di Salvatore Sfrecola
Qualcuno deve aver convinto la Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che la separazione delle carriere sia cosa “buona e giusta”, che avremo, di conseguenza, “una giustizia più equa e più efficiente”. Insomma, che è necessario “differenziare finalmente il percorso di chi è chiamato a giudicare i cittadini da quello di chi ha l’incarico di muovere le accuse e rendere così più equilibrato il rapporto tra difesa e accusa nel corso del processo”. E questo senza che nessuno le abbia detto che la separazione delle carriere era nel “Piano di rinascita democratica” di Licio Gelli e Silvio Berlusconi, che, da Presidente del Consiglio, aveva indicato il suo avvocato per l’incarico di Ministro della giustizia, una nomina saltata solo per l’opposizione del Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro (A. Giannuli, Da Gelli a Renzi (passando per Berlusconi), Ponte alle Grazie).
Definita, dunque, “epocale” dalla premier, la condivisione della “riforma” è certamente diffusa anche nell’opinione pubblica tra coloro i quali sono convinti che l’appartenenza ad una stessa carriera induca spesso i giudici a condividere le tesi dei Pubblici Ministeri, trascurando che, in altra occasione, la politica denunci poche condanne a fronte di tanti rinvii a giudizio, specie in tema di reati contro la Pubblica Amministrazione. I magistrati, si fa notare, sono reclutati sulla base di un medesimo concorso, hanno una formazione comune, operano all’interno di un immobile, il Palazzo di Giustizia, che accoglie sezioni giudicanti e procura, per cui s’incontrano frequentemente e probabilmente si confrontano su iniziative d’ufficio. Se ne deduce, dunque, che questa promiscuità incide sul rapporto tra difesa ed accusa con la conseguenza di danneggiare la parte più debole, l’inquisito, l’imputato.
Pertanto, oltre ad un reclutamento distinto, si arriva anche a proporre che giudici e pubblici ministeri operino in palazzi diversi, in modo che sia più arduo che si incontrino, magari al bar per un caffè. Naturalmente nessuno giunge a vietare che in quel bar, o al circolo dove giocano a tennis, si possano incontrare avvocati, giudici e pubblici ministeri o giornalisti, quelli che, poi, ci raccontano dello stato delle indagini, dell’esito degli interrogatori, del contenuto delle intercettazioni telefoniche ed ambientali.
Oltre al reclutamento differenziato si prevedono due distinti organi di autogoverno al posto dell’attuale unico Consiglio Superiore della Magistratura (C.S.M.). Ipotesi criticate all’interno della magistratura, come abbiamo sentito dalle parole del Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati (ANM), Giuseppe Santalucia, il quale ribadisce che ogni magistrato adempie ai doveri del suo ufficio in ragione del ruolo al momento svolto e non dell’amicizia o del rapporto di colleganza con altro magistrato assegnato a funzioni diverse. Anche perché, in atto, già esiste una sorta di separazione tra magistrati giudicanti e requirenti, disciplinata dalle norme dell’ordinamento giudiziario, in base alle quali: “Il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, non è consentito all’interno dello stesso distretto, né all’interno di altri distretti della stessa regione, né con riferimento al capoluogo del distretto di corte di appello determinato ai sensi dell’articolo 11 del codice di procedura penale in relazione al distretto nel quale il magistrato presta servizio all’atto del mutamento di funzioni” (art. 13, comma 3 del Decreto Legislativo 5 aprile 2006, n. 160).
D’altra parte, osserva Giuseppe Santalucia, “il processo accusatorio, che fa parte del nostro sistema da oltre trent’anni, non implica e non esige una separazione delle magistrature, ma chiede una separazione delle funzioni. È dunque un fiacco argomento retorico, speso più e più volte anche dal ministro della Giustizia, quello per il quale la riforma s’ha da fare per adattare la Costituzione al codice di rito accusatorio. Né è più saldo l’altro pilastro della costruzione eretta a giustificazione della riforma, quello della mancanza di effettiva terzietà del giudice”. Aggiungendo che nessuno tra i sostenitori della riforma delle carriere spiega «perché, in questi oltre vent’anni dalla novella dell’articolo 111 Cost. con il riferimento al giudice, oltre che imparziale, anche terzo, non sia mai stata denunciata alla Corte costituzionale l’illegittimità dell’assetto ordinamentale e perché la Corte, che in tante occasioni ha utilizzato nei suoi scrutini il parametro della terzietà, non ha mai indicato al legislatore la necessità di una separazione delle magistrature; perché l’equidistanza dalle parti potrà dirsi realizzata se il giudice avrà di fronte un magistrato, sì di una magistratura separata ma dello stesso suo ordine giudiziario (perché la riforma non tocca l’unicità dell’ordine), e che in ogni caso sarà sempre a lui più vicino, siccome magistrato e magistrato dello stesso ordine.
Nel dibattito, i fautori della separazione usano anche un linguaggio accattivante che definisce il Pubblico Ministero l’“avvocato dell’accusa”, ma trascurano che il PM esercita l’azione penale non nell’interesse dello Stato persona giuridica ma dello Stato-ordinamento, cioè della legge, ragione per la quale l’azione penale è prevista in Costituzione all’art. 112 come “obbligatoria”. Una regola che si vorrebbe cambiare. L’azione penale diventerebbe discrezionale sulla base di indicazioni provenienti dal governo o dal Parlamento, sicché la punibilità di alcune condotte seguirebbe la valutazione della autorità politica del momento. Trascurando che negare “il principio di obbligatorietà significa intaccare anche il principio di uguaglianza” in quanto “solo un pubblico ministero indipendente può garantire un giudice indipendente” (P. Borgna e M. Cassano, Il Giudice e il Principe, magistratura e potere politico in Italia e in Europa, Donzelli Editore).
La separazione delle carriere finirebbe, dunque, per minare il fondamentale principio dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura da ogni altro potere dello Stato (art. 104 Cost), separando il potere giurisdizionale in due ordini distinti, sarebbe inevitabile sottoporre il P.M. alla direzione del potere esecutivo cui compete, tra l’altro, l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia, una ipotesi che è una “deriva inarrestabile” secondo Edmondo Bruti Liberati (Pubblico ministero. Un protagonista controverso della giustizia, Raffaello Cortina Editore).
D’altra parte, il dubbio che si intenda sottoporre Pubblico Ministero al controllo del potere politico sta nella storia d’Italia, perché un tempo il “Procuratore del Re” era il “rappresentante del potere esecutivo presso l’autorità giudiziaria”. Si dirà che se nell’Italia liberale c’era questa regola perché non ripristinarla nell’Italia della Repubblica? Anche se poi i Procuratori del Re hanno dimostrato sempre una straordinaria indipendenza, come dimostra il fatto che Mussolini creò un “Tribunale speciale per la difesa dello Stato”, evitando di attribuire quella difesa che era, in realtà, del regime, ai magistrati ordinari.
* Riflessioni in vista della stesura di un articolo per “Opinioni Nuove”