogo. In realtà all’indirizzo di posta elettronica indicato arrivano decine di migliaia di messaggi, i più riguarderanno minutaglie, con la conseguenza che è da escludere un apporto significativo. Chi legge le mail, chi le valuta? È evidente che siamo di fronte, nella migliore delle ipotesi, ad uno spot pubblicitario, ad un gesto di buona volontà privo di conseguenze pratiche.
“Le nostre linee guida sono tre.
· Il cambiamento comincia dalle persone. Abbiamo bisogno di innovazioni strutturali: programmazione strategica dei fabbisogni; ricambio generazionale, maggiore mobilità, mercato del lavoro della dirigenza, misurazione reale dei risultati, conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, asili nido nelle amministrazioni.
· Tagli agli sprechi e riorganizzazione dell’Amministrazione. Non possiamo più permetterci nuovi tagli orizzontali, senza avere chiari obiettivi di riorganizzazione. Ma dobbiamo cancellare i doppioni, abolendo enti che non servono più e che sono stati pensati più per dare una poltrona agli amici degli amici che per reali esigenze dei cittadini. O che sono semplicemente non più efficienti come nel passato.
· Gli Open Data come strumento di trasparenza. Semplificazione e digitalizzazione dei servizi. Possiamo utilizzare le nuove tecnologie per rendere pubblici e comprensibili i dati di spesa e di processo di tutte le amministrazioni centrali e territoriali, ma anche semplificare la vita del cittadini: mai più code per i certificati, mai più file per pagare una multa, mai più moduli diversi per le diverse amministrazioni. (segue: il precedente articolo è stato pubblicato il 17 maggio)
20 maggio 2014
Un commento al progetto Renzi-Madia – 1
Pubblica Amministrazione: una riforma necessaria, ma come farla?
di Salvatore Sfrecola
La politica e le Pubbliche Amministrazioni – Chi mi segue su questo giornale e su www.contabilita-pubblica.it ha letto più volte, almeno ad ogni cambio di governo, un mio appassionato appello ad una riforma radicale delle pubbliche amministrazioni. La tesi è semplice: l’apparato amministrativo, con le leggi che individuano attribuzioni e definiscono i procedimenti e con la professionalità degli addetti costituisce lo strumento per governare i fenomeni sociali, cioè per realizzare le politiche pubbliche in tutti i settori, dalla scuola alla sicurezza, dalle infrastrutture all’industria, al commercio, al turismo. Tanto per semplificare.
Con la conseguenza che se le attribuzioni e le procedure intestate agli apparati pubblici non sono adeguate alle esigenze, se il personale non corrisponde per professionalità, per numero e per distribuzione territoriale alle necessità l’apparato non funziona adeguatamente con effetti di gravissima inefficienza. Per cui occorre intervenire rapidamente con le iniziative del caso. Quindi si opera sulle leggi, sui regolamenti e sulle prassi individuando quelle più virtuose per rispondere alla richiesta di servizi che proviene dai cittadini e dalle imprese. E quanto alle professionalità è troppo tempo che non si conduce una ricognizione delle esigenze. Le amministrazioni nascono con dotazioni organiche riferite alle funzioni assegnate, tanti giuristi, economisti, statistici, ingegneri, fisici, e via enumerando geometri, ragionieri, ecc..
Un tempo, per esemplificare, il Ministero dei lavori pubblici aveva i “sorveglianti idraulici”, dovevano navigare lungo i fiumi per verificare lo stato delle sponde ed accertare che non vi fossero le condizioni per esondazioni, accumulo di alberi, di detriti, interventi ebusivi e quanto altro potesse disturbare il normale deflusso delle acque. L’Italia aveva, dunque, un apparato efficiente. Oggi quegli stessi obiettivi si possono raggiungere diversamente, con telecamere, ricognizione aerea, ecc.
Sempre nel settore dei lavori pubblici per onestà intellettuale va detto che il “genio civile” nel corso della storia d’Italia ha unificato il Paese e l’ha ricostruito dopo la seconda guerra mondiale.
Altra categoria praticamente scomparsa è quella dei dattilografi, un tempo essenziali per battere a macchina provvedimenti amministrativi ed atti giudiziari. Oggi tutti gli impiegati pubblici dispongono di un computer. I funzionari scrivono i loro provvedimenti, i giudici le loro sentenze.
Bene, tutte queste situazioni sono note alla dirigenza pubblica ed alla politica. E tutti concordano sul fatto che vadano cambiate leggi e procedimenti per rendere gli apparati più rispondenti alle esigenze che provengono dalla società civile. Come ricordano tutti quando si richiamano le difficoltà degli operatori economici, italiani ed esteri. I primi, quando possono si trasferiscono al di là della frontiera, i secondi si guardano bene dall’intraprendere iniziative in Italia. A parte le variabili della pressione fiscale e della criminalità presente ormai un po’ dappertutto che impedisce la libera concorrenza, che è regola fondamentale dell’Unione Europea.
Tutti concordano sulla diagnosi, spesso anche sulla terapia. Ma nulla cambia. Incapacità dei governi, freno delle lobby e dei sindacati? Un po’ di tutto. Per cui si comprende che il Presidente del Consiglio abbia affrontato subito il problema Pubblica Amministrazione intendendo dotarsi di un apparato adeguato ai cambiamenti che vuole perseguire. Che poi parli di “rivoluzione”, usando un linguaggio poco usuale ad un uomo di governo si può comprendere considerate le profonde trasformazioni che ha in mente per restituire efficienza all’apparato pubblico e rendere competitivo il nostro Paese.
