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A proposito di “Una giornata particolare”, di Aldo Cazzullo, sul referendum del 2-3 giugno 1946, andato in onda su “LA7”

ALDO G. RICCI

NON “STORIELLE”, STORIA

di Aldo A. Mola

Alla scoperta del referendum del 2-3 giugno 1946

La “Giornata particolare” appena dedicata al 2 giugno 1946 da Aldo Cazzullo su “LA7” è un’occasione mancata per far conoscere al grande pubblico come davvero andò il referendum istituzionale. Sin dal sottotitolo: “Monarchia contro Repubblica”, anziché “Monarchia o repubblica”. Il referendum e l’elezione dell’Assemblea costituente furono gestiti da un governo formato esclusivamente da fervidi repubblicani, a eccezione di Leone Cattani che la notte fra il 12 e il 13 giugno votò contro il conferimento delle funzioni di capo dello Stato ad Alcide De Gasperi. Quel “gesto rivoluzionario” (come lo definì Umberto II nel Proclama agli italiani diramato partendo da Roma alla volta del Portogallo), o “colpo di Stato”, pose il re di fronte al dilemma: cedere alla prevaricazione del governo o rischiare di precipitare l’Italia in una nuova guerra civile. Nell’esecutivo i poteri strategici erano nelle mani dei socialisti Giuseppe Romita, ministro per l’Interno, e Pietro Nenni, vicepresidente (che minacciò “Repubblica o caos”), e del comunista Palmiro Togliatti, ministro di Grazia e Giustizia, il quale ripetutamente impose la sua linea trincerandosi anche dietro affermazioni non vere. Per esempio, a chi chiese il controllo delle schede referendarie votate rispose che esse erano già state distrutte.

Mentre per la repubblica si schierarono quasi tutti i quotidiani “di opinione” e, s’intende, i programmi radiofonici, i monarchici non riuscirono a dar vita a un giornale nazionale. Pesò anche il desiderio del principe Umberto, dal 5 giugno 1944 Luogotenente del regno (anziché “del Re”), di rimanere “al di sopra della mischia”. In tal modo egli finì quindi per subire le imposizioni del governo, espressione del Comitato centrale di liberazione nazionale, vincolato alle direttive anglo-americane. Emanò il Decreto luogotenenziale 25 giugno 1944, n. 151, che, rimettendo la scelta della forma dello Stato alla decisione dei cittadini, di fatto sospese lo Statuto albertino e instaurò un regime di “costituzione provvisoria”: cesura sulla quale non si conosce il giudizio di Vittorio Emanuele III, che aveva, sì, trasferito al figlio tutti i poteri nessuno escluso, ma non la Corona.

Nell’impossibilità di rettificare in questa sede le inesattezze della narrazione esposta da Cazzullo, ne vanno corrette almeno alcune affermazioni sulle quali la storiografia ha fatto luce da tempo. Il governo Mussolini, insediatosi il 31 ottobre 1922 senz’alcun bisogno della leggendaria “marcia su Roma”, comprese esponenti di tutti i partiti costituzionali. Alla Camera fu il capogruppo De Gasperi a motivare il voto favorevole del Partito popolare italiano. Ad approvare a larghissima maggioranza quel governo furono deputati liberamente eletti il maggio 1921: un caso unico di “suicidio politico”, come, fra altri, ha insegnato per decenni lo storico socialista Giovanni Sabbatucci, morto ottantenne pochi giorni addietro.

Scrupolosamente costituzionale, come gli viene riconosciuto da studiosi non faziosi, il re assecondò i pareri di tutti i gruppi parlamentari, delle forze costituzionali e anche dell’altra riva del Tevere, con la quale Mussolini era in rapporti diretti. Negli anni del regime autoritario (non totalitario), il re sanzionò, emanò e promulgò leggi approvate dal Parlamento, anche quando (come quelle razziste del 1938) non le approvava affatto. Non aveva facoltà di rinviarle alle Camere, come invece previsto dalla Carta repubblicana. La sua condizione non fu troppo diversa da quella del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che recentemente ha dichiarato di aver firmato anche leggi da lui non condivise. “Così si può colà dove si puote”: il Parlamento, eletto dai cittadini, sempre pronti a scaricare su altri le proprie responsabilità.

Mentre ha omesso di ricordare che fu Vittorio Emanuele III, nella pienezza dei suoi poteri, a sostituire Mussolini con Pietro Badoglio, e a smantellare il Partito fascista e tutti i suoi organi e istituti (25 luglio 1943: decisione presa a prescindere al voto del Gran Consiglio), Cazzullo ha reiterato l’accusa di “fuga da Roma” del re (9 settembre 1943), già usata da Mussolini e dai repubblichini. Il fuggiasco procede occultamente sotto finte spoglie. L’auto del sovrano, in divisa militare, uscì dalla Capitale con lo stendardo reale bene in vista. Né è stato sottolineato che l’accettazione della resa (3 settembre) salvò la continuità dello Stato e la sua quasi totale integrità territoriale.

Quando, dopo lunghe digressioni, giunto al punto il narratore ha ricordato quanti andarono alle urne ma non ha detto una parola sui tre milioni di aventi diritto al voto che ne furono impediti, o per motivi politici, o perché ancora prigionieri di guerra (centinaia di migliaia) o perché non ebbero la tessera elettorale o, infine, perché residenti nella XII Circoscrizione elettorale (Friuli-Venezia Giulia, Fiume, Zara…), esclusa dalla consultazione, come la provincia di Bolzano, con la promessa di potersi pronunciare quando fosse cessata la loro condizione di terre disputate: impegno mai mantenuto dal governo. Su 28 milioni di elettori, i votanti furono circa 25 milioni. La monarchia ottenne 10.700.000 suffragi; la repubblica 12.700.000: poco più della metà dei voti validi, molti meno della metà degli elettori e con un margine di vantaggio sul numero dei votanti così ristretto da legittimare la richiesta di verifica dei verbali dei seggi, inviati dagli Uffici elettorali circoscrizionali a quello Centrale.

Il 10 giugno, a cospetto di dati ancora provvisori, il presidente della Corte Suprema di Cassazione, Giuseppe Pagano, chiese che fossero rendicontati non solo i voti validi ma anche le schede bianche, nulle, contestate e non attribuite (circa 1.500.000), fino a quel momento ignorate. Prima ancora che la verifica avesse corso (13-16 giugno), il Consiglio dei ministri compì il “gesto rivoluzionario” di cui sopra si è detto. Ormai partito il Re dal suolo patrio, la verifica si risolse in un’operazione burocratica, suggellata dal colpo di Stato contro la lingua italiana messo a segno da 12 dei 18 componenti della Corte Suprema secondo i quali per “votanti” non si intende quanti vota ma solo i voti validi: decisione non condivisa né da Pagano né dal Procuratore generale della Corte, Massimo Pilotti, e rimasta unica nella storia elettorale d’Italia perché del tutto infondata. “Votante” è chi va al seggio, ritira la scheda, la vota e la depone nell’urna. Alle 18 del 18 giugno, letti gli esiti comunicati dall’Ufficio Elettorale Centrale, Pagano non “proclamò” affatto la Repubblica (prevalsa per effetto della legge elettorale), né accolse l’invito rivoltogli da De Gasperi di accompagnarlo al Viminale. Nessuno fece notare (e Cazzullo ha perso l’occasione di dirlo) che dopo il 10 giugno e anche dopo la partenza di Umberto II dall’Italia tutti gli atti con valore legale continuarono a essere intestati “in nome del Re” sino al 19 giugno, quando la “Gazzetta Ufficiale” pubblicò il verbale dell’adunanza del 18.

Si dirà che queste sono cose arcinote e documentate. Ma allora perché non dirle invece di narrare storielle irrilevanti? Perché, mentre Umberto viene definito “uomo ordinario”, di Vittorio Emanuele III si ripete che fu complice del regime? Alle urne gli italiani andarono nel 1919, 1921, 1924, il 24 marzo 1929, subito dopo la Conciliazione Stato-Chiesa dell’11 febbraio, e ancora nel 1934. Seguirono gli “anni del consenso” (Renzo De Felice). Il re poteva/doveva scendere in piazza da solo contro piazze stracolme di persone che inneggiavano al governo Mussolini (vezzeggiato anche da Stati “democratici”) e continuarono a credergli sino alla catastrofe del 1943?