Passando dalle parole ai fatti c’è da fare alcune considerazioni. Non tanto sul linguaggio che accompagna certe esternazioni del Premier, la “rivoluzione”, la “ruspa”, l'”aggressione”, parole di una comunicazione certamente efficace in vari ambienti ma non tra quelli interessati, com’è ovvio. Renzi è un abilissimo comunicatore, come tutti hanno potuto constatare, e non c’è dubbio che l’aggressione a 360 gradi a tutte le realtà che intende modificare abbia la finalità di gettare lo scompiglio perché nessuno si senta al sicuro ed accetti il “male minore” che viene prospettato. Come nel caso del tetto agli stipendi degli alti manager e degli alti magistrati. Chi è sotto il tetto si è sentito al riparo. Sbagliando perché è evidente che una riforma complessiva non potrà non portare alla riparametrazione dei trattamenti economici, perché sarebbe ingiusto che un generale guadagni come un colonnello e questi poco più del maggiore, e via discorrendo.
In questo senso il Premier ha anche dimostrato in più occasioni di non avere la misura giusta delle cose che conosce non per cognizione diretta avendo una esperienza limitata ad una amministrazione locale, tra l’altro di piccole dimensioni, dove le difficoltà non mancano ma si risolvono spesso davanti ad un caffè tra funzionario e assessore e tra questo e il sindaco.
E difatti nel documento che viene chiamato “linee guida”, approvato nel Consiglio dei ministri del 30 aprile in forma di “lettera ai dipendenti pubblici” (che ha invitato a scrivere a rivoluzione@governo.it) questa mancanza di esperienza si nota in pieno, con riferimento a istituti già esistenti e spacciati come novità e ad altri già sperimentati e miseramente falliti. Insomma, un insieme di idee buone ma anche di soluzioni un po’ azzardate quando non palesemente inadeguate che il Premier con i suoi “bollenti spiriti” e il “giovanile ardore”, per riprendere una espressione di Francesco Maria Piave librettista de La Traviata, tenta di dare una spallata all’esistente a fini indubbiamente nobili. Che tuttavia sarebbe stato possibile perseguire in modo da evitare reazioni che, nelle condizioni da lui create, rischiano di determinare congiunzioni di interessi che non sarà facile superare. A parte i sindacati, nella maggior parte dei casi assolutamente screditati nell’ambito del pubblico impiego.
Forse il Premier si è accorto di aver sbagliato linguaggio, o forse gli è stato fatto notare, Ha smorzato i toni e rettificato il linguaggio che era stato percepito come denigratorio in modo generalizzato dai pubblici dipendenti. Un comportamento che il Presidente del Consiglio che è il capo degli impiegati pubblici non può assumere perché non è comunque giusto. Se, infatti, gli apparati non funzionano come dovrebbero e come il governo vorrebbe spesso questa scarsa performance non è (o non è solo) responsabilità degli addetti, ma della classe politica di governo che non ha saputo cambiare ordinamento e attribuzioni e in taluni casi non ha voluto o saputo dare adeguate direttive amministrative, previste dalla legge. E, pertanto, si sentono vittime di una ingiustizia.
Renzi lo ha capito tanto che all’inizio della lettera ai dipendenti pubblici afferma che “non si fanno le riforme della Pubblica Amministrazione insultando i lavoratori pubblici”. Sulle sponde del Tevere i nostri antenati dicevano excusatio non petita, accusatio manifesta. Una scusa non richiesta è una accusa manifesta, per chi non ha dimestichezza con la lingua dei nostri maggiori.
Ma ogni ripensamento è gradito e accettato. L’intelligenza sta nel capire gli errori e nel modificare atteggiamenti. Anche nel cambiare collaboratori, per la verità, quando ci si accorge della loro estremo modestia. Accadrà anche questo. L’uomo è intelligente e capirà che non si va avanti con le battute popolari, gli slogan ed i luoghi comuni e collaboratori senza esperienza specifica in settori ad elevata specializzazione giuridica ed organizzativa. Anche un po’ di conoscenza storica e di ordinamenti comparati non guasterebbe. Se ne nota la mancanza.
Il Capo del Governo deve motivare i suoi uomini, come farebbe un generale pronto alla battaglia. Immaginate un condottiero che dicesse che i suoi soldati sono incapaci di combattere e felloni. Andrebbe da solo contro il nemico.
Veniamo, dunque, al documento, alla lettera “aperta”, si potrebbe definire, ai pubblici dipendenti che intendiamo commentare richiamando pedissequamente il testo, anzi premettendo il testo alle nostre considerazioni in modo che sia sempre evidente l’appezzamento o la critica.
Il documento di apre con una espressione “Vogliamo fare sul serio”, certamente apprezzabile e di impatto positivo sull’opinione pubblica, anche se a noi, che crediamo nelle istituzioni, sembra naturale, cioè normale, che il Presidente del Consiglio ed il Governo facciano “sul serio”. (segue)
17 maggio 2014
Associazione Musicale Giacomo Carissimi
Arciconfraternita Santa Maria dell’Orto
Sabato 17 maggio 2014
Chiesa di Santa Maria dell’Orto
Via Anicia, 10 – h. 19,00
?raccontando Napoli?
Conferenza – Concerto
di Dora Liguori
Eugenio Giordano: chitarra
Brani e autori popolari dal ‘500 all’ ‘800
Ingresso euro 10.00
PoveraItalia!