Aldo G. Ricci, archivista…

Per conoscere, capire e parlare degli anni 1943-1948, cioè dal governo Badoglio alla vittoria della Democrazia cristiana guidata da De Gasperi, è d’obbligo la lettura, matita alla mano, dell’edizione critica dei “Verbali del Consiglio dei ministri” di quegli anni, curati da Aldo Giovanni Ricci: dieci volumi in quindici tomi, con introduzioni e uno sterminio di note.

A 24 anni Ricci entrò per concorso all’Archivio Centrale dello Stato. Occhiuto direttore della Sala di studio frequentata da generazioni di studiosi e poi della Biblioteca, vice sovrintendente sino al 2002 e sovrintendente dal 2004 al 2009, Ricci non rimase succubo dei chilometri di scaffali e dalla mole immensa di faldoni, croce e delizia degli storici che per scrivere non si limitano a sfogliare qualche libro altrui ma risalgono alle fonti. Nella congerie di carte allo studioso accade di imbattersi nella conferma di quanto riteneva o di documenti che costringono a sostare e talvolta a correggersi perché “sapientis est mutare consilium”.

   Ricci ne ha conosciuti e aiutati tanti. Li ha assecondati nella ricerca e nel confronto. Era, del resto, la sua personale esperienza. Laureato con Lucio Colletti e poi suo assistente volontario, fece i conti con il marxismo, con tutte le “eresie” del socialismo e con Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi (Ginevra, 1773-1842). Poi studiò i massimi protagonisti del Risorgimento italiano, da Cavour (ne pubblicò per primo i verbali dei governi nella collana “Libro Aperto”) a Garibaldi, biografato in “Obbedisco. Garibaldi eroe per scelta e per destino” (Palombi, 2007) e a Mazzini, una cui raccolta di ricordi e pensieri pubblicò nel 2011, 150° della proclamazione del regno d’Italia. All’attività scientifica, inclusa la collaborazione con l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani, Ricci unì la pubblicazione in quotidiani e periodici di articoli che sono veri propri saggi, conferenze, interventi in una miriade di convegni e le lezioni dalla cattedra di storia dei partiti nell’Università Guglielmo Marconi di Roma e nel master “Esperti in politica” presso la Lumsa di Roma.

storico del centrismo degasperiano…

Ricci ha concentrato le sue riflessioni sull’intervento dell’Italia nella Grande Guerra e le ripercussioni sul dopoguerra, tra avvento dei partiti di massa e polverizzazione dei democostituzionali, e sulle lacerazioni del socialismo in fazioni più intente a contendersi lo spazio della sinistra che a proporsi quale forza di governo. Ripropose con introduzione critica “Rifare l’Italia” di Filippo Turati (Roma, Talete, 2008). Del pari approfondì la crisi del secondo dopoguerra in quattro saggi concatenati: “Aspettando la Repubblica” (Roma, Donzelli, 1996), “Il compromesso costituente” (Foggia, Bastogi, 2000), “La rinascita dei partiti in Italia, 1943-1948” (con Pino Bongiorno, Roma, 2009) e “La breve età degasperiana, 1948-1954” (ed. Rubbettino, 2010). Tirando le somme di anni di studi su guerra e immediato dopoguerra Ricci tracciò il bilancio dell’egemonia esercitata dallo statista trentino anche alla luce della crisi della cosiddetta Prima repubblica e del confronto con la vanità parolaia di inizio Duemila. I governi De Gasperi vararono Cassa del Mezzogiorno, adesione al piano Marshall, firma del Patto Atlantico (malgrado l’opposizione accanita delle estreme e, va aggiunto, i dubbi di tanti democristiani e del clero, diffidente verso il mondo anglo-americano, protestante assai più che cattolico), piano per il lavoro e impulso alle grandi opere che prepararono il “miracolo economico”.