Corruzione: evidenza penale
e percezione dell’opinione pubblica
di Salvatore Sfrecola
La corruzione è un po’ come la temperatura nell’ambito della meteorologia, c’è quella effettiva ma anche quella percepita. Differenza, non da poco. La temperatura effettiva viene misurata in modo preciso dal termometro, mentre la temperatura percepita, cioè la sensazione di caldo e di freddo deriva da altri fattori ambientali, quali l’umidità e/o il vento, anche essi valutabili, l'”indice di calore” o “sensazione termica”, rilevabili con alcuni parametri oggettivi. Tuttavia quella temperatura è variamente intesa dalla gente, come tutti sappiamo.
Anche per quanto riguarda la corruzione, la distinzione tra l’effettiva e quella percepita è conseguenza di vari fattori ed è, soprattutto, oggetto di vivace dibattito e di accese polemiche a causa della forte divergenza dei dati. E c’è anche chi, con incredibile improntitudine, tra i politici e i giornalisti, afferma che in Italia la corruzione sia un fenomeno marginale.
Infatti, come ha affermato nei giorni scorsi il Presidente dell’Autorità Anticorruzione, Raffaele Cantone, un magistrato ordinario distintosi nella lotta ai clan camorristici della Campania, la corruzione effettiva è rigidamente ancorata alle inchieste giudiziarie, soprattutto alle sentenze definitive di condanna, un dato che sconta le prescrizioni che, proprio nel caso dei reati contro la pubblica amministrazione, costituiscono una pesante falcidia rispetto alla inchieste avviate dalla magistratura. Per cui facendo i conti solamente sulla base dei dati giudiziari avremmo un livello di corruzione molto vicino a quello della Svezia. Se passiamo, invece alla corruzione “percepita” (Corruption Perception Index – CPI) precipitiamo nella graduatoria formata da Transparency International, uno degli enti più rigorosi nell’accertamento della corruzione, giù giù fino a trovarci al 67° posto dopo il Ruanda, prima della Georgia.
In proposito va ricordato che Giovanni Giolitti a inizio Novecento era solito ripetere, meno male che c’è la Grecia, altrimenti saremmo i più corrotti d’Europa. Ancora oggi la Grecia “ci salva”. Infatti è al 78° posto, prima della Colombia.
Cos’è, dunque, la corruzione “percepita” dai cittadini? Il “livello secondo il quale l’esistenza della corruzione è percepita tra pubblici uffici e politici”, dice Transparency. Essendo la corruzione “l’abuso di pubblici uffici per il guadagno privato”.
Altro indice sul controllo della corruzione è quello pubblicato dalla Banca Mondiale (Rating of control of corruption). Entrambi forniscono una misura della percezione della corruzione a livello nazionale ed aggregano i dati relativi ad indagini che, in modo diverso, sono volte a misurare o la corruzione (spesso diversamente definita a seconda dell’indagine), o fenomeni che ad essa si ritiene siano collegati. Si tratta di indagini prodotte tipicamente da agenzie di consulenza che intervistano esperti di vario genere, uomini d’affari (sia del paese in questione, sia stranieri) e persone comuni. Queste rilevazioni tengono, altresì, conto della generalizzata percezione di fatti e di comportamenti che agli occhi del cittadino danno conto di disfunzioni nella gestione delle pubbliche amministrazioni e, in genere, nell’esercizio della funzione pubblica con effetti sulla finanza dello Stato e degli enti pubblici, nel senso che da quei fatti e dai quei comportamenti derivano spese maggiori del previsto o non dovute o minori entrate per i bilanci pubblici.
Proviamo a fare qualche esempio partendo da una situazione diffusa che non sempre viene collegata alla corruzione, gli sprechi delle pubbliche amministrazioni, cioè i maggiori costi sostenuti per acquisto di beni non necessari o in misura superiore al dovuto ovvero a costi eccessivi. Situazione nella quale va ricompresa anche la realizzazione di opere con costi e in tempi superiori a quelli previsti nei contratti di appalto, oppure di opere realizzate con gravi difetti di costruzione al punto da richiedere dopo poco la formale conclusione dei lavori interventi di manutenzione straordinaria. Accade spesso che queste opere non vengono utilizzate perché sono cambiati gli standard di sicurezza o perché a causa della lunghezza dei tempi di realizzazione sono cambiate le esigenze dell’Amministrazione.
C’è dell’altro, per quanto riguarda la corruzione percepita. Chi gira per le città vede palesi violazioni delle regole, occupazioni abusive di suolo pubblico da parte di bar e ristoranti, esposizione sui marciapiedi di frutta e verdura in violazioni di divieti, tra l’altro per le conseguenze dei fattori inquinanti del traffico (piombo ed altri residui della combustione), auto parcheggiate in divieto di sosta e non sanzionate nonostante la presenza di uomini e donne della Polizia Locale. E poi mancata notifica di ordinanze sindacali di sgombero o di rimozione di manufatti non autorizzati, ecc.
Può darsi che queste situazioni siano conseguenza della scarsezza di agenti, dell’ignoranza sulle regole (mi è capitato in passato di constatare che alcuni agenti della polizia locale non avevano nozione della occupazione abusiva di suolo pubblico), ma la gente ne deduce compiacenze volute, anche perché di tanto in tanto la stampa informa che qualche controllore era indotto a “distrazioni” dal pagamento di mazzette o da “altre utilità”, come le chiama il codice penale all’art. 318, a seconda della categoria merceologica del negoziante.
Naturalmente in questa percezione della corruzione vanno inserite altre fattispecie delle quali la giurisprudenza penale e contabile ha dato conto. Come nel caso delle prescrizioni di farmaci non necessari o in misura superiore a quanto previsto dal normale ciclo terapeutico. Scelte che le imprese farmaceutiche avranno modo di compensare, come ben noto, con la partecipazione del sanitario a convegni e congressi in località turistiche, naturalmente accompagnato da moglie (o marito) e figli.
Va detto che nonostante sia percepita, a questa corruzione ci siamo abituati, tanto che, se non riflettiamo con un po’ di attenzione, consideriamo questi comportamenti quasi naturali.
16 maggio 2014
Un libro di Filippo de Jorio per la politica e la storia
Identikit di un omicidio – Il caso Moro
di Salvatore Sfrecola
Farà certamente discutere il libro di Filippo de Jorio, “Identikit di un omicidio – il caso Moro” (Pagine 2014, I libri de Il Borghese, documenti) presentato il 9 maggio, giorno del 36mo ritrovamento del corpo di Aldo Moro ucciso dopo 55 giorni di prigionia. La tesi è quella di un omicidio per “omissione di soccorso”, nel senso che le autorità governative italiane non seppero o non vollero giungere a patti con le Brigate Rosse che il 16 marzo 1978 avevano rapito il Presidente della Democrazia Cristiana per tenerlo prigioniero e sottoporlo ad un “processo popolare”, perché rendesse conto della gestione del potere negli anni precedenti.
Ne abbiamo discusso con Claudio Tedeschi, direttore de il borghese, Giada Pacifici, psicologa, e Antonio De Pascali, giornalista, presentati da Luciano Lucarini, l’editore, a Palazzo Ferrajoli, in Piazza Colonna, in una sala gremita di personalità della cultura, della magistratura e del Foro, venuti ad onorare l’autore, Filippo de Jorio, già parlamentare regionale, docente universitario ed illustre rappresentante dell’avvocatura, scrittore brillante di storia, politica istituzionale e cronaca degli avvenimenti degli ultimi cinquant’anni. Grande successo ha avuto, ad esempio, il suo “L’albero delle mele marce” che nelle due edizioni, sempre con l’editore Pagine, ha scavato negli avvenimenti dei partiti e dei governi negli anni luminosi sia in quelli bui della Prima Repubblica.
Colpisce in questo libro, che parla della cattura e della prigionia di Aldo Moro, non solo l’inquadramento degli avvenimenti ma anche l’approfondimento psicologico delle lettere che lo statista pugliese aveva indirizzato alla famiglia ed ai politici e la cronaca, puntuale e dettagliata, di quei 55 giorni nei quali emerge l’incapacità del governo di liberare il parlamentare prigioniero delle Brigate Rosse o anche, per taluni, il disinteresse ad una sua eventuale liberazione. Anzi, il libro denuncia anche ipotesi di aperta ostilità nei confronti dell’uomo politico prigioniero che avrebbero suggerito di evitare la liberazione.
Come è noto, sulla vicenda di Aldo Moro, anche di recente, sono state portate all’attenzione della stampa presunte rivelazioni che farebbero propendere per una congiura, per una macchinazione, per taluni contestuale al rapimento, per altri messa a punto nel corso della detenzione. In ogni caso questa vicenda vede un affollarsi di opinioni, di accuse, mosse in relazione ad interessi di taluni esponenti della Democrazia Cristiana ed alle preoccupazioni che, in relazione all’evoluzione della situazione politica italiana in vista di un accordo con il Partito Comunista, avrebbero manifestato esponenti del governo americano, in particolare del Segretario di Stato, Cyrus Vance.
Di tutti questi aspetti dà conto puntualmente il libro. Ma a me sembra doveroso iniziare con alcune considerazioni che emergono fin dalla lettura delle prime pagine, laddove Filippo de Jorio manifesta sentimenti di stima profonda nei confronti di Aldo Moro, di ammirazione per la sua personalità politica, per i sentimenti che lo statista aveva costantemente posto a fondamento della sua vita politica, per la sua fede nella democrazia, per la sua religiosità, che permeava la sua azione politica e la sua visione del mondo.
Sono pagine nelle quali l’Autore, con una prosa di grande efficacia e con un ritmo incalzante traccia la figura politica e morale di Aldo Moro alla quale si accosta quasi stupito che un uomo impegnato nell’agone politico abbia avuto la capacità, sottoposto ad una dura prigionia, di mantenere integra la sua forza morale, come traspare dalle sue lettere, fino alle ultime, nelle quali, ormai consapevole della fine imminente, non cede alla disperazione, nonostante le preoccupazioni che nel corso del tempo aveva dimostrato per la sua famiglia che, sottolineava, “ha ancora bisogno di me”.
E ancora il ruolo dei politici, da Andreotti a Cossiga a Zaccagnini, e l’intervento del Santo Padre Paolo VI che si era rivolto agli “uomini delle Brigate Rosse” per chiedere che fosse risparmiata la vita di Aldo Moro “uomo giusto”.
Che dire della vicenda così acutamente ricostruita nel libro di Filippo de Jorio? È certo che di quegli avvenimenti che paiono più lontani dei 36 anni che ci dividono dal 1978, si possono dare versioni diverse, come diversamente può essere interpretata la politica della fermezza alla quale il governo si è attenuto di fronte al ricatto delle Brigate Rosse che pretendevano la liberazione di alcuni loro compagni detenuti. Lo Stato non tratta con i terroristi. È stata la scelta della prima ora quando, nel concitato dialogo tra gli uomini della politica, era emersa anche la proposta di ricorrere a leggi straordinarie, non escluso il ripristino della pena di morte. Era stato Ugo La Malfa, il leader repubblicano, un moderato, a chiedere norme eccezionali e il ricorso alla pena capitale per i terroristi, come se fosse necessaria una legislazione emergenziale in presenza di una situazione che in ogni caso poteva essere governata con le leggi vigenti. Eppure si ritenne necessario intervenire con la utilizzazione dell’Esercito e alcune norme derogatorie delle procedure di identificazione delle persone e di ricerca dei latitanti per agevolare le forze dell’ordine sottoposte ad una quotidiana pressione psicologica da parte della stampa che giorno dopo giorno segnalava che nessun progresso veniva fatto nella identificazione del rifugio dei terroristi dove il Presidente della Democrazia Cristiana era detenuto e processato.