De Gasperi, infine, con Luigi Einaudi, fu in Italia tra i veri fautori della scelta europeistica, imboccata all’indomani della guerra e del Trattato di pace del febbraio 1947. L’istituzione della Ceca e dell’Euratom suscitarono gli entusiasmi poi gelati dalla decisione della Francia di bocciare senza appello la Comunità europea di difesa. Si dice che al suo annuncio De Gasperi abbia pianto desolatamente. La via verso la Federazione si era bruscamente interrotta, proprio mentre la guerra della Francia per conservare l’impero coloniale nella lontana Indocina andava contro la sconfitta. Il ripiegamento verso la futura Europa delle nazioni (e dei nazionalismi: Charles De Gaulle) mise in ombra gli Statisti, come appunto De Gasperi, e riportò in auge i partiti, ancorati a rigidità ideologiche, fonte di lunghi ritardi sulla via del disgelo, avviato, promesso, poco promosso e di là da venire, malgrado la breve stagione di Kennedy, Kruscev e Giovanni XXIII.

e divulgatore

Nel 1996 Ricci dedicò ai figli Ilaria e Giovanni una raccolta di 26 articoli sotto il titolo “Storie della storia d’Italia”, pubblicata dalla Fiap (Federazione italiana associazioni partigiane, presieduta da Aldo Aniasi e con segretario il vulcanico Lamberto Mercuri). Nella prefazione il socialista Gaetano Arfé affrontò il nodo di cui abbiamo parlato la scorsa settimana a proposito dell’opera di Franco Bandini e Luciano Garibaldi. In Italia molti “divulgatori della storia” non facevano affatto “ricerca” ma, al più, frugavano in archivi alla ricerca di un “documento esclusivo” per fare un po’ di rumore. Ben diverso, precisò Arfé, era il metodo dell’allora vice-soprintendente dell’Archivio Centrale dello Stato, che sapeva inquadrare ogni episodio nella cornice della “lunga durata”: i problemi costitutivi dello Stato, l’assetto dei poteri, gli ideali che coniugavano le dirigenze consapevoli di fine Novecento alle non ancora del tutto esaurite culture politiche del Sette-Ottocento e alla conoscenza della storia senza barriere cronologiche né tematiche.

Un lustro dopo, Ricci pubblicò il saggio che ne documenta l’ampiezza degli orizzonti: “La Repubblica”, dedicato a suo padre, Dante. Uscì nella collana “L’Identità italiana” diretta da Ernesto Galli della Loggia per “il Mulino”, che già contava libri di Anna Foa, Piero Dorfles, Luciano Cafagna, Franco Cardini, Alessandro Campi, Nico Perrone… In sei capitoli, dai Comuni medievali alla vittoria della Repubblica nella “giornata particolare” del 2 giugno 1946, che “rappresentò la tormentata” (e, diciamo pure, risicata) “conclusione di un cammino” a segmenti discontinui, Ricci collocò il proprio saggio nella fioritura di studi sulla crisi del sistema-Paese, sul problema dell’Italia-Nazione, sulla morte della patria (tema all’epoca molto discusso) e sull’esistenza o meno di un patriottismo della Repubblica o, come alcuni scrivevano, di una “religione civile”. Erano anche gli anni nei quali il presidente Carlo Azeglio Ciampi ripropose agli italiani il canto nazionale, il tricolore, l’orgoglio della propria storia, ma senza alcuna indulgenza verso nazionalismo, isolazionismo, populismo, sibbene da europeo nato in Italia, come fu ricordato da chi, come Mario Draghi, ne condivise l’impresa di modernizzare l’Italia nel rilancio dell’europeismo.

Con quelle premesse di divulgatore scientificamente attrezzato Aldo G. Ricci condivise il progetto del mensile “Storia in Rete” (SiR) diretto da Fabio Andriola e affiancato da un comitato comprendente lui, Nico Perrone e Giuseppe Parlato e sorretto, dall’esterno, da Luciano Garibaldi.

In quell’ambito si ritagliò la rubrica mensile “Libri&Recensioni”.