Io sono contrario, come ho detto nel corso della presentazione del libro, a vedere dietro alcuni avvenimenti storici il complotto. È certo che Aldo Moro non era amato anche nel suo partito, che la sua apertura al Partito Comunista era vista con sospetto oltre oceano, ma credo che sia difficile sul piano storico e giudiziario dimostrare, senza ombra di dubbio, che l’agguato fu premeditato e condotto sulla base di scelte politiche, anche perché è mia opinione che l’uccisione di Aldo Moro sia stata sostanzialmente una sconfitta del terrorismo. Una sconfitta della quale dà dimostrazione l’incremento dell’azione eversiva negli anni successivi, quando non c’era giorno che non fosse ucciso un giornalista, un magistrato, un esponente del mondo politico, in una escalation che può essere diversamente interpretata, ma che, a mio giudizio, ripeto, dimostra la disperazione dei terroristi che non erano riusciti a infliggere allo Stato quella sconfitta politica che si attendevano dal sequestro Moro. Una sconfitta che sarebbe inevitabilmente seguita alla liberazione dei detenuti. È vero, si dice e si ricorda nel libro, e lo dice anche Aldo Moro in alcune sue lettere, che lo scambio di prigionieri ha precedenti illustri nella storia politica, ma in caso di rapporti fra Stati che normalmente, e da sempre, si scambiano le spie. E che, in alcune occasioni, come nel caso del rapimento del consigliere regionale della Campania, Cirillo, la liberazione dell’ostaggio non era avvenuta per intervento dello Stato ma per trattative che ambienti politici democristiani avevano condotto con elementi della malavita locale.
Il libro, come ho detto, riporta le lettere di Moro, quelle spedite e recapitate e quelle non recapitate a uomini politici e alla famiglia, attraverso le quali è possibile ricostruire l’evoluzione psicologica dell’uomo politico che si era venuto a trovare “sotto un dominio pieno e incontrollato”, come scrive in una lettera a Francesco Cossiga, Ministro dell’interno, il 29 marzo 1978, precisando di essere “sottoposto ad un processo popolare che può opportunamente essere graduato, che sono in questo stato avendo tutte le conoscenze e sensibilità che derivano dalla lunga esperienza, con il rischio di essere chiamato o indotto a parlare in maniera che potrebbe essere sgradevole e pericolosa in determinate situazioni”.
Si tratta di una affermazione importante, tesa a indurre il Ministro dell’interno, esponente di primo piano della Democrazia Cristiana, a considerare l’opportunità di un intervento umanitario che consentisse al detenuto Aldo Moro di riacquistare la libertà. C’è una sorta di minaccia rivolta a Cossiga. “Io so molte cose”, sembra dire Moro, potrei essere indotto a fare rivelazioni. Questa frase va messa a confronto con quanto si legge nel comunicato numero tre delle brigate rosse della stessa data, nel quale si legge che “l’interrogatorio? prosegue con la completa collaborazione del prigioniero” e la precisazione che le informazioni ottenute “verranno rese note al Movimento rivoluzionario che saprà farne buon uso nel prosieguo del processo al regime che con l’iniziativa delle forze combattenti si è aperto in tutto il Paese”.
Mettendo insieme la preoccupazione/minaccia di Moro sulla possibilità di essere “indotto a parlare” e l’affermazione delle Brigate Rosse sulla “completa collaborazione del prigioniero” mi sono fatto da tempo la convinzione che l’interesse “politico” dei terroristi sarebbe stato quello di liberare l’uomo politico sequestrato al termine del “processo” affermando che quella collaborazione aveva effettivamente portato alla emersione di fatti politici e di questioni attinenti ai rapporti internazionali, così creando all’interno del mondo politico italiano e non solo una tensione e polemiche che difficilmente sarebbe stato agevole placare anche se Moro, riacquistata la libertà, avesse affermato in tutti i modi che, in realtà, non aveva rivelato nessun segreto, non aveva messo i suoi carcerieri a parte di delicate questioni di politica interna ed internazionale. Sarebbe stato difficile credere alle sue parole dopo che, sottoposto ad una stressante condizione psicologica che lo aveva portato ad accusare i suoi amici di partito di averlo abbandonato, le Brigate Rosse avevano reso nota la sua “completa collaborazione”.
Sarebbe stata la fine politica di Aldo Moro. Se questa era la finalità di chi avrebbe “complottato” essa sarebbe stata raggiunta più dalla liberazione dell’ostaggio che dalla sua morte, che ne ha fatto giustamente un martire con la sua personalità di politico democratico e di credente, un uomo dai grandi valori spirituali che aveva portato nella vita politica italiana.
Un libro tutto da leggere, da approfondire, da centellinare attraverso le considerazioni di Filippo de Jorio, le lettere di Moro, la loro analisi psicologica e la cronaca puntuale e dettagliata dei giorni della prigionia fino alla scoperta del cadavere, quella mattina del 9 maggio di 36 anni fa in via Gaetani, una tragedia nella tragedia quel corpo raggomitolato nel bagagliaio di una utilitaria nel quale era stato deposto dai suoi carnefici.
È un bel volume per la storia e la politica questo che Filippo de Jorio ha saputo confezionare avvalendosi della collaborazione di Giada Pacifici e Antonio De Pascali, dietro il quale si sente la passione per la politica, una grande fede nelle istituzioni ed una intensa spiritualità che forse è il sentimento che più lega l’Autore ad Aldo Moro che nella militanza nella Democrazia Cristiana si era collocato su posizioni molto distanti da quelle di de Jorio, a lungo collaboratore di Mariano Rumor e di Giulio Andreotti, uomo comunque sempre orgoglioso della sua libertà e delle sue idee che lo hanno fatto stimare grandemente ma che gli hanno arrecato anche non pochi guai, se vogliamo usare un’espressione edulcorata per richiamare le vicende che lo hanno visto ingiustamente accusato di fatti di eversione politica (il c.d. Golpe Borghese) che non aveva commesso e per i quali è stato costretto per ben tre anni a risiedere all’estero.
Riconosciuta la sua innocenza Filippo de Jorio è tornato nelle aule di giustizia, brillante avvocato come sempre per difendere i diritti e gli interessi dei cittadini, cominciando dai più deboli, come lui sempre ha definito i pensionati, dei quali è stato paladino anche dinanzi la Corte costituzionale, quei pensionati ai quali periodicamente la politica chiede sacrifici non sapendo dove reperire risorse e come combattere gli sprechi e la corruzione.
11 maggio 2014
Un nuovo libro di Filippo de Jorio
Identikit di un omicidio – il caso Moro.
Venerdì 9 maggio, alle ore 17,30, a Palazzo Ferrajoli,
piazza Colonna 355,
Claudio Tedeschi, direttore de Il Borghese,
Giuseppe Sanzotta, vice direttore de Il Tempo,
Salvatore Sfrecola, Presidente di Sezione della Corte dei conti
Luciano Lucarini, editore
presentano
Identikit di un omicidio – Il caso Moro
dell’On. Prof. Avv. Filippo de Jorio,
Presidente della “Fondazione de Jorio”
per la storia del Sud
Di fronte alle ipotesi governative di riforma
La giustizia amministrativa tra conservazione e nuovi approdi
di Massimo Stipo*
È più che comprensibile che per motivi affettivi e sentimentali, stimati Colleghi che, oltre all’attività scientifica e didattica, esercitano con meritato successo la libera professione nelle aule dei Tar e del Consiglio di Stato, possano essere inclini a perorare la conservazione sic et simpliciter dello status quo della giurisdizione amministrativa del nostro Paese. Ma, pur con il doveroso rispetto per queste certamente apprezzabili posizioni, forse è opportuno guardare alla realtà con maggior distacco e con lungimiranza. Personalmente ritengo che il riparto di giurisdizione nei confronti degli atti e dei comportamenti della P.A. debba ancor oggi rimanere fondato sulla dicotomia giudice civile – giudice amministrativo e che la categoria giuridica dell’interesse legittimo depurata dalle scorie del passato, possa mantenere nell’ordinamento contemporaneo una sua validità concettuale e pratica, per gli atti di diritto pubblico della pubblica amministrazione: se non altro perché consente pur sempre un’ulteriore tutela nei confronti della P.A. rispetto a quella che è impartita dal giudice ordinario a difesa dei diritti soggettivi. La potestà della P.A., in uno Stato sociale di diritto, a mio avviso, non può essere retrocessa al rango di una situazione giuridica soggettiva passiva o quasi passiva del tipo dell’obbligo; parimenti la tutela degli interessi pubblici istituzionalmente affidata alla P.A. non può ridursi ad una mera esclusiva sintesi o risultante di interessi privati particolari (individuali, collettivi etc.). Esistono infatti interessi metaindividuali superiori o primari che non possono essere relegati al livello di interessi parziali o egoistici ma che sono invece degni di essere presi in considerazione e salvaguardati e, sia pure in una visione autenticamente democratica, non possono essere gestiti se non da una figura giuridica soggettiva di diritto pubblico (o a questa equiparata). Ma ciò non può significare una accettazione acritica e trionfalistica dell’attuale assetto della giurisdizione amministrativa, essendo invece commendevoli iniziative politiche non appiattite sull’esistente, quando, ad onor del vero, oltre che luci, sussistono varie zone d’ombra in relazione all’effettività della tutela giurisdizionale del cittadino verso la P.A. (specie se appartenente a categorie o a gruppi deboli o a classi indifese). Sia ben chiaro, massima considerazione per il livello di professionalità dei magistrati amministrativi, ma non appare utile rinchiudersi in una torre d’avorio ritenendo che “tutto va bene madama la marchesa”. Occorre, a mio sommesso avviso, al di là di apriorismi o petizioni di principio, un adeguato ripensamento critico del ruolo odierno della magistratura amministrativa, nell’evoluzione storica della società civile, in funzione delle aspettative di giustizia dei comuni cittadini (e non solo dei potentati di fatto delle odierne società a capitalismo avanzato). Ciò, a mio parere, occorre fare senza pregiudizi, senza intenti agiografici, tenuto conto che (come altre volte ho già scritto) sono cambiati significativamente il ruolo della P.A. e la giustificazione su cui essa si fonda, nel rincorrersi di mutamenti sociali sempre più rapidi ed intensi. Il processo dev’essere al servizio dei princìpi della pienezza e della completezza della tutela nei confronti della pubblica amministrazione: ciò è nell’interesse della società civile e degli stessi magistrati amministrativi, i quali vanno certamente apprezzati per la loro cultura specialistica, ma non pare opportuno che si arrocchino in un autoreferenziale difesa corporativa se non vogliono essere destinati a divenire come sacerdoti di una religione