Filosofia della storia

Vent’anni dopo, forse anche per l’amarezza dell’improvvisa sospensione dell’approdo di SiR in edicola, Ricci ha sentito l’urgenza di raccogliere 32 saggi (articoli, relazioni svolte in convegni…) dal titolo eloquente: “Elogio della Storia. L’Italia nella guerra civile europea 1914-1953”, pubblicato nella collana Passato-presente della Editrice Oaks, con partecipe prefazione di Ernesto Galli della Loggia. Come ha rilevato Stefano Folli, l’attualità del volume sta anche nella drammaticità dei tempi incalzanti. Mentre si moltiplicano i fronti di guerre sempre più devastanti e sanguinose, l’illusione della “fine della storia” e di una pace perpetua universale, libera da assilli ideologici e da rovelli morali, liquidati come moralismi dei tempi andati, si rivela per quello che era ed è: illusione di sottrarsi alla Storia, che torna a martellare prepotente sulla vita quotidiana e costringe anche Stati dalla vocazione neutralistica a schierarsi, ad armarsi e, anzi, a distribuire ai cittadini le istruzioni per la sopravvivenza in caso di guerre con armi “non convenzionali”.

Fra le decine di saggi, ripartiti in quattro sezioni tematiche (la Grande Guerra, quando, con Caporetto, l’Italia si scoprì Nazione; fascismo, antifascismo, resistenza; la Repubblica sociale italiana, riscattata da certo oblio storiografico perché dopo appena ottant’anni dall’unità l’Italia si scoprì “una Nazione con due Stati”, ognuno dei quali fonte giuridica; il dopoguerra) ne citiamo uno solo per suggerire al lettore la misura della tensione anche emotiva dello storico a cospetto di momenti salienti della breve storia dei popoli d’Italia accomunati nel regno e poi nella Repubblica italiana: “Il significato simbolico della tumulazione del Milite Ignoto”. È la relazione pronunciata da Ricci il 9 ottobre 2021 nel convegno svolto a Vicoforte (Cuneo), due passi dalla Basilica ove, su impulso della principessa Maria Gabriella di Savoia e il concorso del Presidente Sergio Mattarella, nel dicembre 2017 furono traslate le salme di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena. Il re, scrive Ricci con parole condivise, all’Altare della Patria si presentò «come una sorta di sommo sacerdote di un rito laico collettivo». Fu il “re soldato” che celebrò «il funerale di un commilitone, diventando simbolo e tramite della volontà e del cordoglio dell’intera Nazione». Perciò «il soldato senza nome, morto per la Patria al di fuori di schieramenti di parte, potrebbe rappresentare davvero ancora oggi il defunto che tutti possono onorare con una memoria almeno per una volta effettivamente condivisa. Un auspicio il mio, forse un sogno… ma sognare non costa nulla». Però, aggiungiamo, nella confusione dei “mala tempora” incombenti, il “sogno” consente di reperire il filo della filosofia della Storia animata da “pietas” e distinguerla da ogni “storiella”, intrisa di malanimo. È quanto Ricci suggerisce di fare.

DIDASCALIA: Aldo Giovanni Ricci (Novara, 1943). Sulla scia dei “Verbali dei governi 1943-1848”, ha pubblicato le introduzioni ai “Verbali del Consiglio dei ministri della Repubblica sociale italiana. Settembre 1943-Aprile 1945” (Roma, 2002, voll. 2) e ai “Verbali del Consiglio dei ministri. Maggio 1948-Luglio 1953” (Roma, 2005-2007, voll. 3), entrambi a cura di Francesca Romana Scardaccione: opere di riferimento per qualsiasi studio su quegli anni. Ricci ha anche concorso alla realizzazione di “Giovanni Giolitti al Governo, in Parlamento, nel Carteggio” (voll. 3, tomi 5, ed. Bastogi, 2007-2009): opera preceduta dall’individuazione sistematica di carte giolittiane presenti negli Archivi di Stato italiani. Quei volumi e “Giolitti, lo Statista della Nuova Italia” (ed. Mondadori, 2003,2012 e RusconiLibri, 2019) sono a disposizione del cattedratico, di un paio di sindaci di “luoghi giolittiani” (formula che introducemmo nel 1978 per il Convegno internazionale patrocinato da Sandro Pertini) e di altri che domandano “Ma quanti di noi sanno veramente chi fu Giovanni Giolitti?” e si propongono di riesumarlo in vista del centenario della morte (2028). È già fatto, da tempo. Però “repetita juvant”…

Aldo A. Mola

(da Il Giornale del Piemonte e della Liguria dell’8 dicembre 2024)

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