defunta. Sono infatti caduti molti di quei referenti politico-culturali che nel 1889 condussero in Italia alla stagione di un giudice specializzato nelle controversie amministrative. Ancor oggi la magistratura amministrativa può meritare di essere conservata ma senza nostalgie e senza lamentele da tragedia greca, in una ben diversa prospettiva ideologica storica e culturale in aderenza alle esigenze di una società ben diversa da quella che abbiamo ereditato dal passato. Lo stesso recente codice del processo amministrativo, pone di fronte al magistrato un sistema di diritto rigido e statico, il che appare più consono al diritto civile e al diritto penale, laddove invece il diritto amministrativo sostanziale oggi richiede un giudice particolarmente sensibile alla mutata realtà sociale, un giudice creativo, ricco di fantasia, d’inventiva, ed ampiamente elastico, non rinchiuso nelle gabbie di un sistema codicistico inevitabilmente approssimativo e superficiale. Si rammenti che Piero Calamandrei ha ammonito che il versante del diritto processuale “per sua natura è, più degli altri rami del diritto, destinato ad arrivare sempre con un certo ritardo sulla vita”: gli è che il ritardo del diritto processuale è doppio o al quadrato, perché come il diritto sostanziale ritarda sull’economia e sui rapporti sociali, così il diritto processuale ritarda a sua volta su questo (P. Calamandrei, ora in Studi sul processo civile, IV, Padova, 1939, pag. 17). Non a caso, come è noto, il prof. Vincenzo Caianiello, ex presidente della Corte Costituzionale, che proveniva dalle file della magistratura amministrativa, che aveva onorato per tanti anni, esprimeva forti perplessità e riserve su un’eventuale codificazione del processo amministrativo. Occorre, a mio avviso, guardare, come ha sempre ammonito Norberto Bobbio, al di là delle schermaglie quotidiane più in alto e più lontano verso nuovi traguardi di giustizia, ed in tale contesto accrescere la terzietà e l’indipendenza del giudice amministrativo (v. art. 111, secondo comma Cost. novellato) analogamente a quanto già ora avviene per il giudice ordinario, attesa l’unitarietà della funzione giurisdizionale, quale disegnata nella nostra carta costituzionale. In tale contesto pare opportuno, recependo un acuto suggerimento dal compianto prof. Giorgio Berti, che l’organo di autogoverno della magistratura amministrativa (al pari del CSM) sia presieduto dal Capo dello Stato, il che si può fare con semplice legge ordinaria, al fine di conferire maggiore autorevolezza e prestigio al Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa (organo che in legislature precedenti la classe politica al potere tendeva a ridimensionare in omaggio ad indirizzi politici reazionari e di restaurazione). In ogni caso occorre superare la frattura tra processo e società al di là di un carattere eccessivamente tecnicistico della giurisdizione amministrativa e quindi rifuggendo da un giudice funzionario “burocratizzato” non in grado adeguatamente di tradurre i fatti sociali e che si avvalga quindi semplicemente degli strumenti logico-formali dell’ermeneutica tradizionale. Per rispondere alle esigenze provenienti dalla Carta costituzionale democratica e dall’Unione Europea e dai valori fondamentali quali, per esempio quelli espressi dall’art. 3 secondo comma Cost., (principio di eguaglianza sostanziale) la magistratura amministrativa storicamente oggi non può più essere quella dello Stato liberal borghese o, comunque, di ordinamenti autoritari od aristocratici, del tutto anacronistici e superati.
6 maggio 2014
* Professore ordinario di Diritto Amministrativo nell’Università di Roma “La Sapienza”
A margine di un presunto caso di assenteismo
La Corte dei conti e il valore della legalità
di Salvatore Sfrecola
In tempi di contrasti agli sprechi, doveroso impegno della politica e delle pubbliche amministrazioni, ogni “notizia” che dia conto di risorse male utilizzate trova ampio risalto nelle pagine dei giornali e delle trasmissioni televisive. Spesso alla ricerca del fatto sensazionale, anche per placare l’ira della gente in un momento difficile della società italiana squassata da una crisi profonda che denuncia riduzione della produzione, dei consumi e del lavoro.
Cosa di meglio, dunque, che dare in pasto all’opinione pubblica numeri e dati sull’assenteismo di pubblici dipendenti, inteso come assenza dall’ufficio che si presume illecita? In tempi di mancanza di lavoro la denuncia di illeciti tra chi ha un posto fisso indigna giustamente la gente. E ancor di più se la segnalazione del caso riguarda l’Istituzione che ha compito di vigilare sulla spendita di denaro pubblico, quella Corte dei conti invisa ai politici di tutte le parti politiche che da sempre mal sopportano il controllo di legalità e, soprattutto, guardano con fastidio a quella funzione della Corte giudice della responsabilità per danno erariale che, quando accertato, comporta il risarcimento del pregiudizio recato con dolo o colpa grave alla finanza o al patrimonio degli enti pubblici. Dolo o colpa grave, mica robetta, irregolarità formali, come sepsso si sente ripetere, ma danno, inteso come maggiore spesa pubblica per acquisti non dovuti, effettuati a costi superiori al previsto, per opere male eseguite e via enumerando, come ben sanno i cittadini che osservano. Sprechi che il più delle volte nascondono fatti di corruzione.
La Corte è, dunque, sotto tiro, da sempre e anche in questo momento storico. Dunque, tornando all’assenteismo, di quello “presunto” dei dipendenti della Corte dei conti si sono occupati l’Espresso e Repubblica con un pezzo a firma G. M. del 28 scorso, al quale altri mezzi d’informazione hanno fornito adeguato risalto.
Il titolo è di quelli che attirano l’attenzione e rimangono nella mente al di là del contenuto dell’articolo: Sprechi – Corte dei Conti, assenteismo da record – L’organo che giudica gli sprechi degli enti pubblici ha un problema con la gestione di ferie e malattie. Con un dipendente su tre che, in media, non si reca sul posto di lavoro
Ed ecco il testo: “Giudica gli sprechi pubblici e il corretto impiego delle risorse, ma la Corte dei conti non riesce a frenare l’assenteismo al suo interno. I dati su ferie e malattie certificano infatti che un terzo degli uffici (in media d’anno 20 su 64) supera la soglia del 30 per cento di assenze mensili.
A gennaio (ultimi dati resi pubblici), l’hanno oltrepassata 24 uffici: due addirittura toccando quota 41 per cento di mancate presenze. Se, poi, si torna indietro, a dicembre si scopre che gli impiegati dell’ufficio che fa formazione al personale hanno lavorato in media solo 4 giorni su 10.
E una sbirciata ai dati dell’estate scorsa consente di appurare che 34 uffici hanno avuto un tasso di assenteismo oltre il 30 per cento, con le due segreterie delle sezioni giurisdizionali d’appello (motori della Corte) che hanno totalizzato, rispettivamente, il 46 e il 41,4 per cento di assenze”.
Il giornale ha ricevuto anche una precisazione da parte di un magistrato di grande valore, il dottor Ignazio de Marco, fino al 31 gennaio presidente della Sezione Terza Centrale d’appello, un record, questo sì, di lavoro, sentenze, ordinanze e decreti, tra l’altro impegnata nei mesi scorsi nella definizione di quelle liquidazioni agevolate del debito erariale voluto dal Governo Letta per coprire gli oneri della riduzione dell’IMU. Per il quale i condannati in primo grado se la sono cavata in appello pagando una piccola somma 20-30% di quella stabilita dai primi giudici.
Ecco la lettera di precisazioni:
Gentile Direttore,
mi consenta ospitalità per brevi precisazioni al recente articolo su Espresso/Repubblica del 28 aprile u.s., a firma G.M., che parla di assenteismo record alla Corte dei conti.
Tralascio l’imprecisione del termine (assenteismo ha un significato, assenza un altro, non presenza un altro ancora) e osservo che la sbirciata ai dati dell’estate scorsa riguarda le percentuali di assenze solo del mese di giugno 2013 senza specificare di quale Sezione si tratta. Ho l’obbligo di rappresentare che la Sezione 3^ giurisdizionale centrale di appello – da me presieduta fino al 31 gennaio 2014 – ha registrato la più bassa percentuale del 26,49 % e così è stato in tutti gli altri mesi dell’anno anche se le percentuali salgono, come è naturale, in luglio e agosto (tradizionali mesi di ferie).
Spiace che l’articolista non abbia considerato che le assenze sono dovute quasi esclusivamente a: ferie, riposo compensativo, part time, malattie certificate, congedi parentali, ecc.
E’ il caso di ritenerlo assenteismo?
Cordiali saluti
Ignazio de Marco
Fin qui la cronaca. Nessuno che si possa sfilare dai controlli e meno che meno l’organo cui la Costituzione, ma direi la storia del nostro Stato, dall’unità d’Italia, affida il compito di vigilare sulla finanza pubblica, sul denaro, occorre sempre ricordarlo, che i cittadini italiani con persone sacrificio giorno dopo giorno mettono a disposizione del potere pubblico corrispondendo all’erario imposte tasse e contributi vari. Denaro pubblico che un tempo, senza andare all’erarium populi romani, era circondato da un’aura di sacralità sicché a nessuna pubblica autorità era consentito non rendere il conto della gestione del denaro affidato alle proprie cure. Ugualmente dei beni patrimoniali alla cui costituzione ha concorso il sacrificio di milioni di italiani che nel corso dei secoli sono stati soggetti alle gabelle dei regni, delle signorie e dei comuni poi entrati a far parte nel 1861 nel Regno d’Italia . Si pensi ai palazzi del potere, alle fortezze, alle caserme, ai musei ed ai beni artistici ivi conservati.
Su questo immenso patrimonio pubblico hanno vigilato nel corso dei secoli organismi di controllo interno e Camere o Corti dei conti. E da quando nello Stato unitario queste funzioni sono state assunte dalla Ragioneria Generale dello Stato e dalla Corte dei conti i governanti hanno prestato costantemente ossequio alle indicazioni che provenivano da queste istituzioni, con atteggiamento diverso, a seconda del senso dello Stato che essi erano in condizione, per cultura e formazione politica, di esprimere. Non tutti ovviamente come Camillo Benso di Cavour, che sosteneva la necessità che il controllo fosse affidato ad un magistrato indipendente, o Quintino Sella che invitava i magistrati della Corte dei conti ad esercitare col massimo impegno il loro controllo per darne conto al Parlamento. Si dice che perfino Benito Mussolini, che delle regole della libertà aveva fatto strame, tenesse in debito conto le osservazioni della Ragionerie Generale e della Corte dei conti. Molti altri hanno borbottato e borbottano quando la Corte dei conti richiama al rispetto delle regole. Spesso sono i collaboratori dei potenti a sentire il fastidio dei controlli. Così non facendo un buon ufficio a Presidenti del Consiglio, Ministri, Presidenti e Sindaci che sarebbe meglio guidare sulla via, a volte difficile ma certamente proficua, della legalità.
3 maggio 2014